-  Di Marzio Mauro  -  14/03/2012

ANTIGIURIDICITÀ, DIRITTI, VITTIME – Mauro DI MARZIO

 

1. — All'indomani delle quattro sentenze fotocopia del novembre 2008 dedicate al danno non patrimoniale scrissi una nota (mi scuso se cito me stesso, ma sono il solo autore che conosco bene), incentrata sul tema che mi interessava di più, quello del danno non patrimoniale da inadempimento, nota che intitolai parafrasando una celebre e certamente abusata citazione di Mao Tse Tung: «Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione non è eccellente». L'idea (forse un tantino cerebrale) era quella di fare un titolo in cui la parola principale fosse «non», come nell'articolo 2059 c.c. e nella locuzione «danno non patrimoniale».

Probabilmente mi sbagliavo, come spesso mi succede. Quando si parla di cose italiane, le migliori citazioni rimangono quelle di Flaiano. In questo caso avrei potuto scegliere, che so: «La situazione è grave, ma non è seria», «Ho poche idee, ma confuse», o forse anche «I capolavori oggi hanno i minuti contati».

Questo perché le sentenze delle Sezioni Unite si sono presentate per ambizione come una montagna, ma, a giudicare dagli effetti realizzati, non hanno partorito più di un topolino.

 

2. — Quello che le Sezioni Unite avrebbero voluto fare nel 2008 è chiaro: riordinare, razionalizzare l'intero sistema della responsabilità civile, costruire un modello di responsabilità civile organico e stabile. Una responsabilità civile, per usare a sproposito le parole della Costituzione, «una e indivisibile».

I passaggi attraverso cui il progetto avrebbe dovuto realizzarsi sono essenzialmente due:

i) da un lato l'affermazione, o meglio la riaffermazione, del carattere di tipicità del danno non patrimoniale, a fronte della atipicità del danno patrimoniale, con la conseguente enucleazione dell"ingiustizia costituzionalmente qualificata quale elemento costitutivo dell'illecito civile;

ii) dall'altro lato l'individuazione di una soglia di gravità al di sotto della quale nessun risarcimento è dovuto, anche se l'interesse leso dalla condotta aquiliana è dotato di sufficiente rilevanza costituzionale.

Il progetto ha avuto successo?

 

3. — Partiamo dal carattere di tipicità del danno non patrimoniale.

Nelle quattro sentenze si afferma che «il danno patrimoniale è connotato da atipicità, postulando l"ingiustizia la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, mentre il danno non patrimoniale è connotato da tipicità, postulando l"ingiustizia una selezione degli interessi operata dal legislatore o ricavabile dalla Costituzione qualora sussista un diritto inviolabile della persona in essa previsto». Sfrondando di gerundi e participi, dei quali la prosa delle Sezioni Unite abbonda, vuol dire questo. Mentre il danno patrimoniale può essere determinato dalla lesione di qualsiasi interesse giuridicamente protetto, il danno non patrimoniale può essere determinato alternativamente:

a) dalla lesione di interessi cui già il legislatore riconnette il risarcimento del danno non patrimoniale, come ad esempio nel caso della legge Pinto per il caso di violazione dei termini di ragionevole durata del processo;

b) dalla lesione di «diritti inviolabili» della persona previsti dalla Costituzione.

Ora, i casi già previsti dalla legge non pongono problemi e non c'interessano. Ci interessano invece i diritti inviolabili.

 

4. — È appropriato il riferimento ai diritti inviolabili? E — prima ancora — l'espressione «diritti inviolabili» è frutto di una scelta pensata o è casuale?

Casuale, direi, certamente no: l"aggettivo inviolabile-inviolabili, riferito ai diritti, compare nelle quattro sentenze delle Sezioni Unite ben 41 volte. Non c'è dubbio che la Corte di cassazione abbia deliberatamente abbandonato le locuzioni utilizzate nelle c.d. «sentenze gemelle» (Cass. 31 maggio 2003, n. 8827-8828), le quali hanno aperto la strada al progetto di rifondazione del danno non patrimoniale: lì si parlava di «valore inerente alla persona», «interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica», «valori propri della persona», «valori personali di rilievo costituzionale», «valori della persona costituzionalmente garantiti», e così via dicendo.

Mi sembra evidente, dunque, nella sentenza del 2008, la volontà di adottare un'espressione meno elastica e più restrittiva.

Con quale esito?

 

4.1. — Faccio una premessa. Mi avvio a parlare dei diritti inviolabili dall'interno della sentenza, al fine di verificare se il progetto di razionalizzazione abbia attinto un risultato apprezzabile. Voglio però dire che, per conto mio, la stessa distinzione tra diritti di serie A (inviolabili) e diritti di serie B (violabili?) è un errore. Ma su questo punto non vado avanti.

Nella Costituzione i «diritti inviolabili» sono anzitutto menzionati all'articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

Io credo che la confusione in cui versa tuttora, nonostante le buone intenzioni della Corte di cassazione, il tema di risarcimento del danno non patrimoniale discenda in buona misura dalla scelta, avventata, di selezionare gli interessi dalla cui violazione nasce il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale attraverso la griglia dei diritti inviolabili.

