-  Antonio Arseni  -  10/05/2016

Il risarcimento del danno da lesione della reputazione provocato dai mass-media: analisi degli attuali (2016) orientamenti della Cassazione. Antonio Arseni

La violazione del diritto alla reputazione, intesa alla stregua di quella considerazione che un individuo gode nell'ambiente sociale in cui vive,  si configura allorché la notizia diffusa  non è vera oltre che non pertinente, rispetto l'interesse pubblico alla sua conoscenza, e non connotata della correttezza formale nella esposizione (continenza). Il  pregiudizio che ne deriva è un danno conseguenza che va inteso in senso unitario, senza distinguere far reputazione personale e professionale, trovando fondamento nell'art. 2 Cost., in particolare nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale. Una volta adempiuto all'onere di allegazione attraverso la ricostruzione fattuale relativa alle dichiarazioni diffamatorie, tale da fondare la presunzione di discredito, il soggetto leso ha diritto di essere risarcito del danno non patrimoniale da liquidarsi equitativamente, fatto salvo quello patrimoniale se ed in quanto verificatosi e compiutamente dimostrato.

Viviamo nell'epoca della informazione in cui quelli che vengono comunemente chiamati mezzi di comunicazione  di massa ci trasmettono notizie che accrescono le nostre conoscenze non senza determinare le nostre scelte tanto da far dire che essa costituisce un quarto potere.

La produzione, infatti, dell'informazione per certi versi è importante quanto lo è la produzione di beni e servizi, rappresentando una risorsa fondamentale della vita democratica di una nazione.

Grande importanza ,viene, dunque assegnata all'informazione se ed in quanto sia in grado di parlare quello che è stato definito "linguaggio della verità", che va comunque perseguita in un contesto in cui il cronista ha il compito di  attento osservatore e divulgatore misurato dei fatti che direttamente percepisce e sui quali manifesta la propria opinione.

Questa breve premessa ci permette di entrare subito nel vivo dei principi giuridici che regolano la materia, "stretta" tra il diritto di cronaca o di critica, entrambi presidiati costituzionalmente, e quello contrapposto, attinente la reputazione del soggetto al quale l'informazione si riferisce ed appartenente al novero degli essenziali beni della persona.

Secondo la definizione dell'art. 595 c.p., la reputazione include sia l'onore in senso oggettivo, sia quello in senso soggettivo: il primo è la stima della quale l'individuo gode nella Comunità in cui vive ed opera, come il patrimonio morale riconosciutogli dai consociati o come il senso della dignità personale nella opinione degli altri; il secondo è inteso come sentimento di ciascuno della propria dignità morale o della somma delle qualità che ognuno di noi attribuisce a sé stesso.

Nella reputazione si fa rientrare anche il decoro professionale, ossia l'immagine che un soggetto ha costruito di sé nel proprio ambiente di lavoro.

La reputazione di una persona, quindi, consiste nella proiezione verso l'esterno dell'insieme dei suoi valori  che le vengono riconosciuti dal corpo sociale e che non sono solo le qualità morali, ma qualsiasi aspetto in cui si esplica la vita umana e l'attività economica, politica, sociale.

Una recente sentenza della Cassazione 14/03/2016 n° 4897, bene definisce il diritto di cronaca e quello di critica, laddove il primo si concretizza nella esposizione dei fatti che presentano interesse per la generalità, allo scopo di informare i lettori, mentre il secondo consiste nell'apprezzamento e nella valutazione di fatti, nella espressione di un consenso o dissenso rispetto ad una certa analisi.

Cronaca e critica sono, quindi, due attività contigue nella realtà ma funzionalmente diverse in quanto, ancorché riguardino gli accadimenti di pubblico interesse ed i soggetti che vi sono coinvolti; la prima si risolve in una esposizione dei fatti con lo scopo di informare il lettore, per cui deve essere fondata sulla più scrupolosa obiettività, mentre la seconda consiste, invece, in una attività valutativa rispetto le opinioni e condotte altrui, per cui i limiti  esimenti  sono più pregnanti allorché intercettano l'altrui reputazione.

Se, dunque, l'esigenza della obiettività sta alla base del diritto di cronaca, non altrettanto può dirsi per il diritto di critica che, non concretizzandosi nella  narrazione dei fatti ma nella espressione di una opinione o giudizio, non può essere rigorosamente imparziale ed oggettiva, poiché è ineludibile espressione del retroterra culturale e formativo di chi lo formula (Cass. Penale 16/11/2004 n° 6416).

Le differenze appena descritte si riflettono sulle condizioni che legittimano l'esercizio dei rispettivi diritti.

