-  Mottola Maria Rita  -  31/12/2015

3° COMANDAMENTO. RIPOSO E LAVORO – Maria Rita MOTTOLA

Abstract: Parlare di festa oggi dopo i fatti di Parigi può sembrare blasfemo. Ma anche parlare solo dei morti di Parigi è blasfemo, anzi pericoloso. Parlare di festa oggi ha un senso: la festa e il riposo danno un senso alla vita e al lavoro. Un lavoro violato della sua essenza, snaturato nelle sue finalità, privato del suo senso di sacralità. 'Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini (Lc, 2 51-52)

Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.

1. Il riposo come momento del lavoro.

Se l'uomo si realizza attraverso il fare, egli cresce, si arricchisce spiritualmente, si soddisfa affettivamente, si ritempra nel corpo e nell'anima, con la contemplazione, il silenzio, l'ascolto, il gesto, nell'ozio, inteso come non occuparsi e non preoccuparsi di nulla, disponibile e accogliente alle esperienze più vitali, quelle delle emozioni. Non è necessario scomodare Aristotele per comprendere che con il lavoro retribuito si acquista il riposo, quel sabato che anche Dio si concede al termine della Grande Opera. Forse sarebbe più opportuno ricordare che, secondo il filosofo greco, le leggi della logica non possono prescindere dalle leggi della realtà, in un mondo ove il principio di realtà sembra scomparso. Se la realtà è raccontata alterandone la sua essenza, se la realtà diventa lo specchio del pensiero ideologico, la verità si frantuma in un caleidoscopio di nullità, e l'uomo perde la sua interezza e unicità.

E' difficile osservare i cambiamenti radicali che il lavoro, e quindi il riposo, ha subito negli ultimi vent'anni. Le lotte operaie e contadine (nelle risaie del vercellese, per esempio) dei primi anni del novecento avevano ottenuto orari di lavoro più umani che consentivano un certo riposo. Sembrava che la meccanizzazione e il così detto progresso scientifico avrebbero ottenuto per l'uomo l'affrancamento dalla fatica e dall'eccesso di lavoro. Dicevamo che è difficile rendersi conto dei cambiamenti perché sono avvenuti lentamente e sostenuti dai vertici delle organizzazioni sindacali che avevano tratto la loro forza e la loro rappresentanza proprio dalle lotte per le 8 ore. La convinzione da parte sindacale dell'utilità dello smantellamento del concetto di lavoro, così faticosamente costruito, ha radici nei fatti post bellici e in particolare nella visione ideologica riassunta nel manifesto di Ventotene. Gli intellettuali di allora erano convinti che il popolo non avesse la benché minima capacità critica e consapevolezza di sé, in altre parole, credevano che il popolo fosse veramente il bue all'aratro.

L'ideale della necessità di un'Europa unita venne a prevalere su quello che il popolo italiano desiderava: il recupero della propria nazione, del riscatto dopo una guerra non voluta e persa tragicamente, della volontà di costruire un futuro migliore per i propri figli. Ma di quello che il popolo voleva e chiedeva a certa politica non interessava. Non interessava soprattutto offrire possibilità di crescita culturale. Se il popolo è istruito e colto capisce, esattamente cosa sta succedendo, risponde senza troppe difficoltà alla domanda qui prodest? Perché in ogni questione politica, interna o estera, questa è la domanda delle domande: a chi conviene, chi ne trae vantaggio?

2. Gramsci e la censura. Il lavoro nella Costituzione.

Del resto è poco noto, ma non per questo meno grave, l'atto di censura promosso da Togliatti nei confronti degli scritti di Gramsci. Se pur Togliatti conserva gli scritti dal carcere e le lettere, ne consente una pubblicazione parziale e artefatta, non solo non condividendone lo spirito, ma forse neppure comprendendolo*. Il concetto gramsciano che qui interessa è quello di egemonia culturale quelle varie forme di dominio culturale che determinano un condizionamento intellettuale e morale e necessaria a un gruppo sociale per imporsi agli altri e assumere il potere. Questo concetto per Gramsci era il presupposto per consentire alle classi subalterne 'proletarie' di poter, gradatamente assumere il potere, attraverso la cultura.