La categoria dei diritti inviolabili ha una chiara impronta giusnaturalista. Sono diritti inviolabili (alcuni di) quelli elencati nel Bill of Rights del 1689 ovvero nella Dèclaration des droits de l"home et du citoyen del 1789, che si ispira a sua volta alla dichiarazione d"indipendenza americana del 1776. Si tratta dei diritti «trovati», diritti che preesistono all'ordinamento giuridico e che il legislatore può soltanto «riconoscere» e non potrebbe cancellare neppure se volesse. Diritti, com'è stato detto dalla Corte costituzionale, che non sono «sopprimibili neanche dalla maggioranza e neanche dalla unanimità dei consociati», essendo «patrimonio irretrattabile dalla persona umana» (Corte cost. 10 aprile 2001, n. 105, GiC, 2001, 684; v. già Corte cost. 28 febbraio 1992, n. 75, GiC, 1992, 415; Corte cost. 28 dicembre 1988, n. 1146, GiC, 1988, 5569).

I diritti inviolabili, dunque, sono storicamente concepiti come limite, nel rapporto verticale, ai poteri dello Stato nei confronti del cittadino. Non sono istituiti, invece, a regolare i rapporti orizzontali tra i consociati. Diritti inviolabili, nella loro origine e tradizione, sono quelli che neppure lo Stato o gli Stati possono cancellare, anche servendosi di procedimenti legislativi formalmente corretti. Se invece parliamo dei rapporti tra i consociati, i diritti sono tutti inviolabili.

Ciò di per sé rende la categoria dei diritti inviolabili scarsamente rodata quali strumento di selezione degli interessi dalla cui lesione discende l'obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale.

 

4.2. — Oltre che nell'articolo 2 della Costituzione, i diritti inviolabili sono espressamente nominati in quattro articoli della legge fondamentale. Lo statuto di inviolabilità è riconosciuto in modo espresso esclusivamente alla libertà personale (articolo 13), al domicilio (articolo 14), alla libertà e segretezza della corrispondenza (articolo 15), alla difesa in giudizio (articolo 24). Diritti, per l'appunto, suscettibili di essere violati essenzialmente nel rapporto verticale Stato-cittadino di cui si parlava.

Certo è, però, che i diritti inviolabili non sono solo questi. Ciò sotto due aspetti:

a) vi sono in primo luogo diritti espressamente contemplati dalla Costituzione che sono pacificamente inviolabili, sebbene non espressamente definiti tali: le stesse sentenze del 2008 qualificano come diritto inviolabile il diritto alla salute, sul che non mi sembra siano state avanzate obiezioni;

b) vi è in secondo luogo da dire che l'elenco dei diritti inviolabili cui si riferisce l'articolo 2 è, secondo l'opinione ormai ampiamente prevalente, un elenco aperto.

Il punto è affrontato espressamente dalle stesse quattro sentenze, le quali affermano che: «La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana».

Poco dopo, nello sforzo di esemplificare, le sentenze giungono a dire che non sarebbe un diritto inviolabile il diritto alla libera circolazione nel territorio nazionale, sancito dall'art. 16 Cost.. Esso, dunque, potrebbe essere inciso da condotte aquiliane, senza dar luogo al sorgere dell'obbligazione risarcitoria del danno non patrimoniale. Questo mi pare semplicemente un infortunio sul quale non bisogna calcare troppo la mano: capita a tutti di dire una sciocchezza. L'essenziale congegno di garanzia su cui la tutela costituzionale si fonda è costituito dal duplice presidio della riserva di legge e della riserva di giurisdizione, sicché il diritto in questione può essere sì inciso, ma dalla legge (in questo senso non è un diritto inviolabile), non certo dal viandante che abbia voglia di recare danno ad altri. Con l'ulteriore conseguenza che la lesione di quel diritto, non coperta dalla legge, deve essere risarcita a mezzo del giudice.

Taluni diritti inviolabili «atipici», riconducibili alla previsione dell"art. 2 Cost. sono già stati individuati dalla stessa Corte di cassazione, oltre che dalla Corte costituzionale. Senza la benché minima pretesa di completezza, accenno soltanto al diritto all'abitazione (Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404), a quello alla identità sessuale (Cost. 6 maggio 1985, n. 161, GI, 1987, 235), alla vita sessuale (Cass. 10 maggio 2005, n. 9801, in GI, 2006, 691), al diritto del lavoratore alle mansioni appropriate (Cass. 26 maggio 2004, n. 10157, in DR, 2005, 401), al diritto del lavoratore alla retribuzione (Cass. 13 novembre 2009, n. 24030, MGC, 2009).

Qui, se non vado errando, la nozione di diritto inviolabile mostra in tal modo di essere sbiadita, incerta, vaga. La distinzione tra diritti inviolabili e diritti fondamentali, si affievolisce. Il diritto del lavoratore alla retribuzione, tanto per dirne una, non ha nulla a che vedere con il rapporto verticale Stato-cittadino.

Mi pare innegabile — è una conclusione provvisoria — che il numero dei diritti inviolabili vada tendenzialmente ampliandosi e che, al tempo stesso, la loro distinzione con la generalità dei diritti riconosciuti dalla Costituzione vada sempre più sfumando.

 

4.3. — Ebbene, nella Costituzione, oltre ai diritti espressamente qualificati come inviolabili (libertà personale, domicilio, corrispondenza e difesa in giudizio), troviamo menzionati:

— la libertà di circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, di uscirvi e di entrarvi;

— la libertà di riunirsi pacificamente;

— la libertà di associarsi liberamente;

— la libertà di professare la propria fede religiosa;

— la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo;

— i diritti della famiglia;

— i diritti-doveri nei confronti della prole;

— la protezione della maternità, dell'infanzia e della gioventù;

— la salute e l'incoercibilità dei trattamenti sanitari;

— la libertà dell'arte e della scienza;

— l'apertura della scuola a tutti.

— la tutela del lavoro;

— il diritto ad una retribuzione proporzionata;

— l"eguaglianza lavoratore-lavoratrice.