Ed. invero, come precisato dalla Cassazione (nella ricordata sentenza 4897/2016), per il legittimo esercizio del diritto di cronaca occorrono tre condizioni: a) la verità della notizia pubblicata; b) l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); c) la correttezza formale nella esposizione (c.d. continenza). In questo senso, vedasi anche Cass 04/07/1997 n° 41; Cass. 25/05/2000 n° 6877.

Nello specifico,  la cronaca deve riferire fatti veri nel vero senso della parola e non falsificati come quando si ometta scientemente di portare a conoscenza aspetti o argomenti idonei a stravolgerne il significato, ovvero "quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive ovvero da sottintesi, accostamenti, allusioni, insinuazioni, sofismi,  obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore (o ascoltatore) rappresentazioni della realtà obiettiva; il che si esprime con la formula che "il testo va letto nel contesto" (Cass. 25/08/2014 n° 18174).

Infatti, "la cronaca ha come fine l'informazione e perciò consiste nella mera comunicazione delle notizie per cui, se il giornalista, sia pur nell'intento di dare una compiuta informazione, opera un propria ricostruzione di fatti già noti, ancorché nel sottolineare dettagli, all'evidenza propone una opinione" (Cass. 25/08/2014 n° 18174).

Per quanto riguarda l'interesse pubblico, è necessario "un bilanciamento" che è ravvisabile nella pertinenza della informazione rispetto all'interesse della opinione pubblica alla conoscenza del fatto, cui si accompagna la continenza, intesa come correttezza formale della esposizione e non eccedenza da quanto strettamente necessario per il pubblico interesse (v. Cass. 27/08/2015 n° 17211).

Per il legittimo esercizio del diritto di critica, proprio perché consiste in una manifestazione di una opinione, indubbiamente riconosciuto a ciascun cittadino sulla base dell'art. 21 della Costituzione,  essa può anche non essere obiettiva ma deve pur sempre corrispondere all'interesse sociale alla comunicazione ed a quello della correttezza del linguaggio senza mai sfociare in ingiurie ed offese gratuite, senza mai trascendere in attacchi personali diretti a colpire sul piano individuale la figura del soggetto criticato (v. Cass. 748/1999; Cass. 2661/2013; Cass. 4897/2016).

Il diritto di esprimere dissenso può anche manifestarsi in toni aspri ma civili che trovano un limite nella continenza espressiva.

Nella valutazione del diritto di critica deve ricercarsi un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello a che non siano introdotte limitazioni alla formazione del pensiero costituzionalmente garantita.

Mette conto di rilevare che nella pratica spesso si verifica che la esposizione di fatti determinati (cronaca) sia resa insieme alle opinioni (critica) di chi la compie, in modo da costituire nel contempo esercizio del diritto di critica e di  cronaca. Ciò rende necessario quel bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione, inteso come considerazione della persona da parte dei consociati con quello della libera manifestazione di pensiero, costituzionalmente garantita; un bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all'interesse della opinione pubblica alla conoscenza non tanto del fatto oggetto di critica, quanto della sua interpretazione (v. Cass. 4897/2016 ma anche la meno recente Cass. 20/06/2013 n° 15443).

Un particolare cenno va fatto alla c.d. satira, soprattutto politica, cui spesso si ricorre per formulare giudizi critici con riguardo ai comportamenti altrui.

In una recente sentenza della S.C. (17/09/2013 n° 21235) la satira è stata definita "come una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica, sicché, diversamente dalla cronaca, è sottratta  all'obbligo di riferire fatti veri, in quanto esprime, mediante il paradosso e la metafora surreale, un giudizio ironico su un fatto, pur soggetto al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguita. Conseguentemente nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o dal comportamento preso di mira e non si risolvano in una espressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato.

In altri termini, ciò che determina l'abuso del diritto è la gratuità delle affermazioni non pertinenti ai temi in discussione, come quando si cerca di screditare l'avversario politico mediante la evocazione di una sua pretesa indegnità od inadeguatezza personale piuttosto che a criticarne i programmi o le azioni.

Per rimanere in detto ambito, che registra i casi  numericamente più consistenti in tema di lesione dell'altrui reputazione, ad esempio è stata ritenuto offensivo l'uso del termine "spia" riferito ad un uomo politico (Cass. 27/01/2015 n° 1434).

In questi ultimi anni, la diffusione dei social network ha provocato una crescita esponenziale dei casi di violazione dell'altrui reputazione in ragione della sempre più consistente diffusione di messaggi offensivi, considerata idonea a configurare ipotesi aggravata del reato di diffamazione (da ultimo v. Cass. 01/03/2016 n° 8328 in un caso ove l'imputato aveva diffuso diverse immagini offensive attraverso Facebook, capace di raggiungere un numero indeterminato di soggetti, in cui nel rivolgersi ad altra persona l'aveva definita "parassita", "cialtrona", "mercenaria": espressioni inequivocabilmente offensive).

