-  Gasparre Annalisa  -  08/11/2014

35 KG DI PESCE ANDATI A MALE, CONDANNATA TITOLARE DI PESCHERIA - Cass. pen. 45918/2014 - A.G.

Il titolare della pescheria è stato condannato per violazione del Testo Unico sulla sicurezza alimentare per aver detenuto ben 35 kg di pesce in cattivo stato di conservazione, oltre che congelato abusivamente. E' evidente, secondo l'accusa, che il pesce era detenuto per essere venduto, data l'entità. Il disperato tentativo della difesa diretto a convincere i giudici sulla destinazione familiare dei prodotti ittici invenduti non ha fatto centro. Il quantitativo rinvenuto era del tutto incompatibile con un uso familiare, talché non poteva convincere la tesi che escludeva la destinazione del prodotto ai consumatori.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 settembre – 6 novembre 2014, n. 45918 - Presidente Squassoni – Relatore Andronio

Ritenuto in fatto

1. - Con sentenza del 21 maggio 2013, il Tribunale di Trani - sezione distaccata di Molfetta ha condannato l'imputato alla pena dell'ammenda per il reato di cui all'art. 5, lettera b), della legge n. 283 del 1962, perché, quale titolare di una pescheria, deteneva per la somministrazione all'interno di un frigo congelatore 35 kg di prodotti ittici in cattivo stato di conservazione e congelati abusivamente.

2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto personalmente ricorso per cassazione, rilevando, con unico motivo di doglianza, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione quanto alla ritenuta inverosimiglianza della tesi difensiva secondo cui i pesci erano destinati non alla vendita ma al consumo interno della famiglia. In particolare, tale inverosimiglianza sarebbe stata rilevata non sulla base di una non corrispondenza della dichiarazione del teste che aveva deposto in tal senso con la realtà dei fatti, ma sulla base di un contrasto della stessa con le risultanze della comunicazione della notizia di reato, mai acquisite al fascicolo del dibattimento e, perciò, inutilizzabili. Del tutto erronea sarebbe, poi, la considerazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il concetto di distribuzione al consumo rientra comunque la distribuzione per il consumo di familiari.

Considerato in diritto

3. - Il ricorso è inammissibile, perché si fonda su un motivo formulato in modo non specifico. Il ricorrente sostanzialmente ammette che gli alimenti presenti nella sua pescheria fossero in cattivo stato di conservazione e concentra le sue critiche sulla motivazione del Tribunale relativa alla prospettazione difensiva secondo cui il congelatore all'interno del quale erano stati rinvenuti prodotti ittici in questione era destinato alla conservazione del pesce fresco invenduto, che veniva utilizzato per il consumo dell'imputato e di più stretti parenti.

Il ricorrente non contrasta - neanche in via di mera prospettazione - il dato pacifico in atti e correttamente ritenuto decisivo dal Tribunale secondo cui nella pescheria dell'imputato esisteva un unico frigorifero funzionante, che era proprio quello che conteneva il pesce in questione, perciò evidentemente destinato alla vendita. A tale dirimente rilievo, lo stesso Tribunale aggiunge l'ulteriore logica considerazione che il quantitativo rinvenuto nel congelatore (35 kg) era del tutto incompatibile con l'uso familiare. E ciò, a meno di non considerare l'ipotetica esistenza di un ambito familiare talmente vasto da rendere configurabile una vera e propria "distribuzione per il consumo"; attività anch'essa espressamente punita dalla stessa disposizione incriminatrice. È con tali decisivi elementi e non con la semplice notizia di reato, peraltro acquisita al fascicolo del dibattimento sull'accordo delle parti, che la testimonianza di D.V.A., collaboratore occasionale dell'imputato, si pone in parziale contrasto, laddove egli riferisce dell'uso familiare dei prodotti ittici. E nel ricorso non si contesta, comunque, che la circostanza che il pesce sequestrato fosse quello destinato al consumo familiare non era direttamente conosciuta dal teste, ma gli era stata riferita dall'imputato.

4. - L'impugnazione deve perciò essere dichiarata inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.




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