Ora, mi domando, quali tra questi sono diritti inviolabili? O forse sarebbe meglio chiedersi: quali tra questi non sono diritti inviolabili?

 

4.4. — Qui una prima risposta è agevole: non lo so.

O, per meglio dire, constato che le quattro sentenze delle Sezioni Unite non provano neppure a spiegare quali siano i caratteri dei «diritti inviolabili». Sicché nella materia domina la massima incertezza e fioriscono le opinioni più disparate.

Alcuni prospettano letture che vorrebbero essere restrittive, osservando che la Costituzione «contiene norme oltremodo diversificate, per tenore, valenza e contenuto, che non sono affatto idonee a giustificare di per sé il collegamento con l'art. 2059 c.c. Tale disposizione, per converso, richiede o che il legislatore si esprima esplicitamente a favore della risarcibilità dei danni non patrimoniali o che tale scelta sia da ritenere implicita e imprescindibile, come può affermarsi solo rispetto al precetto dell'inviolabilità» (Navarretta, Il danno non patrimoniale, in Delle Monache (a cura di), Responsabilità civile. Danno non patrimoniale, Torino, 2010, 7). Ma, in realtà, simili formulazioni non circoscrivono affatto il campo dell"inviolabilità: piuttosto si risolvono in una tautologia, nel dire cioè che sono inviolabili… i diritti inviolabili.

Altri, viceversa, avanzano una lettura assai più elastica di diritti inviolabili, finendo per negare che vi siano diritti costituzionalmente garantiti, ma violabili. Così, sarebbero diritti inviolabili solo quelli, ma pure tutti quelli «che attengono alla persona in quanto tale» (Cricenti, Il danno non patrimoniale da inadempimento ed i diritti inviolabili, in I contratti, 2010, 483). Per questa via, si finisce per identificare i diritti inviolabili con i «valori della persona» cui si riferivano le «sentenze gemelle» poc'anzi richiamate.

Ora, non mi sembra difficile constatare che, se ammettiamo che i diritti inviolabili siano quattro o cinque, la categoria può, almeno in astratto, funzionare come filtro degli interessi risarcibili. Se invece i diritti inviolabili sono molti di più, fino a comprendere il diritto alla sessualità e quello a non subire dimensionamento, il filtro finisce per non filtrare niente o quasi niente.

 

4.5. — Come si comporta la giurisprudenza in questa situazione?

Semplice: procede a tentoni, più o meno come è sempre stato. Direi anzi che si disinteressa del problema.

Non si può pretendere che, tra le circa 30.000 sentenze l'anno sfornate dalla Corte di cassazione, io possa darvi qui una informazione completa. Ma certo è che non mancano sentenze che scrutinano la risarcibilità del danno non patrimoniale senza porsi affatto la questione dei «diritti inviolabili».

Così, in un caso di immissioni eccedenti la soglia della normale tollerabilità, la S.C. ha escluso la risarcibilità del danno non patrimoniale escludendo la sussistenza non di un diritto inviolabile, ma di un diritto fondamentale costituzionalmente garantito, quale quello alla tranquillità domestica (Cass. 8 marzo 2010, n. 5564, DR, 2010, 776; NGCC, 2010, I, 594: RCP, 2010, I, 1519). Allo stesso modo, in un caso di omessa liquidazione del danno morale alla vittima di lesioni fisiche, la S.C. discorre del risarcimento del danno non patrimoniale come risvolto della lesione del diritto alla salute, inteso come diritto (non inviolabile, bensì) fondamentale (Cass. 24 febbraio 2010 n. 4484, MGC, 2010).

Il riferimento ai diritti fondamentali (e non ai diritti inviolabili) si trova altresì (beninteso, ancora una volta, senza pretesa di completezza) in:

— Cass. 12 ottobre 2011, n. 20995, MGC, 2011, concernente danni non patrimoniali da lite temeraria;

— Cass. 27 aprile 2011, n. 9422, MGC, 2011 in cui si dice che il tempo libero non costituisce, di per sé, un diritto fondamentale della personalità tutelato a livello costituzionale e sovranazionale;

— Cass. 21 aprile 2011, n. 9238, MGC, 2011, concernenti risarcimento del danno (anche esistenziale) in favore degli eredi di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico;

— Cass. 13 luglio 2010, n. 16382, MGC, 2010, concernente risarcimento del danno da lesione del diritto all'onore e alla reputazione;

— Cass. 9 febbraio 2000 e 10, n. 2847, RCP, 2010, 1013; CorG, 2010, 1201, DR, 2010, 685; GI, 2011, 816, in tema di risarcimento del danno per responsabilità medica derivante da violazione delle regole del consenso informato.

Perché i giudici della corte di cassazione si riferiscono alla categoria dei diritti fondamentali e non a quella dei diritti inviolabili? Una prima risposta può essere: perché non sanno la differenza. Una risposta più articolata invece può essere: perché non credono che vi sia ormai una linea di distinzione precisa ed invalicabile. Anche se — sia ben chiaro — nelle sentenze che ho enumerato il riferimento ai diritti fondamentali non è il frutto di una precisa ed esplicitata scelta concettuale: si parla di diritti fondamentali punto e basta.

Un ulteriore dato, in definitiva, mi pare a questo punto acquisito: a più di tre anni di distanza dalle sentenze del novembre 2011, l'intento di chiarificazione, di organizzazione e restrizione del campo di applicazione del danno non patrimoniale, attraverso il ricorso alla figura dei diritti fondamentali, pare essere per lo più miseramente fallito. La categoria dei diritti inviolabili, cioè, non è affatto entrata nello strumentario quotidiano di cui si serve il giudice.