Gli studi di Tylor offrono una prima definizione moderna di cultura a carattere antropologico. Il concetto di cultura è visto come l'insieme complesso di conoscenze, credenze, principi morali, abitudini e stili di vita di una comunità. Non esiste, in altre parole, una cultura universale ma tante e variegate culture, quelle diversità che ogni luogo genera e, per così dire, ogni cielo, nel suo variegato colore, determina. La cultura in cui un popolo si riconosce nasce dal quotidiano, nell'identificazione dei ruoli, nelle aspettative, nelle credenze e nei miti, e anche e soprattutto nei riti che si sviluppano per dare significato al mondo e ridurre le paure e le incertezze, per dare consistenza al proprio sé, per creare una identità collettiva.

Le teorie gramsciane intendevano costruire una cultura proletaria così da poter consentire al proletariato di divenire una classe dirigente e egemone, così come la borghesia attraverso la sua cultura era divenuta la classe dominante dopo la sua rivoluzione, la rivoluzione francese del 1789.

'Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l'uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà cancellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell'umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore, così bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, più deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell'io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi'**

La culturizzazione avvenne e si trasformò in political correct, in concetti ben diversi da quelli costruiti nei secoli e propri della cultura italiana, in manipolazioni della realtà e quindi della verità. Tutto ciò che è stato detto e promosso come progresso culturale è frutto di una visione ideologica e, in quanto tale, ovviamente, ben lontana dalla verità, da inculcare e promulgare per un desiderio di egemonia, ancora una volta, dei pochi sui molti. Ma l'approfondimento di tale tematica sarà oggetto di altro saggio a cui si rinvia.

Ciò che qui, ancora una volta, interessa è portare all'attenzione del lettore l'assurdità della costruzione di un mondo che, all'apparenza è costruito per il benessere comune, ma in realtà è diretto a dare ampia attuazione ai principi del più retrivo e violento capitalismo, e come tale forma di 'culturizzazione' sia posta in essere proprio ed esattamente dalle forze che si autodefiniscono di sinistra e progressiste e che, all'apparenza, dovrebbero tutelare le classi più deboli.

3. Il lavoro senza orario. La nuova schiavitù.

'L'orario di lavoro è un parametro vecchio per calcolare la retribuzione', sono parole del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti che continua aggiungendo: 'è giunto il momento, di immaginare contratti di lavoro che non abbiano come unico riferimento il rapporto ora/lavoro ma misurare l'apporto all'opera. La misurazione ora/lavoro è un attrezzo vecchio che frena rispetto a elementi di innovazione'. Secondo il ministro, per essere 'efficaci ed efficienti sul lavoro abbiamo modificato molto i nostri ritmi, i nostri cicli biologici, ma oggi la tecnologia ci consente più libertà'. In altre parole il lavoratore andrebbe pagato secondo un parametro in relazione lavoro/opera. E aggiunge (ed è qui che tutto torna!) che 'il lavoro è tema di cultura su cui si deve lavorare, dobbiamo immaginare una forma di partecipazione dei lavoratori all'impresa, per la condivisione dei risultati aziendali' ( http://www.avvenire.it/Politica/Pagine/poletti-superare-ora-lavoro.aspx).

Cosa distingue il lavoro dalla schiavitù? La possibilità che il lavoro abbia un termine, una sosta, una interruzione, che esistano delle pause e una fine dell'età lavorativa. Perché anche lo schiavo avrà quanto gli necessita per vivere in termini di cibo e beni di primo soccorso, e questo la nuova 'cultura' del lavoro non nega, offrendolo a mezzo retribuzioni sempre più limitate e sufficienti alla mera sussistenza e non certo a garantire una esistenza libera e dignitosa. Ora, se non esiste più il parametro dell'orario, quando il lavoro avrà termine? Quando l'impresa non potrà più pretendere la prestazione lavorativa? E per i lavori che non 'costruiscono' un'opera? Quale relazione economicamente quantificabile esiste nell'assistenza infermieristica, nel lavoro di una cassiera, o nell'insegnamento universitario? E anche per le imprese manifatturiere è un ritorno al lavoro a cottimo? E' un ritorno a una concezione lavoristica dell'epoca della rivoluzione industriale, un'involuzione inaccettabile.