In conclusione occorre sottolineare, come anche chiarito da Cass. 05/04/2016 n° 6540, che:

in quel bilanciamento di cui sopra si è parlato, tra due temi costituzionalmente protetti, il diritto di critica (art. 21 Cost.) e quello alla dignità personale (art. 2 e 3 Cost.), occorre dare la prevalenza alla libertà di parola, senza la quale la dialettica democratica non potrebbe realizzarsi;la diffamazione non sussiste solo quando le accuse abbiano un fondamento ma anche quando l'accusatore sia pienamente e consapevolmente (ancorché erroneamente) convinto di quanto afferma;i fatti esposti, se non veri, devono essere ritenuti tali in base ad una giustificata e ragionevole rappresentazione della realtà ed inoltre devono essere strettamente pertinenti alla situazione di fatto per le quali si sollecita l'intervento delle Autorità.

A tal riguardo occorre ricordare, sulla base del principio della c.d. verità putativa, che deve escludersi la responsabilità del giornalista per l'esercizio del legittimo diritto di cronaca non solo quando vengono riferiti fatti veri, ma anche quando si tratti di fatti che apparivano veri sul momento (cfr Cass 23206/2015).

Una recente sentenza della Corte Regolatrice 13/01/2016 n° 349  ha precisato che il danno alla reputazione è risarcibile sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi l'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c. (condotta illecita, ingiusta lesione di interessi tutelati dall'Ordinamento) e che devono essere specificamente allegati e provati (v. anche Cass. 30/09/2014 n° 20558). Tra questi, sulla base di un interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c, distinta da quella di cui all'art. 2043c.c, rientra quello in cui il fatto illecito abbia leso in modo grave diritti inviolabili, come tali oggetto di tutela costituzionale. Con la differenza che la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, non individuati ex ante dalla legge, ma selezionati caso per caso dal Giudice.

Costituendo, dunque, l'onore e la reputazione diritti inviolabili della persona, la relativa lesione fa sorgere il diritto al risarcimento dei danni a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato (v. Cass. 02/12/2014 n° 25423).

La diffamazione, lesiva del diritto alla reputazione, può essere operata a mezzo stampa, internet  o a a mezzo Radio o TV, come nell'emblematico caso deciso da una recente sentenza della Cassazione 27/04/2016 n° 8397 in una vicenda che aveva visto coinvolto un magistrato inquirente che era stato accusato, durante una trasmissione televisiva di venti anni fa, di aver "fabbricato" delle prove false volte a dimostrare un incontro altrimenti indimostrabile e di aver umiliato persone  detenute, fino a farle morire.

In primo e secondo grado il soggetto che aveva pubblicamente riferito tali circostanze veniva condannato al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal magistrato e la sentenza confermata in Cassazione che così ha avuto modo di ribadire:

che il danno non patrimoniale, declinabile alla stregua di un danno- conseguenza, necessita di "specifica allegazione" consistente nella affermazione di fatti rilevanti posti a fondamento della pretesa risarcitoria, vale a dire delle circostanze considerate tali dalle norme  inerenti;che al riguardo, "l'onere di allegazione è adempiuto mediante la puntuale descrizione della condotta che sia da considerare fonte di responsabilità e del concreto tipo di pregiudizio lamentato, con l'aggiunta degli elementi per il computo dell'equivalente monetario in base necessariamente equitativa;che una volta adempiuto l'onere di allegazione attraverso la puntuale ricostruzione fattuale relativa alle dichiarazioni rese dal soggetto responsabile dell'illecito, idonee a fondare la presunzione del discredito della persona che le dichiarazioni diffamatorie hanno provocato, comportando esse una diminuzione della considerazione della persona offesa da parte di consociati, si può dar luogo alla liquidazione equitativa ex art. 1226 CC, tenendo conto dei criteri infra precisati.

In tale prospettiva, vedasi la eloquente  Cass. 2/7/1997 n. 5994 secondo cui " in tema di risarcimento del danno per fatto illecito, la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale sfugge necessariamente ad una valutazione analitica restando affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, anche se il giudice è tenuto ad indicare i criteri seguiti per una quantificazione che sia proporzionata alla gravità del reato ed alla entità delle sofferenze patite dalla vittima, tenendo conto di tutti gli elementi della fattispecie, tra cui l'età, il sesso, il grado di sensibilità del danneggiato, la gravità ed intensità dell'offesa in sé, la modalità di presentazione della notizia, le condizioni sociali del danneggiato in rapporto alla sua collocazione professionale e, più in generale il suo inserimento nel contesto sociale, l'autorevolezza dell'editore ed il prestigio dell'autore, la capacità economica del responsabile e l'utile che questi abbia tratto dall'illecito". Nello stesso  senso, vedasi, ex multis, anche Cass. 03/12/2007 n° 25171, Cass. 04/06/2007 n° 12929 (che, peraltro, ha ritenuto configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale in subjecta materia anche nei confronti di una persona giuridica), nonché Cass 18.9.2009 n. 20120.