 

4.6. — Restiamo sui diritti fondamentali. C'è, in proposito, secondo me, un tema della massima importanza, sia teorica e pratica. Il diritto di proprietà è un diritto inviolabile?

Il tema, naturalmente, ha profonde implicazioni ideologiche e culturali, radicate nella storia. La proprietà sulle cose é un'estensione del corpo umano tramite il lavoro per John Locke. La proprietà è un furto per Proudhon. Ma non sono queste le cose che ci interessano, o almeno non direttamente. Nella già ricordata Dèclaration des droits de l"home et du citoyen (torniamo al giusnaturalismo) il diritto di proprietà è definito «sacro e inviolabile» (articolo 17). E non è superfluo rammentare che quel testo, in Francia, è vigente. La proprietà è menzionata quale diritto inviolabile anche nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. L"articolo 1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione stabilisce, infatti, che ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni e che nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

In Italia la Costituzione, all'articolo 42, secondo comma, stabilisce che: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Ora, il verbo «riconoscere» è secondo alcuni indicativo del carattere inviolabile del diritto di proprietà: diritti riconosciuti sarebbero cioè quelli preesistenti, che l'ordinamento non può creare ma neppure cancellare. Secondo altri «riconoscere» sta soltanto nel senso di «considerare lecito o legittimo». In breve credo di poter dire, attingendo da un certo stupidario al quale finiamo per abbeverarci più o meno tutti, di quando in quando, che da noi l'esclusione del carattere inviolabile del diritto di proprietà è «di sinistra»; il riconoscimento dell'inviolabilità del diritto di proprietà è «di destra».

La Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sul tema nel noto caso Scordino. Una famiglia di proprietari (se non erro) calabrese subisce un esproprio contro il quale ricorre in tutte le possibili sedi nazionali, con esito totalmente negativo. Gli Scordino si rivolgono quindi alla CEDU, che dà loro ragione (Scordino c. Italia del 29 luglio 2004). Ma l"Italia si avvale del potere di ricorrere alla Grande Camera. Dove, recatasi per grazia, trova invece giustizia. La CEDU, Grande Camera, conferma infatti la propria precedente pronuncia, forse anche rincarando la dose (Scordino c. Italia del 29 marzo 2006). Gli Scordino tornano dinanzi al giudice italiano e di qui finiscono dinanzi alla Corte costituzionale. Quest'ultima dichiara l"illegittimità costituzionale della norma di legge che aveva consentito di espropriare i ricorrenti a costi stracciati, e lo fa per il tramite della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, considerata quale «norma interposta». La conclusione che ne trae la Corte costituzionale è che lo Stato deve risarcire il privato al valore di mercato del suolo espropriato (Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in FI, I, 40).

Le sentenze sul danno non patrimoniale del 2008 sfiorano l'argomento, mirando, a quanto mi sembra di comprendere, ad un'opera di pompieraggio. Vi viene detto, in particolare, che ai diritti contemplati dalla «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo … non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poiché la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, né può essere parificata, a tali fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno (Corte cost. n. 348/2007)». Questo vuol dire, tradotto: la proprietà non è un diritto inviolabile e la violazione della proprietà non genera diritto al risarcimento del danno non patrimoniale.

È giusta questa affermazione? Probabilmente non ha più interesse stabilirlo. Certo, su questo punto le Sezioni Unite ricevono una messe di critiche, alcune delle quali (mi sembra giusto, a così breve tempo dalla morte, ricordare Galgano, Danno non patrimoniale e diritti dell"uomo, in CI, 2009, 883) alquanto ruvide: viene posto in evidenza un tratto «euro-scettico» della giurisprudenza nostrana, che, smentendo la massima iura novit curia, mostra di ignorare, a molti anni dalla sua introduzione, l"art. 117, comma 1°, Cost., laddove stabilisce che: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

L'interrogativo sull'esattezza del ragionamento svolto dalle Sezioni Unite — dicevo — non è più attuale. Il punto è che oggi bisogna fare riferimento all'articolo 6 della versione consolidata del Trattato sull'Unione Europea, il quale stabilisce che: «L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali» (comma secondo, prima parte), e che: «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali».

E dunque mi pare difficile negare oggi, coniugando l'articolo 42 della Costituzione con la Convenzione europea, per il tramite del Trattato, che la proprietà sia un diritto inviolabile.

 

4.7. — Qui mi interessa accennare ad un tema, quello del danno da immissioni eccedenti la soglia della normale tollerabilità, che nel corso degli anni è stato un collaudato banco di prova del risarcimento del danno non patrimoniale e di quello esistenziale in particolare.

Chiunque comprende che le immissioni, in particolare rumorose, possano stravolgere la vita di chi le subisce: non dormire la notte, non poter tenere le finestre aperte, non potersi concentrare serenamente in attività intellettuali quale la lettura, incontrare ostacoli nel ricevere amici a casa, essere costretti a tapparsi le orecchie con gli appositi tappi ormai in vendita in qualsiasi farmacia. In questa prospettiva l'articolo 844 c.c. ha radicalmente mutato il suo senso nel corso dei decenni: da strumento posto a tutela della proprietà oggi è (anche, probabilmente soprattutto) strumento di tutela della persona del proprietario.

Ho detto: «Chiunque comprende». Mi correggo: quasi chiunque. In una sentenza della Corte di cassazione che ho già citato viene detto che il danno non patrimoniale determinato dalle emissioni di rumore non è risarcibile perché non esiste un diritto fondamentale alla tranquillità domestica (Cass. 8 marzo 2010, n. 5564, DR, 2010, 776; NGCC, 2010, I, 594: RCP, 2010, I, 1519).

