-  Cariello Maria  -  31/10/2012

ALFINA, MARIKA, PIERINA, ERNA, CARMELA … LE RAGAZZE INTERROTTE DEL 2012 - Maria CARIELLO

Non ci sono più.

Avevano 44, 29, 82, 32, 16 anni. Erano italiane, lettoni, nordafricane. Lavoravano, non lavoravano. Erano madri, erano single, erano sposate, amavano leggere o andare in bicicletta.

La loro storia non esiste in questi casi, un trafiletto sul giornale, se il delitto non è stato particolarmente efferato: "Solo una coltellata" di Aldo, Roberto , Giuseppe, mariti, fidanzati, amanti e conviventi, uomini killer protetti da alibi concettuali, giustificati. «Ha ucciso per gelosia, ha ucciso perché aveva paura di essere lasciato», ma la vittima non esiste: il maschio assassino è il protagonista e via con le interviste,  i servizi, le foto.

Per registrare il passaggio della centesima donna assassinata nell'anno la sorte ha scelto per vittime, due sorelle, la minore Carmela, che fa da scudo all'altra e muore al suo posto e per assassino un ragazzo di 22 anni, che va a cercarla con il coltello e che prima ha pubblicato sul profilo di Facebook, in una cornice di angioletti e cuoricini, parole sulla "perdita di qualcuno che ami" che per lo scellerato, è la scelta della "sua" ragazza di lasciarlo.

Ammazzarla, allontanarla per sempre da se stessa e dal mondo, è per lui il risarcimento per quella perdita.

Ma i delitti avvengono in contesti molto diversi, le vittime appartengono a tutti gli strati sociali, uccise prevalentemente al Centro-Nord, dove lavorano di più, sono più indipendenti. L'uomo non ammazza la fidanzata che si prende il pugno, ammazza quella che lo denuncia o se ne va di casa.

Carmela è stata uccisa di giorno davanti alla gente, una punizione esemplare dell'angelo vendicatore dell'onore contro l'emancipazione della donna.

Eppure l'assassino di Carmela non è nato negli anni Venti, era un ragazzino, figlio di questa generazione,  di questa educazione, perché il possesso s'insegna in casa.

La vicina di casa, l'amica viene picchiata e guardiamo dall'altra parte; i ragazzi crescono così e i giornali che titolano "Storia d'amore finita in tragedia" peggiorano le cose, perché l'amore non c'entra , perché l'amore lì non c'era .

Oggi ne ammazzeranno un'altra: una ogni due giorni, è certo e nessuno si fa carico di questa mattanza e mentre i quotidiani, la tv, la radio dedicano servizi al campionato di calcio o sulla legge elettorale che non si farà mai, il tema della violenza contro le donne è trattato dai media, con approssimazione come se la vita di Marika, Erna o Carmela, la vita di tutte le donne umiliate, picchiate, maltrattate, fosse un problema lontano da noi.

Perché questo silenzio ? Forse perché la violenza contro le donne è un problema degli uomini che agiscono violenza e, degli uomini che non sono violenti; delle donne che coraggiosamente denunciano e delle donne che in tanti casi non la riconoscono.

Il femminicidio non è solo un fatto criminologico ma ha una valenza simbolica del rapporto arretrato uomo-donna in Italia ed il termine non nasce per caso e tantomeno per ansia di precisione.

Sembrano una banalità i dati dell'OMS, oggi : la prima causa di uccisione nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l'omicidio (da parte di persone conosciute), ma negli anni Novanta il dato non era noto e quando alcune criminologhe verificarono questa realtà, decisero di "nominarla". Fu una scelta politica: la categoria criminologica del femmicidio introduceva un'ottica di genere nello studio di crimini "neutri" e consentiva di rendere visibile il fenomeno, potenziando l'efficacia delle risposte punitive.

C'era bisogno di un nome nuovo? Si, perché si parte dal linguaggio : il termine nacque per indicare gli omicidi della donna "in quanto donna", basati sul genere. Non sto parlando soltanto degli omicidi di donne commessi da parte di partner o ex partner, parlo delle ragazze uccise dai padri perché rifiutano il matrimonio che viene loro imposto o il controllo sulle loro vite, sulle loro scelte sessuali, delle donne uccise dall'AIDS contratto dai partner sieropositivi tacendo la propria sieropositività, delle prostitute ammazzate dai clienti, delle giovani uccise perché lesbiche.

Le accomuna il fatto di essere state uccise "in quanto donne", di aver trasgredito al ruolo ideale imposto dalla tradizione, di essersi prese la libertà di decidere cosa fare delle proprie vite, di essersi sottratte al potere e al controllo del padre, del partner, del compagno, dell'amante ....Per la loro autodeterminazione, sono state punite.

Certo, il singolo uomo ha deciso la loro condanna a morte, quello che si è incaricato di possederle e punirle, ma la società non è esente da colpe.

Il femminicidio è un problema strutturale, riguarda tutte le forme di discriminazione di genere in grado di annullare la donna nella sua libertà, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica: sono le molestie sessuali sul lavoro, la violenza psicologica dal proprio compagno, la difficoltà una volta trovata la forza, di uscire da quelle situazioni, di riappropriarsi di sé.

