Pubblica amministrazione  -  Gabriele Gentilini  -  21/05/2023

Accordi tra pubbliche amministrazioni ed appalti pubblici, distinzione e differenziazione del loro requisito causale di cui all'art. 1325 c.c. .

La tematica continua a porre ancora molti dubbi circa l’interpretazione delle varie casistiche che in concreto si presentano e potranno presentarsi.

Senz’altro per poter sciogliere le varie riserve e risolvere i dubbi non può che guardarsi al caso concreto, forti comunque dei principi generali cui non può ricorrersi.

Un caso è quello che si è presentato e per il quale è stato confermato da parte dell’Anac, che si è espressa nella sua delibera del 3 maggio 2023, nr 179 (ttps://www.anticorruzione.it/-/delibera-n.-179-del-3-maggio-2023),  che la stazione appaltante non può affidare servizi di ingegneria e architettura utilizzando l’accordo tra pubbliche amministrazioni allo scopo di aggirare la libera concorrenza e sottrarre l’affidamento alle regole del Codice appalti.

Nel suo atto di interpretazione l’Anac ricorda che “la fattispecie in esame verte in ordine al ricorso elusivo allo strumento dell’accordo tra amministrazioni per l’affidamento diretto di servizi di ingegneria e architettura, in violazione della normativa codicistica.

Evidenzia l’Autorità che “   Preliminarmente occorre osservare che l’accordo tra pubbliche amministrazioni disciplinato dall’articolo 15 della legge n. 241/1990 costituisce un modello convenzionale di esercizio di pubbliche funzioni, avente lo scopo di disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune. Tale norma, costituente il fondamento normativo per la stipula degli accordi, trova, poi, compiuta disciplina nelle normative di settore, ovvero nell’articolo 5 comma 6 del D.lgs. 50/2016 che, conformemente prevede la mancata applicazione del Codice negli accordi stipulati “esclusivamente tra due o più amministrazioni aggiudicatrici” qualora siano soddisfatte le condizioni previste nella norma ovvero: l’accordo stabilisca o realizzi una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono tenuti a svolgere siano prestati nell’ottica di conseguire gli obiettivi che essi hanno in comune, l’attuazione di tale cooperazione sia retta esclusivamente da considerazioni inerenti all’interesse pubblico, le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti svolgano sul mercato aperto meno del 20 per cento delle attività interessate dalla cooperazione. “.

“  Da un punto di vista soggettivo, stante la natura pubblicistica delle Università, appare indubbia la possibilità del ricorso all’istituto de quo, che, tuttavia, nel caso di specie, ha comportato il mancato ricorso alla prevista procedura pubblicistica, in elusione della normativa in materia di appalti. Dalla qualifica di organismo pubblico, rinvenibile in capo all’Università, infatti, discende, ai sensi del considerando 14 della direttiva 2014/24/UE, l’osservanza della disciplina dei contratti pubblici, tranne nel caso in cui ricorra la sopra richiamata ipotesi derogatoria dell’articolo 5 c. 6 D.lgs. 50/2016.

Ancora si legge nella delibera del 3 maggio scorso che:      “  L’Autorità, muovendo dalla lettura della norma, e sulla scorta di un’ampia giurisprudenza comunitaria, ha precisato, in passato, i limiti del ricorso a tali accordi, disponendo che: “l’accordo deve regolare la realizzazione di un interesse pubblico, effettivamente comune ai partecipanti, che le parti hanno l’obbligo di perseguire come compito principale, da valutarsi alla luce delle finalità istituzionali degli enti coinvolti, alla base dell’accordo deve esserci una reale divisione di compiti e responsabilità, i movimenti finanziari tra i soggetti che sottoscrivono l’accordo devono configurarsi solo come ristoro delle spese sostenute, essendo escluso il pagamento di un vero e proprio corrispettivo, comprensivo di un margine di guadagno, il ricorso all’accordo non può interferire con il perseguimento dell’obiettivo principale delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza non falsata negli Stati membri. Pertanto, la collaborazione tra amministrazioni non può trasformarsi in una costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme menzionate e gli atti che approvano l’accordo, nella motivazione, devono dar conto di quanto su esposto” (Delibera n. 07 del 18.02.2015). In riferimento al primo criterio, ovvero l’interesse pubblico effettivamente comune alle amministrazioni, preme evidenziare che l'accordo debba stabilire o realizzare una cooperazione tra le amministrazioni finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono tenuti a svolgere siano prestati al fine di conseguire gli obiettivi che essi hanno in comune, in un’ottica sinergica. L’Autorità sul punto ha affermato che la comunione d’interesse deve essere valutata “secondo un criterio di effettività alla luce di un’attenta valutazione del caso concreto. In altri termini, deve sussistere una effettiva condivisione di compiti e di responsabilità, ben diversa dalla situazione che si avrebbe in presenza di un contratto a titolo oneroso in cui solo una parte svolge la prestazione pattuita mentre l’altra assume l’impegno della remunerazione” (Delibera n. 1118 del 28.11.2018).