Non sempre è così, per la verità, anche nella giurisprudenza di legittimità recente. È stata ad esempio confermata la condanna a € 10.000 inflitta al proprietario di un bar per le immissioni moleste subite da alcuni condòmini fiorentini, i quali per lungo tempo si erano visti costretti a subire gli effetti fastidiosi e insalubri del fumo passivo di sigarette, e obbligati in particolare a tenere chiuse le finestre, anche in piena estate, per salvaguardare il proprio benessere (Cass. 31 marzo 2009, n. 7875, MGC, 2009; nella giurisprudenza di merito più recente, reperibile su personaedanno.it, v. Trib. Bassano del Grappa 20 luglio 2010; Trib. L"Aquila 28 ottobre 2009).

Un giudice di merito, nel manifestare un salutare ossequio alle sentenze delle Sezioni Unite (il giudice scrive normalmente le sentenze per farle confermare, non per farle riformare, e dunque liscia istintivamente la Cassazione per il verso del pelo), ha affermato che, in caso di immissioni di rumore, il diritto inviolabile leso c"è, ed è per l'appunto il diritto di proprietà (Trib. Firenze 21 gennaio 2011, n. 147, RCP, 2011, 1296). In dottrina si è detto che il risultato è apprezzabile «ma risulta tuttavia fondato su motivazioni non condivisibili» (Ziviz, in nota alla citata decisione).

È stato detto che il giudice avrebbe dovuto fare piuttosto riferimento al diritto all'abitazione. Ma a me non sembra si possa ravvisare una differenza concettuale apprezzabile. Una cosa (un appartamento) è l'oggetto del diritto di proprietà; la stessa cosa (lo stesso appartamento) è l'oggetto del diritto all'abitazione. Per conto mio condivido l'identificazione del diritto di proprietà quale diritto inviolabile dalla cui violazione si può generare l'obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale. Trovo piuttosto un che di retorico, per non dire di ipocrita, in chi sostiene che i diritti inviolabili della persona devono riguardare solo ed esclusivamente la persona e non le cose (come sarebbe per John Locke), come se le cose non fossero talvolta anch'esse strumenti di realizzazione personale. Questo tema del valore esistenziale delle cose, anzi, è secondo me molto importante.

Naturalmente, se la proprietà è un diritto inviolabile, l"intento delle Sezioni Unite di circoscrivere l"ambito della risarcibilità va nella sostanza a farsi benedire. Non mi sembra il caso di spiegare perché.

 

4.8. — Sono cose, in un certo senso, anche gli animali: e anche di essi si occupano le quattro sentenza delle Sezioni Unite.

Siamo ancora al tema della antigiuridicità, o dell'ingiustizia costituzionalmente qualificata che dir si voglia. Secondo le Sezioni Unite l'insussistenza di un diritto inviolabile giustifica il diniego del risarcimento del «pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l'uomo e l'animale, privo, nell'attuale assetto dell'ordinamento, di copertura costituzionale (Cass., Sent. U., 14846/2007)». Della non risarcibilità della morte dell'animale d'affezione le sezioni unite discorrono nel richiamare l'inesistenza di un «diritto ad essere felici». Poco dopo la S.C. ha tuttavia confermato la sentenza di un giudice di pace che aveva risarcito il danno per la morte di un gatto (Cass. 25 febbraio 2009, n. 4493, RCP, 2009, 1016). Ma si tratta di un precedente che, per ragioni che non voglio soffermarmi a dire, non può essere preso in considerazione: non è un caso che la pronuncia non risulta neppure massimata al CED della Corte di cassazione.

La verità vera è che il caso della morte dell'animale d'affezione è l'unico in cui il filtro dei diritti inviolabili pare avere in concreto funzionato. Almeno, così mi sembra. Qui viene da chiedersi: era il caso di attrezzare tutta questa confusione per impedire il risarcimento del danno da morte dell'animale d'affezione?

Anche in questo caso direi che le Sezioni Unite incorrono in un infortunio sul quale non è il caso di maramaldeggiare: finanche Giulio Ponzanelli, che pure ha ampiamente difeso le quattro sentenze, ha nondimeno riconosciuto che le Sezioni Unite «possono, forse, aver sbagliato nel ricomprendere questo contenzioso all"interno del tanto criticato quadro bagatellare» (Ponzanelli, Danno da perdita di animale di affezione: un no campano, in Danno e resp., 2011, 661, in commento alla medesima sentenza di cui dico subito dopo). Su questo mi permetto di rinviare ad una notarella che ho scritto da poco e che dovrebbe uscire sul terzo numero della Giurisprudenza di merito. L"ho intitolata: «Il riccio e il volpino. La morte dell'animale d'affezione sotto l'incubo della ragionevole durata», dove ho messo insieme in modo abbastanza demenziale diversi temi sia sostanziali che processuali.

La nota è dedicata ad una sentenza che ha rigettato la domanda di risarcimento del danno da morte dell'animale d'affezione (Trib. San'Angelo dei Lombardi 12 gennaio 2011) con il semplice richiamo alle sentenze delle Sezioni Unite. La qual cosa mi ha offerto l'occasione per affrontare un tema che, secondo me, è della massima importanza, sebbene non sia stato particolarmente sottolineato. Ve ne accenno soltanto, perché non è direttamente collegato ai temi della mia relazione: le Sezioni Unite, nelle quattro sentenza del 2011, hanno affermato principi che non riguardavano le quattro controversie devolute al loro esame, ma che andavano ben al di là di essi. Questo non lo può fare neppure una corte suprema di common law, cioè un giudice che è abilitato a creare diritto attraverso il precedente. La nostra Corte di cassazione si comporta sempre più come se fossimo in un sistema di stare decisis. Certo, si può anche dire che taluni interventi para-normativi provenienti dalla S.C. sono meglio di niente «quando il legislatore si mostra in tutt"altre faccende affaccendato» (Galgano, op. cit., 886).