Cifre impressionanti direbbe l'economista: il 32 per cento delle donne sono vittime di violenza fisica o sessuale da parte di uomini nel corso della loro vita, 6 milioni e 743mila donne nella popolazione italiana; il 21,1 per cento delle donne che hanno un partner ha subito violenza psicologica: 3 milioni e 477mila.

Le conseguenze sono drammatiche: dai giorni persi sul lavoro, alle spese sanitarie, alla depressione, alla perdita di autostima, ai disturbi del sonno, l'ansia, i tentativi di suicidio, la difficoltà a gestire la relazione con i figli, quando "Fratello Morte" non viene a prenderci prima.

Che fare ?   Il femminicidio deve entrare nell'agenda politica, finanziando un piano anti-violenza, moltiplicando i centri di supporto.

Ma è la prevenzione il vero focus di una politica attiva, l'educazione del bambino e delle bambine.  E qui c'entra la civiltà, che cosa (se) decide di essere questo Stato, cosa decidiamo di essere noi.

Già,  questo Stato, quello che non sceglie mai ... da che parte stare, né qua né la, un po' qui un po' lì, che si discuta di corruzione, di lavoro, di violenza, di immigrazione, di mafia, privilegiando da troppo tempo l'inerzia con la quale sceglie di assecondare questi fenomeni.

Con vergogna leggo che nella classifica mondiale sulle pari opportunità fra uomini e donne, l'Italia sprofonda all'80esimo posto, un indecente primato che ricorda come la parità in economia, nell'istruzione e nella politica, nella salute, nell'aspettativa di vita sia lontanissima.

E qui l'Europa non c'entra, è una questione di cultura, se ancora nella vita politica le donne appaiono all'orizzonte, come una riserva indiana e non come quella metà del mondo, su cui gravano i lavori più svalorizzati, meno retribuiti e precari rispetto ai colleghi uomini.

E' una disparità che si annida nella grammatica delle relazioni, nella gerarchizzazione, nel senso comune.

Siamo ragazze interrotte non solo dal "grande amore" di alcuni uomini, ma interrotte dalla precarietà, nel lavoro, nell'esistenza, nelle contraddizioni dei percorsi della vita.

Donne distanti per età, ma depositarie degli effetti patologici della crisi economica facendone le spese in maniera esponenziale: alla difficoltà di accesso all'occupazione, a retribuzioni più basse degli uomini, all'impossibilità di rivestire ruoli apicali e determinare le scelte che contano, si aggiungono la precarietà senza tutele nella distruzione di qualsiasi forma di welfare.

Un sistema che agevola "quelle condotte" e così, anche le ragazze di una volta sono in qualche modo "interrotte": i licenziamenti improvvisi in età avanzata, il pensionamento, le preoccupazioni per i figli.

Perché il diritto alla libertà comincia a sbandare, quando si droga il mercato del lavoro, quando sei ricattabile perché precaria, quando galleggi in un "eterno presente" in cui ti sembra di affogare, cancellato il cammino di chi ci ha preceduto e le idee che hanno incendiato la storia.

Libertà di ribellarsi all'idea che la parità debba partire da una parificazione dell'età pensionabile che non tiene conto del vissuto di quella singola lavoratrice, del fatto che a parità di lavoro, quella lavoratrice guadagnava il 40% in meno dei colleghi maschi, che quella lavoratrice ha cumulato un lavoro produttivo sottopagato e un lavoro domestico non pagato.

 Siamo un popolo di clienti non di cittadini, di tifosi e non di giocatori, un popolo che apprende l'esclusione del debole, la furbizia ,l'accapparramento,  come virtù civiche, l'educazione al consumo invece dell'educazione alla libertà.

Quale educazione ? Accompagnare l'infanzia e la gioventù in percorsi formativi che sappiano stimolare l'intelligenza critica, l'apprendimento della democrazia, la comprensione ed il rispetto delle diversità, sapendo coniugare libertà e responsabilità.

Dobbiamo segnare una linea di demarcazione con l'epoca dell'umiliazione della nostra competenza, della nostra fatica, del nostro corpo, affrancandoci dalla miseria di un ordine delle cose che ha teorizzato nella vita politica la cooptazione della donna in quanto addobbo, richiamo sessuale o più modernamente quota di riserva, con le dovute eccezioni.

E questo, per riconoscere dignità al coraggio di un genere che sa indagare sulla propria vicenda, a cavallo tra il pubblico e il privato, sospeso tra i rantoli del vecchio patriarcato nell'epoca della sua riproducibilità biologica.

 Per una questione di libertà. Libertà nelle scelte fondamentali che segnano l'esistenza di un individuo.  

Libertà di costruire il progetto affettivo che svela la propria anima, di accogliere la vita, ma anche questo di farlo con diritti interi, eguali.

 Siate il cambiamento che vorreste vedere nel mondo diceva Ghandi, ma qui, anche la libertà del cambiamento,  appare prerogativa del censo.




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