E' un ministro di un governo, certo un governo che trae il suo potere da norme incostituzionali e dichiarate tali, ma pur sempre un governo che si autodefinisce di sinistra, o meglio progressista, a parlare così. A quale 'cultura' si può mai riferire una simile proposta? La risposta è fin troppo semplice al neoliberismo, che di nuovo a ben poco, visto che fu promulgato dalla scuola di Vienna e sostenuto da Friedrich August von Hayek, fiero oppositore dell'economia pianificata ma anche di John Maynard Keynes.

Le teorie del libero mercato naufragarono nella Grande Depressione e nella crisi del 1929 e furono superate nell'epoca post bellica dai principi costituzionali, non solo in Italia. Purtroppo, non sono state sconfitte, e ritornano a riproporsi come la soluzione di ogni male. (Così tanto per far comprendere come la comunicazione e la politica sia preda di ideologia e non fonte di discussione e di un pensiero politico, si può sottolineare come von Hayek proponesse una sorta di reddito di cittadinanza, poiché escludeva l'opera dello Stato in materia economica e diretta alla piena occupazione. Egli, infatti, riconoscendo il pericolo di un popolo di diseredati, ammetteva forme assistenzialistiche. Il lettore riesce a scorgere la 'insignificante' differenza tra i concetti costituzionali di dignità e di realizzazione lavorativa, di raggiungimento della democrazia piena attraverso il lavoro e il concetto assistenziale di reddito di cittadinanza? Tra i padri Costituenti Pietro Calamandrei, fine giurista di estrazione liberale, manifestò subito le sue perplessità per l'introduzione nella Costituzione di articoli che egli riteneva, giuridicamente non ascrivibili quali 'norme', non suscettibili in particolare di sanzione, ma egli divenne anche fiero sostenitore di quella Costituzione economica e sociale che sola poteva garantire il futuro, perché come sottolineava egli stesso, la Costituzione italiana non è frutto di una rivoluzione ma è l'inizio, il propulsore di una rivoluzione, soggetta a cambi di rotta e a inevitabili minacce da parte di revisionisti e nostalgici del passato neoliberista.

'L'art. 34 dice: I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere più alti gradi degli studi". Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra Costituzione c'è un articolo che è il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l'avvenire davanti a Voi. Dice così: E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell'articolo primo – L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c'è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un'uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società' (Pietro Calamandrei, discorso 26 gennaio 1955, Milano).

4. I ritmi della vita. Privazione del senso e allontanamento dalla realtà.

Cosa è la vita senza la morte? Occorre definire, limitare, per così dire incorniciare la vita, darle una dimensione, collocarla nel tempo, per assaporarla veramente, per comprenderla appieno (http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=48843&catid=154&Itemid=401&mese=12&anno=2008). Escludere il senso della morte porta a escludere il senso della vita, a vivere in una pseudo realtà, in un mondo privo di domande e soprattutto di risposte. La cultura postmoderna è priva della cultura della morte, semplicemente la ignora e così facendo non esprime alcun pensiero reale sulla vita. La vita ha ritmi collegati alla luce, all'andamento delle stagioni, al giorno e alla notte, alternanze indispensabili all'equilibrio. Le menti perverse dei torturatori utilizzano la veglia condizionata, mantenendo il detenuto sveglio per ore e giorni, o la stanza bianca. Bianca perché tutto è bianco, privo di colore e di rumore, tutto è attenuato e privo di possibilità sensoriali. Tale trattamento conduce ovviamente alla follia. Certamente usato in Iran, fu adoperato contro la Ulrike Meinhof, giornalista fondatrice delle RAF, nella Germania occidentale degli anni di piombo. L'alterazione ritmica dei cicli di vita veglia-sonno, lavoro-riposo ha evidenti influssi sull'equilibrio psichico, l'isolamento assoluto, la privazione di contatti sociali e di stimoli sensoriali (luce, buio, rumori, suoni, sapori, colori) condizionano drasticamente le condizioni fisiche e psichiche, sino a distruggere le funzioni vegetative basilari (a dimostrazione della necessità primordiale di rapporto con gli altri o, per lo meno, con il mondo esterno a noi) e la stabilità emotiva, disorientamento nel tempo e nello spazio, perdita della memoria (un ragazzo iraniano ha raccontato di aver perso l'immagine del volto dei suoi genitori, dopo giorni di isolamento assoluto nella stanza bianca) difficoltà di concentrazione e di pensiero, perdita della proprietà del linguaggio e della comprensione, sino a allucinazioni e alla follia.