Ma a me la cosa non sembra molto tranquillizzante. Insomma, se la Corte di cassazione afferma principi che non solo stanno al di là della ratio decidendi, ma che hanno lo scopo di ridisegnare lo stesso quadro normativo che regola il risarcimento del danno non patrimoniale, non c'è un problema di gerarchia delle fonti? Forse addirittura di equilibri costituzionali che saltano?

Torno al tema della morte dell'animale d'affezione. Premetto che non sono affatto un pasdaran animalista, anzi l"espressione «animale d"affezione» mi sembra un ossimoro. Non mi è mai stato chiaro come ci si possa affezionare ad una bestia: capisco piuttosto la celebre battuta di Alberto Sordi, che alla domanda perché non si fosse spostato rispondeva: «E che mi metto un'estranea in casa?». Tuttavia, se mi guardo intorno, non posso che prendere atto che l'atteggiamento sociale ampiamente più diffuso è di segno esattamente contrario al mio: nel comune sentire, cioè, la relazione uomo ed animale è vista sempre più come un fatto positivo, come una strada di realizzazione personale. E gli animali, se così posso dire senza offendere nessuno, come quasi-persone. Il che mi sembra più o meno quello che intende dire il BGB quando dice che: «Gli animali non sono cose».

Questa mi sembra al momento l'inclinazione della società. Se così non è, faccio ammenda. Allora, il giudice che nel gestire il comparto aquiliano è da sempre chiamato ad operare non tanto quale bouche de la loi, quanto quale bouche de la société, che cosa deve fare, nell'operare la verifica di sussistenza di un interesse meritevole di tutela costituzionale: deve valorizzare gli indici che depongono nel senso di un ampliamento del numero dei diritti garantiti dall'articolo 2 della Costituzione, o deve rimanere chiuso nella propria gabbia di certezze collaudate, senza rendersi conto di quanto accade al di fuori dei tribunali?

Ebbene, nel mondo civile, si tratti di paesi di common law o di civil law, il danno da perdita dell'animale d'affezione è risarcito. Ciò per la semplice ragione che nel mondo liberale ciascuno può realizzarsi, può — non già reclamare quel «diritto alla felicità» cui le Sezioni Unite si riferiscono senza neppure darsi la pena di spiegare chi, in dottrina o in giurisprudenza, avrebbe sostenuto una simile sciocchezza, bensì — «ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri» (Kant, Sul detto comune, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino, 1995, 255). Dunque la realizzazione o la ricerca della felicità che dir si voglia si può ben realizzare attraverso la compagnia degli animali.

Sul rilievo costituzionale della lesione, mi limito a dire che l'art. 13 della versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell'unione europea (che è norma di rango costituzionale) stabilisce che l'Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle «esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti». Il discorso, per me, si può chiudere qui.

 

5. — Dal tema della morte dell'animale d'affezione non è difficile passare ad esaminare l'altro aspetto dell'opera di razionalizzazione che, nelle intenzioni, le Sezioni Unite del 2008 avrebbero inteso realizzare: l'aspetto della gravità dell'offesa. Quest'ultima, secondo le sezioni unite, «costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali» nel senso che «il diritto deve essere inciso oltre una soglia minima cagionando un pregiudizio serio» e «la lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto seria da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza».

Su questo tema cercherò di essere molto stringato: mi limiterei a dire che francamente me ne infischio e passare oltre.

. Essa è stata recepita dal Draft common frame of reference (Progetto di Quadro Comune di Riferimento affidato dalla Commissione Europea ad un gruppo di studiosi al fine di elaborare un quadro comune di riferimento per il diritto dei contratti, leggibile, tra l'altro, all'indirizzo https://www.law.kuleuven.be/web/mstorme/2009_02_DCFR_OutlineEdition.pdf) il quale, sotto la rubrica, per l'appunto, «

Dopodiché, facciamo conto di applicare la de minimis rule: qual è la soglia al di sotto della quale ci sentiremo di escludere il risarcimento? Diecimila euro? Direi proprio di no. Cinquemila euro? Ma se ci si compra già un discreto Rolex…. Mille euro? È il doppio della pensione sociale, difficile dire che sia una somma che il giudice non debba abbassarsi a considerare. Cento euro? Bene, diciamo che le cause di valore inferiore ai cento euro non possono essere proposte. Che cosa cambia nel funzionamento della giustizia? Qual è il peso, in dato percentuale, delle cause di valore inferiore a cento euro?

Dopodiché, qualcuno deve provare a spiegare perché una soglia, poniamo di cento euro, debba trovare applicazione per il danno non patrimoniale e debba rimanere invece esclusa per il danno patrimoniale. Mi pare tutt'altro che peregrino il sospetto di incostituzionalità per disparità di trattamento, ai sensi dell'articolo 3 della costituzione, che alcuni hanno formulato (Riccio, Verso l"atipicità del danno non patrimoniale: il mancato rispetto dei vincoli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell"uomo solleva una nuova questione di costituzionalità dell"art. 2059 c.c.?, in CI, 2009, 277).

Fatta questa premessa, il dato giurisprudenziale mi pare in proposito pressoché inesistente: cioè, io non rinvengo decisioni le quali abbiano disatteso una domanda risarcitoria perché, constatata la lesione di un diritto inviolabile della persona, tale lesione non fosse abbastanza grave.