Orbene, se alcune attività oggetto del Protocollo … possono essere ragionevolmente deducibili in un accordo tra p.a., in quanto ricollegate ad una generale funzione scientifico - didattica propria delle Università e all’attività di ricerca e consulenza che le medesime possono svolgere mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati ex art. 66 D.P.R. n. 382/1980, tale assunto non vale, tuttavia, per le ulteriori attività … “ che evidentemente paiono essere state assunte in  “ …   una serie di incarichi che, invece, appaiono strumentali unicamente allo svolgimento dei compiti di interesse pubblico propri dell’ente provinciale con mancanza della comunione dell’interesse pubblico in capo anche all’Università. “.

La delibera del 3 maggio scorso aggiunge inoltre che  “  In materia di collaborazioni con le Università il Supremo Consesso amministrativo ha osservato che “L’attività di ricerca e consulenza, anche se in favore di enti pubblici, non può essere indiscriminata, sol perché compatibile, ma deve essere strettamente strumentale alle finalità istituzionali dell’Ente, che sono la ricerca e l’insegnamento, nel senso che giova al progresso della ricerca e dell’insegnamento, o procaccia risorse economiche da destinare a ricerca e insegnamento. Non si può pertanto trattare di un’attività lucrativa fine a sé stessa perché l’Università è e rimane un ente senza fine di lucro” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 3 giugno 2011, sentenza n. 10).  “.

“  Il giudice comunitario nell’ordinanza della Corte di Giustizia UE del 16 maggio 2013, causa C-564/11 - emessa in ordine alla domanda di pronuncia pregiudiziale ex art. 267 TFUE, proposta dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 5207/2011, ha affermato che l’affidamento senza gara da parte di un’amministrazione aggiudicatrice di un contratto, contrasta con le norme ed i principi sull’evidenza pubblica comunitaria quando ha ad oggetto servizi i quali, pur riconducibili ad attività di ricerca scientifica, “ricadono, secondo la loro natura effettiva, nell’ambito dei servizi di ricerca e sviluppo di cui all’allegato II A, categoria 8, della direttiva 2004/18, oppure nell’ambito dei servizi d’urbanistica e dei servizi affini di consulenza scientifica e tecnica indicati nella categoria 12 di tale allegato”. Sulla scorta di tale pronunciamento l’Autorità ha rilevato che “ gli accordi tra PA sono necessariamente quelli aventi la finalità di disciplinare attività non deducibili in contratti di diritto privato, perché non inquadrabili in alcuna delle categorie di prestazioni elencate nell’allegato II-A alla direttiva appalti 2004/18/CE; il contenuto e la funzione elettiva di tali accordi è, pertanto, quella di regolare le rispettive attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi uno degli enti stipulanti” (Delibera n. 496 del 10 giugno 2020). “

“ Pertanto, qualora un’amministrazione si ponga rispetto all’accordo come operatore economico (ai sensi di quanto stabilito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 dicembre 2009, in C 305/08), prestatore di servizi ex All. II-A e verso un corrispettivo, anche non implicante il riconoscimento di un utile economico ma solo il rimborso dei costi, non è possibile parlare di una cooperazione tra enti pubblici per il perseguimento di funzioni di servizio pubblico comune, ma di uno scambio tra i medesimi. “.

A tal punto l’Anac evidenzia nella sua predetta delibera che   “ Le Università, infatti, possono operare sul mercato alla stregua degli altri operatori economici, in quanto l’articolo 7 c. 1 lett. c), della L. n. 168/1989, include, tra le entrate degli Atenei, anche i corrispettivi di contratti e convenzioni, ed inoltre l’articolo 66, del d.P.R. n. 382/1980 prevede che le Università possono eseguire attività di ricerca e consulenza, mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati, con l’unico limite della compatibilità delle suddette attività con lo svolgimento della funzione scientifica e didattica (Determinazione AVCP n. 7 del 21.10.2010, Parere AVCP 07/15 del 18.02.2015). Da ciò, discenderebbe, dunque, l’impossibilità per le Università di ricevere incarichi di servizi che possono essere svolti da ingegneri e architetti, attraverso strumenti diversi da quelli previsti dall’articolo 157 del Codice dei contratti che dispone, appunto, che gli appalti di servizi possono essere affidati solo con le modalità previste dal Codice. Conclusivamente anche il giudice comunitario ha affermato il principio per cui “il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui tale contratto non abbia il fine di garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti” (Corte di Giustizia CE sentenza 19 dicembre 2012, n.C-159/11). “.