Eliminare i ritmi della vita, delle giornate, delle stagioni, costruire una vita artificiale senza interruzione porta a una distorsione della percezione della realtà, decisamente funzionale al sistema che si sta cercando di instaurare, un sistema che esclude i molti (vorremmo dire i tutti) per dare ricchezza a un manipolo di 'eletti', o meglio di autoeletti.

5. Il concetto del lavoro luterano e europeista.

Ma escludere il riposo e la festa porta a far perdere il senso del lavoro, lavoro che diventa schiavizzante attraverso un processo manipolatorio della realtà, tendente a far apparire la libertà dall'orario come una conquista. Il codice civile del 1865 del Regno di Italia all'art. 1628 c.c. vietava il lavoro a tempo indeterminato considerandolo assimilabile alla schiavitù, in nome quindi della libertà individuale. Tale affermazione nella sostanza favoriva gli imprenditori che potevano avere a disposizione masse di operai, soprattutto donne e bambini, potendosi liberare facilmente del personale non gradito al termine del periodo lavorativo temporaneo. Del resto la concorrenza era feroce nel libero mercato e l'unica possibilità per aumentare i guadagni era aumentare la produttività (l'inferenza del guadagno sui costi per unità d prodotto. In altre parole riducendo il salario e imponendo orari disumani sino a 14-16 ore al giorno). Nonostante questo la domenica si faceva festa (era questo un motivo per escludere gli uomini adulti dal lavoro preferendo donne e bambini. Gli uomini si ubriacavano spesso e il lunedì erano inetti al lavoro. Da qui la legislazione di tutela del lavoro femminile e minorile nel ventennio fascista che temeva disordini da parte degli operai uomini privi di occupazione, e rendendo più oneroso e vincolato il lavoro infantile e femminile, induceva i 'padroni' ad assumere personale maschile *** ).

Non parlare della festa e del riposo è un altro modo per non parlare di lavoro, per non elaborare un'idea di lavoro attuale e concretamente ancorata al reale. La realtà è distorta, deve essere distorta, e, per tornare all'economista neoliberale che ci ha occupato all'inizio, coloro che hanno i mezzi economici di controllo debbono controllare anche i fini a cui indirizzare, non tanto la propria opera di costruzione della società, bensì, molto più sottilmente, tutti gli altri per cui vivere. In altre parole, per sostituire un ipotetico regime totalitario comunista, è opportuno manipolare le conoscenze e le coscienze, per indurre a credere ciò che strumentalmente è utile al libero mercato. E', dunque, operazione di propaganda affermare che il lavoro debba essere svincolato dall'orario, pericolosa operazione di propaganda, diretta alla costruzione di un'idea di lavoro, ideologicamente orientata agli obiettivi del libero mercato: lavorare, lavorare tanto per un basso salario e, possibilmente, lavorare sempre.

* Mauro Canali, Il tradimento, Marsilio2013

**Antonio Gramsci, Socialismo e cultura, Il Grido del popolo, 29 gennaio 1916

*** Maria Vittoria Ballestrero "Dalla tutela alla parità: la legislazione italiane sul lavoro delle donne" – Il Mulino 1979




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