A questo punto è utile richiamare la recente pronuncia della  Cass. 25/08/2014 n° 18174  la quale ha precisato come il danno arrecato alla reputazione deve essere inteso in senso unitario senza distinguere tra "reputazione personale" e "reputazione professionale" trovando, la tutela di tale diritto, il fondamento nell'art. 2 Cost. ed in particolare nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale.

Ed invero, sulla base dell'ormai acquisita nozione "monistica" dei diritti della persona umana, con fondamento costituzionale," l'individuo non è considerato come un punto di aggregazione di valori (tra cui in primis, ma non esaustivamente, i diritti inviolabili), inteso come somma degli stessi, sempre autonomamente scindibili, ma come un unicum, per cui la lesione di uno qualunque di tali valori, è sotto il profilo qualitativo sempre lesione della persona umana"

In tale contesto, particolare importanza riveste il patema d'animo sofferto dalla vittima dell'illecito e la sofferenza psicologica del diffamato, in quanto rappresentano un utile parametro ai fini della determinazione del danno. È accaduto che la concreta determinazione nella misura del risarcimento, è stata modulata in funzione del disagio e delle ripercussioni subite da danneggiato in ambito sociale e familiare (v. Tribunale di Milano 19/01/2009 e Tribunale di Bari 22/05/2010 in Giur. Merito 2011, 720) distinguendosi un danno morale inteso come sofferenza connessa ad "un diverso sentire del danneggiato" e danno esistenziale connesso ad un diverso modo di relazionarsi con l'ambiente sociale (v. Tribunale di Marsala 03/07/2007 e Tribunale di Trani 28/05/2007 in red. Giuffré 2007).

Non è mancata l'occasione per agganciare la valutazione equitativa - sulla base del rilievo circa le ripercussioni della diffamazione sulla salute della vittima - ai parametri propri della liquidazione del danno biologico.

Questo per dire, ad esempio, che gli effetti depressivi medico-legalmente accertabili, riconducibili all'interiore dolore conseguente una indebita diffamazione, possono sostanziare la liquidazione di un danno biologico che, ovviamente, dovrà essere allegato e provato come del resto quello riconducibile agli aspetti dinamico-relazionali di una vita che cambia (danno esistenziale) per effetto dell'altrui ingiusta diffamazione.

Ciò che qui è importante dire è il fatto che, una volta dimostrata la lesione della reputazione attraverso gli indicati parametri, si dice che il danno è in re ipsa in quanto costituito dalla diminuzione o privazione di un valore benché non patrimoniale della persona umana (Cass. 10/05/2001 n° 6507; Cass. 18/09/2009 n° 20120; Cass. 28/09/2012 n° 16543).

In questo senso, la domanda normalmente viene rigettata qualora la informazione non sia obiettivamente diffamatoria, ovvero qualora sussista una delle tre scriminanti rappresentate dalla verità della notizia, dall'interesse pubblico alla sua diffusione, dalla continenza espressiva e non per omessa prova della dimensione del danno giacché soccorrono, in tal caso, i principi in materia equitativa, salvo che non risulti positivamente l'assenza del pregiudizio.

L'entità di quest'ultimo può essere diminuita dagli effetti positivi provocati dalla pubblicazione della sentenza o della rettifica (v. Cass. 24/04/2008 n° 10690; Cass. 26/06/2013 n° 16040) o in ragione della stessa condotta del soggetto leso ex art. 1227 c.c. (ad esempio una reazione scorretta della vittima successiva alla diffamazione o, come nel caso esaminato dal Tribunale di Palermo 11/06/2002, in Danno Resp. 2002, 1237, in cui negligentemente la vittima della diffamazione non si era attivata per avvalersi del diritto di rettifica ad essa spettante, idonea ad evitare l'aggravio del danno).

Effetti simili potrebbero ricondursi al fatto che la vittima della diffamazione gode di una reputazione non proprio immacolata a causa di comportamenti socialmente censurabili effettivamente dalla stessa tenuti.

Per concludere, va ricordato che, allorché si verifichi la lesione dell'immagine che una persona gode nell'ambiente sociale, è risarcibile, oltre (e soprattutto) il danno non patrimoniale, rappresentato - come danno conseguenza - dalla diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali quella stessa persona abbia ad interagire, il danno patrimoniale, se verificatosi e se  compiutamente dimostrato (v., da ultimo, Cass. 27/04/2016 n° 8397 già citata).




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