Si legge nella delibera ancora  "  ove sia previsto uno scambio economico, ossia la previsione di un corrispettivo, calcolato secondo il criterio del costo necessario alla produzione del servizio (…) è configurabile lo schema tipico dei contratti di diritto comune ex art. 1321 cod. civ., escludendo quindi che l’accordo dia luogo ad una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi. L’Università, infatti, si pone rispetto all’ente nella veste di operatore economico privato, in grado di offrire al mercato servizi rientranti in quelli previsti nell’allegato II-A alla direttiva 2004/18” (Delibera n. 07 del 18.02.2015).
L’Autorità ha osservato ulteriormente che “qualora un’amministrazione si ponga rispetto all’accordo come un operatore economico (ai sensi di quanto stabilito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 dicembre 2009, in C-305/08), prestatore di servizi e verso un corrispettivo, anche non implicante il riconoscimento di un utile economico ma solo il rimborso dei costi, non è possibile parlare di una cooperazione tra enti pubblici per il perseguimento di funzioni di servizio pubblico comune, ma di uno scambio tra i medesimi”
(Delibera n. 07 del 18.02.2015). ".

E' evidente che è dirimente l'analisi dell'elemento causale al fine di distinguere ciò che in concreto sta alla base della distinzione nel titolo. E' un elemento essenziale del contratto, è tradizionalmente definito come funzione economico-sociale del negozio.

Alla classica teoria della causa tipica legata al tipo contrattuale  ha fatto seguito la teoria della causa in concreto per cui la causa sarebbe la funzione pratica che le parti concretamente perseguono mediante l'accordo contrattuale, la sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare.

La causa in astratto è la funzione tipica assegnata dal legislatore ad un determinato “tipo” negoziale, che appunto viene disciplinato nei suoi aspetti essenziali,  Con riguardo alla causa in astratto, si discute della funzione economico-sociale del negozio giuridico.
La causa in concreto, per contro, è l’assetto di interessi che i contraenti perseguono attraverso la materiale stipulazione di un determinato negozio, la ragione pratica che, nella realtà, induce le parti a concludere quello specifico contratto. Si parla, con riguardo alla causa in concreto, di funzione economico-individuale del negozio giuridico.

In pratica e nell'ambito dell'appalto in cui il committente sia un privato la causa consiste nell'esecuzione di una prestazione, variamente consistente nella realizzazione di un'opera ovvero nello svolgimento di un servizio, contro un corrispettivo in denaro (art. 1655 c.c.).

Dal punto di vista degli appalti in cui la parte committente sia una pubblica amministrazione [(art. 3, comma 1 lettere dd), ii), ll), tt) d lgs 50/2016], si ha

dd) «contratti» o «contratti pubblici», i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o di forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti;

ii) «appalti pubblici», i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi;

ll) «appalti pubblici di lavori», i contratti stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici aventi per oggetto:

1) l'esecuzione di lavori relativi a una delle attività di cui all’allegato I;
2) l'esecuzione, oppure la progettazione esecutiva e l'esecuzione di un'opera;
3) la realizzazione, con qualsiasi mezzo, di un'opera corrispondente alle esigenze specificate dall'amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore che esercita un'influenza determinante sul tipo o sulla progettazione dell'opera;

tt) «appalti pubblici di forniture», i contratti tra una o più stazioni appaltanti e uno o più soggetti economici, aventi per oggetto l'acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l'acquisto a riscatto, con o senza opzione per l'acquisto, di prodotti. Un appalto di forniture può includere, a titolo accessorio, lavori di posa in opera e di installazione.

Quanto alla causa degli accordi tra pubbliche amministrazioni di cui alla legge 7/8/1990 n. 241,  le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune ed agli stessi si applica il diritto civile delle obbligazioni e dei contratti in quanto compatibili.