Questo significa dire ancora una volta che l'idea di razionalizzazione eseguita dalle sezioni unite ha semplicemente fatto cilecca, almeno sotto questo aspetto.

 

6. — È tempo di parlare dei diritti dai quali può generarsi l'obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale nonché delle vittime.

C'è una gamma di fattispecie, piuttosto ampia, che fa parte ormai del lavoro quotidiano dei giudici (le sentenze citate di seguito si trovano sul sito personaedanno.it). Sono normalmente risarciti (senza pretesa di completezza e neppure di organicità) i danni:

i) per la perdita del congiunto (Cass. 7 giugno 2011, n. 12273; Cass. 9 maggio 2011, n. 10107; Cass. 13 maggio 2011, n. 10527; Cass. 21 aprile 2011, n. 9238; Cass. 18 novembre 2010, n. 23278);

ii) per la invalidazione del congiunto (Cass. 26 maggio 2011, n. 11609; Cass. 6 aprile 2011, n. 7844 che, in caso di una madre che aveva lasciato il lavoro per dedicarsi alla cura del figlio convivente macroleso; ipotesi alla quale mi pare si possa equiparare quella delle lesioni inferte al bambino al momento della nascita e responsabilità dei sanitari, su cui v. Trib. Venezia 3 agosto 2009);

iii) per il demansionamento (Cass. 8 agosto 2011, n. 17084; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832);

iv) per il protesto illegittimo (Cass. 10 novembre 2010, n. 22819; ciò naturalmente se il danno, che non è in re ipsa, c"è davvero, non nel caso, che mi si è presentato più di una volta, del debitore che subisce il protesto, legittimo, di 50 titoli e chiede qualche milione di euro di risarcimento del danno perché il cinquantunesimo protesto è illegittimo);

v) per mancata diagnosi di malformazione fetale (Trib. Lecco 9 novembre 2009);

vi) per vacanza rovinata (Trib. Salerno 13 gennaio 2009; anche in questo caso se il danno c"è e non se il preteso danneggiato rivuole indietro i soldi perché insoddisfatto di una vacanza corrispondente a quella pattuita);

vii) per violenza sessuale (Trib. Varese 10 dicembre 2010).

Su queste ipotesi non mi pare ci sia nulla da dire, se non che in tutte queste situazioni ciò che viene risarcito, oltre al danno morale, o comunque lo si voglia chiamare dopo le sentenze delle Sezioni Unite, è, costantemente, il pregiudizio alla vita di relazione, alla realizzazione personale del danneggiato. Lo si chiami o non lo si chiami danno esistenziale.

Un accenno merita la questione delle conseguenze relazionali delle lesioni fisiche. Qui, secondo me, c'è uno scarto tra la costruzione dottrinale del danno non patrimoniale ed il tentativo di applicazione pratica che se ne fa dal ceto forense. La fondamentale importanza del danno esistenziale è duplice: da un lato consente l'individuazione di interessi, prima misconosciuti, dalla cui lesione si può generare il danno aquiliano; dall'altro lato consente uno scrutinio di tipo fenomenologico del danno, inteso come modificazione peggiorativa degli assetti di vita.

Dei due, io credo, l'aspetto più importante è il secondo. Non vorrei esagerare, ma qui siamo di fronte ad un cambiamento di prospettiva paragonabile al superamento, da parte se non erro di Samuel Pufendorf, del limite romanistico del danno corpori attraverso l'affermazione che il danno da risarcire dovesse comprendere il ristoro delle sofferenze morali. Il danno deve comprendere le ricadute esistenziali, cioè relazionali, non soltanto quelle che abitano in interiore homine, ma anche quelle che colpiscono il danneggiato nella sua essenza di animale sociale.

Nella pratica, soprattutto quella degli incidenti stradali, il danno esistenziale è stato utilizzato e tenta di esserlo tuttora, sebbene con risultati ormai sempre più scarsi, per moltiplicare la posta in gioco. Il danneggiato chiede il danno biologico perché si è rotto un braccio, ma poi chiede anche il danno morale perché soffre perché si è rotto un braccio ed il danno esistenziale perché con il braccio rotto non può più giocare a tennis. Questa è una presa in giro, e non si può pretendere che il giudice abbocchi all'amo. Tra l'altro per questa via si finisce per mettere in crisi uno degli aspetti salienti del danno biologico, che era il suo tratto egualitario, ovviamente radicato dell'articolo 3 della Costituzione. Probabilmente una certa avversione alla figura del danno esistenziale è nata proprio qui, oltre che nei riguardi dei cosiddetti «danni bagattellari».

Ecco dunque che la S.C. sottolinea che il danno esistenziale conseguente a lesioni dell'integrità psicofisica non può costituire un'autonoma voce distinta dal danno biologico o morale, ma soltanto un profilo concorrente alla globale valutazione di questi danni non patrimoniali (p. es. Cass. 3 marzo 2011, n. 5103). Le peculiari ricadute sulla persona, in considerazione delle alterazioni delle abitudini e degli assetti relazionali conseguenti alla lesione, assume dunque rilievo solo per i fini della personalizzazione.