La tematica degli accordi di cui all'art. 15 della suddetta legge 241/1990, si era inoltre posta all’attenzione del Consiglio di Stato, sentenza n. 7373/2020REG.PROV.COLL. N. 01084/2020 REG.RIC. del 24/11/2020.

"Nella ricostruzione del regime giuridico applicabile in subiecta materia, al fine di verificare in che misura i principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti possano ritenersi compatibili con le peculiarità proprie degli accordi tra pubbliche amministrazioni, occorre tenere conto, da un lato, della natura giuridica assunta da tali atti convenzionali, dall’altro, del contenuto precettivo dagli stessi concretamente recato.
2.3 Sotto il primo profilo, deve osservarsi che gli accordi de quibus costituiscono atti preordinati al perseguimento di uno scopo comune, tesi ad instaurare una collaborazione tra due o più parti pubbliche, ciascuna nell’ambito della propria sfera di competenza, funzionale allo svolgimento di attività di interesse comune.
In particolare, diversamente da quanto accade in materia negoziale, in cui il contratto rappresenta uno strumento di composizione di un conflitto di interessi tra parti contrapposte -mediante la regolazione di un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale-, sottoscrivendo accordi ex art. 15 L. n. 241/90, le Amministrazioni contraenti, poste in posizione equiordinata, tendono a realizzare un partenariato su ambiti di materie di interesse comune, funzionale al miglior svolgimento della pubblica funzione ovvero ad una più efficiente ed economia gestione di servizi pubblici di cui abbiano assunto la titolarità (Consiglio di Stato, sez. V, 3 settembre 2020, n. 5352).
Come precisato da questo Consiglio, “[la] dottrina interna aveva già intuito questa antiteticità tra accordi e contratti, avendo coniato con riguardo ai primi l'espressione contratti "ad oggetto pubblico", ponendone quindi in rilievo la differenza rispetto al contratto privatistico ex art. 1321 cod. civ., del quale contengono solo l'elemento strutturale dato dall'accordo ai sensi del n. 1 della citata disposizione, senza che ad esso si accompagni tuttavia l'ulteriore elemento del carattere patrimoniale del rapporto che con esso si regola.
Come nel contratto, le amministrazioni pubbliche stipulanti partecipano all'accordo ex art. 15 in posizione di equiordinazione, ma non già al fine di comporre un conflitto di interessi di carattere patrimoniale, bensì di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di interesse comune. Il quale coordinamento può anche implicare la regolamentazione di profili di carattere economico, ma come necessario riflesso delle attività amministrative che in esso sono interessate. 
Nella prospettiva ora accennata deve essere apprezzato il carattere "comune" alle amministrazioni stipulanti dell'interesse pubblico perseguito, che vale a distinguere gli accordi dai contratti. 
Pertanto, il predicato in questione può essere soddisfatto solo quando vi sia una "sinergica
convergenza" su attività di interesse comune, pur nella diversità del fine pubblico perseguito da ciascuna amministrazione” (Consiglio di Stato, sez. V, 28 marzo 2017, n. 1418; 23 giugno 2014, n. 3130).
La particolare natura giuridica degli accordi tra pubbliche amministrazioni – strumenti giuridici funzionali alla regolazione di un rapporto pubblicistico tra soggetti titolari di interessi comuni – condiziona il regime giuridico concretamente applicabile.
Difatti, da un lato, sembra debba ammettersi la possibilità, per ciascuna Amministrazione, di riesaminare la legittimità o l’opportunità della propria partecipazione al vincolo convenzionale, attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela decisoria; dall’altro, l’applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti deve essere subordinata alla compatibilità con la natura pubblicistica di tali strumenti convenzionali.
Avuto riguardo all’ammissibilità dell’autotutela decisoria, si osserva che gli accordi in esame configurano una modalità consensuale di esercizio del pubblico potere, venendo conclusi per il migliore perseguimento del pubblico interesse affidato alla cura delle Amministrazioni contraenti.
La rispondenza al pubblico interesse costituisce, dunque, la causa giustificatrice del partenariato attuato tra le amministrazioni contraenti, sicché una sua carenza originaria ovvero una sua rivalutazione in costanza di rapporto sarebbe idonea a condizionare, rispettivamente, la validità e la perdurante efficacia del vincolo consensuale.
Ciascuna Amministrazione, pertanto, ove ritenga che l’accordo ex art. 15 L. n. 241 del 1990 non sia o non sia più funzionale al perseguimento dell’interesse pubblico comune sotteso alla pattuizione, potrebbe riesaminare la legittimità o l’opportunità della propria partecipazione all’accordo, agendo in autotutela al fine di sciogliersi dal relativo vincolo consensuale (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20 giugno 2019, n. 4206, che ha riconosciuto il potere di revoca a fronte di un accordo concluso tra pubbliche Amministrazioni).
Parimenti, avendo riguardo ai principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti, la loro applicazione deve essere valutata tenendo conto della particolare natura giuridica degli accordi in esame, come reso manifesto dalla clausola di compatibilità dettata dal combinato disposto degli artt. 15, comma 2, e 11, comma 2, L. n. 241 del 1990, facendosi questioni di accordi ad oggetto pubblico e non di contratti a contenuto patrimoniale.
Pertanto, difettando una contrapposizione di interessi individuali, suscettibili di realizzazione mediante prestazioni in rapporto di sinallagmaticità, non sembrano applicabili in subiecta materia le disposizioni civilistiche regolanti i contratti a prestazioni corrispettive, tendenti a garantire l’equilibrio genetico e funzionale dello scambio convenuto tra le parti (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20 giugno 2019, n. 4206, che nega la riconducibilità degli accordi tra pubbliche amministrazioni al sinallagma contrattuale tipico dei contratti a prestazioni corrispettive).
2.4 Il regime giuridico degli accordi tra pubbliche amministrazioni, oltre ad essere condizionato dalla natura pubblicistica dell’oggetto regolato, risente del contenuto dispositivo suscettibile di essere concordato tra le parti, configurandosi sia accordi, prevalentemente, di natura politico istituzionale, necessitanti di successivi atti per il perseguimento degli obiettivi comuni indicati, sia accordi dal contenuto dettagliato, volti a definire i reciproci impegni assunti dalle parti per la realizzazione dell’interesse comune.
Al riguardo, questo Consiglio ha rilevato che “Se il protocollo d’intesa ha un contenuto prevalentemente politico istituzionale all’eventuale mancata attuazione di uno degli impegni assunti non potrà che provvedersi con modalità istituzionali. Infatti, tali protocolli d’intesa non contengono, normalmente, clausole idonee ad assumere rilievo anche sul piano civilistico.
10.2. - Viceversa il mancato adempimento di un impegno assunto in un protocollo d’intesa
riguardante la gestione comune di un servizio pubblico può comportare anche conseguenze di natura civilistica.
10.3. - In uno stesso protocollo d’intesa possono poi individuarsi disposizioni più o meno cogenti e, normalmente, gli stessi protocolli d’intesa prevedono le conseguenze per il mancato rispetto di una o più delle clausole contenute nell’accordo sottoscritto” (Consiglio di Stato, sez. III, 24 giugno 2014, n. 3194).
Le conseguenze derivanti dalle condotte assunte da ciascuna parte nell’ambito di un accordo ex art. 15 L. n. 241 del 1990 risentono, dunque, oltre che dalla natura giuridica di siffatti strumenti convenzionali, anche dal contenuto dispositivo all’uopo concordato, in specie avuto riguardo al grado di dettaglio delle clausole convenute e degli impegni reciprocamente assunti dalle parti.

.... 

Essi non possono essere assimilati ad un contratto a prestazioni corrispettive, non traducendosi in uno scambio tra parti titolari di interessi contrapposti, instaurando, invece, come sopra osservato, un rapporto di collaborazione determinato dalla comunanza di interessi pubblici in concreto perseguiti.

l’eccezione di inadempimento, pur rispondendo ad un principio generale civilistico in materia contrattuale - che consente alla parte di sottrarsi, a fronte dell’altrui inadempimento, all’adempimento dell’obbligazione su di sé gravante (inadimplenti non est adimplendum) - risulta operante, come reso palese dall’art. 1460 c.c., per i “contratti con prestazioni corrispettive”, giustificandosi nell’esigenza di mantenere inalterato, in fase esecutiva, il sinallagma contrattuale alla base della pattuizione negoziale (cfr. Cass., Sez. 2, n. 7701 del 1994 e Sez. 3, n. 24899 del 2005).

Come precisato dalla Corte di cassazione, in materia di contratti a prestazioni corrispettive, l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. involge una valutazione di confronto tra i due inadempimenti (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 26334 del 17/10/2019), richiedendo di individuare il comportamento prevalente che abbia alterato il nesso di interdipendenza che lega le obbligazioni assunte mediante il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell'altra parte (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3455 del 12/02/2020). ".

 




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