Però non è sempre così. Ecco un caso spiacevole a raccontarsi (App Roma 17 ottobre 2011, n. 4274). Al momento del parto una donna è sottoposta ad un piccolo intervento di episiotomia: si tratta di un taglio della vagina che, credo, ha lo scopo di favorire l'uscita del neonato. Il medico però, oltre a tagliare la vagina, recide lo sfintere anale, sicché la donna, una giovane donna, subisce come conseguenza una «incontinenza fecale C secondo Parks ai gas ed alle feci liquide». Dopodiché la situazione migliora molto con un intervento di plastica, ma la funzionalità dello sfintere non è pienamente ripristinata. Succede infatti che, senza alcun sintomo di preavviso, la donna possa improvvisamente perdere gas o anche feci liquide nei momenti più impensati. Il danno biologico stimato dal c.t.u. è minimo. Viene esclusa l'esistenza di una malattia di rilievo psichiatrico. Alla danneggiata, stando alle tabelle, spetterebbero poche migliaia di euro. Ma, osserva il giudice, la sua vita è davvero stravolta. Gli inconvenienti descritti sono rari, ma «si possono verificare in qualsiasi momento e, quindi, mentre *** O. è a cinema, oppure a teatro, o in tribunale, o a scuola mentre parla con gli insegnanti della figlia, oppure mentre si trova in ascensore con altre persone, ecc. *** O. non può prevenire tali eventi perchè non può prevedere quando la sua capacità di controllo degli sfinteri verrà meno. Questa essendo la situazione, è ben comprensibile che *** O. … non sia psicologicamente in grado di accettare il rischio che episodi mortificanti come quelli sopra elencati possano accaderle e, quindi, scelga di azzerare quasi del tutto la sua vita di relazione, salvo poche eccezioni riguardanti soprattutto i rapporti con i congiunti più stretti … Del resto, anche se *** O. avesse la forza di compiere una scelta diversa, sarebbe comunque per lei assai difficile evitare di rimanere vittima del processo di emarginazione sociale sopra menzionato».

Il danno, per via di personalizzazione, è infine liquidato equitativamente in € 100.000,00. A volte, potrei riassumere, il danno biologico non basta.

Accanto alle ipotesi che ho finora elencato, vi sono situazioni meno ricorrenti, più particolari, nei quali può presentarsi l'esigenza di risarcire il danno non patrimoniale.

Non posso essere esaustivo (non sarebbe possibile), ma voglio ricordare alcune pronunce recenti, che si situano d'altronde sulla scia di diverse altre decisioni antecedenti alle quattro pronunce delle Sezioni Unite:

— Trib. Padova, 30 luglio 2010, che risarcisce con €1.500,00 il danno esistenziale subito da una scolaretta i cui genitori avevano scelto di non farle seguire l'ora di religione, e che era stata invece lasciata nella sua classe per alcuni mesi;

— Trib. Roma, 10 giugno 2009, che risarcisce il danno non patrimoniale patito da un avvocato disabile che si era visto recapitare numerose multe per accesso in zone a traffico limitato nonostante fosse dotato dell'apposito permesso.

— Trib. Genova, 4 maggio 2009, che risarcisce con la somma di € 1.500,00 ciascuno il danno esistenziale a due studenti che dopo aver frequentato una certa scuola non avevano potuto sostenere l'esame di maturità perché l'istituto era privo della c.d. parità scolastica;

— Trib. Messina, 11 settembre 2009, che risarcisce nella misura di 5.000 euro ciascuna il danno esistenziale sofferto da due ragazze che, per anni di seguito, si erano viste trascurare sotto il profilo morale e patrimoniale dal padre.

Si tratta di ipotesi eterogenee, ciascuna delle quali meriterebbe un apposito commento. La più importante, forse, è l'ultima, concernente la lesione degli affetti: il riconoscimento che il giudice possa in una certa misura (io direi: in casi estremi) sindacare i rapporti affettivi è una novità enorme. Ma non spetta a me approfondire il punto, visto che c'è una relazione dedicata ai danni in famiglia.

Non credo invece di invadere la sfera riservata a Rita Rossi se concludo rammentando l'ultima vicenda, che mi pare emblematica delle linee di tendenza in tema di risarcimento del danno non patrimoniale nel suo aspetto esistenziale.

Due coniugi, Giuseppe e Maria, non riescono a concepire un figlio. La madre si sottopone a cure di fertilità, ma il risultato non è raggiunto. Emerge man mano che è il marito l'ostacolo alla fecondazione. La donna accetta la situazione, rimane accanto al marito e si sottopone a tentativi di fecondazione in vitro e poi anche di fecondazione eterologa, ma senza esito. Ad un certo punto, dopo più di cinque anni, la coppia si rompe, si comprende dalla sentenza che il matrimonio è oggetto di un procedimento ecclesiastico di annullamento. Tra le carte emerge un certificato di poco precedente al matrimonio da cui risulta che il marito è affetto da una grave oligospermia, pressoché equiparabile ad una sterilità assoluta. La circostanza era stata taciuta alla donna.

La donna chiede al risarcimento del danno, non, naturalmente, per l'impotentia generandi del marito, ma perché egli le ha taciuto la circostanza prima del matrimonio. Il giudice accoglie la domanda, sottolinea, per un verso, che «l"attrice ha modificato completamente i propri progetti di vita, anche sul piano professionale … per seguire il marito il quale aveva ottenuto un impiego all"estero», e, per altro verso, che la menzogna dell'uomo ha «impedito all"attrice in via definitiva di diventare madre in un"età diversa da quella in cui può ritenersi dimostrato secondo una nozione di comune esperienza che non insorgano problemi per la donna ed il nascituro».

Il quantum è determinato in € 150.000. La sentenza è concisa, la quantificazione mi sembra plausibile, non ci sono sproloqui sui massimi sistemi, come sarebbe accaduto forse tempo addietro. La salute del danno non patrimoniale, nonostante le sentenze delle Sezioni Unite, mi pare più che buone, con enormi progressi rispetto soltanto a 10 anni fa.




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