Deboli, svantaggiati  -  Redazione P&D  -  08/08/2022

Antonio Mumolo, avvocato di strada: "Così lotto nei tribunali per ridare ai clochard i diritti perduti"

Intervista al legale che ha fondato l'associazione che aiuta i senzatetto. "Un esercito di invisibili che vaga tra mense e dormitori. Precipitare nel baratro è facile: un licenziamento, rate non pagate, un divorzio e da una vita dignitosa si finisce in strada. Si perde la residenza e si diventa fantasmi. Siamo partiti in due, vent'anni fa, oggi siamo in mille volontari. I miei maestri: Enrico Berlinguer e Gino Strada".

BOLOGNA - L’avvocato Antonio Mumolo dice che la fortuna va restituita. “I miei nonni erano migranti del Sud espatriati in America per povertà. Tornati in Puglia hanno compratola terra e fatto i contadini. Mio padre è stato il primo della nostra famiglia a poter studiare, è diventato medico e ci ha insegnato a prenderci cura, sempre, di chi aveva meno di noi”.

Per questo lei si occupa di persone senza dimora, di clochard e di cause (apparentemente) perse?

“Per dimostrare, al contrario che non esistono cause perse, nemmeno per gli ultimi degli ultimi. Dietro ogni senzatetto, dietro chi dorme su un cartone o in un ostello, c’è un essere umano che ha perduto i propri diritti. Noi in tribunale cerchiamo di riannodare i fili di queste vite”.

Arriva in giacca e cravatta in via dei Malcontenti numero 4, Antonio Mumolo, 59 anni, avvocato giuslavorista, nato e cresciuto a Brindisi, “emigrato” a Bologna a 19 anni per fare Giurisprudenza, presidente dell’associazione “Avvocato di strada”, consigliere regionale del Pd,  “per me la sinistra è la passione politica di Enrico Berlinguer e Sandro Pertini,  il volontariato la lezione di don Gallo e Gino Strada”. “Siamo lo studio legale più grande d’Italia e il più povero: mille soci volontari e fatturato zero euro. Da noi non paga nessuno. Il nostro “cliente” clochard numero uno si chiamava Antonio. Come me. Con lui abbiamo vinto la prima causa per la residenza. Era gennaio del 2001. Ne sono seguite altre 40mila di cause, in gran parte vinte”.

Due stanze, una segreteria, una sala d’aspetto in un vecchio e consunto palazzo nel cuore storico di Bologna, i codici di diritto penale e civile e le magliette per l’autofinanziamento, con lo slogan “Non esistono cause perse”.  In questo posto semplice e disadorno gli avvocati di strada cuciono una tela che riannoda affetti, patrimoni, dignità. Sulla parete d’ingresso una graphic novel ricorda Mariano Tuccella, senzatetto che morì nel 2007 per le botte disumane di tre ragazzini che volevano rubargli 5 euro. “Era un nostro amico, da allora la strada fittizia dei senza dimora si chiama via Tuccella”.

Com’è diventato un avvocato di strada?

“Da volontario dell’associazione Piazza Grande incontravo i clochard nelle notti fredde di Bologna, portavamo tè caldo, coperte. Nel tam tam dei diseredati e invisibili si era però sparsa la voce che il mio vero mestiere fosse il diritto. Così, ogni notte, appena arrivavo c’era qualcuno che mi chiedeva aiuto legale. “Avvocato, ho perso la residenza”. “Avvocato, mi hanno portato via la casa”. “Avvocato, non posso più vedere i miei figli”.

Anche lei come i suoi nonni aveva lasciato il Sud. 

“A Brindisi torno sempre, in particolare l’estate, ma Bologna è la mia casa. All’università ho incontrato Paola, che sarebbe diventata mia moglie, senza la quale non avrei realizzato tutto questo. Anche lei pugliese, anche lei studiava legge, tutti e due un po’ emigranti. Abbiamo due figli, di 25 e 23 anni, Giovanna e Carlo. Viviamo in periferia e condividiamo tutto: famiglia, impegno sociale. Io sono ateo, lei cattolica, ma ci siamo sposati in chiesa. Il Sud è sempre Sud, lei ci teneva, anche i parenti, però chiedemmo al prete di celebrare con il rito misto che si usa tra credenti e non credenti”.

Il primo caso?

“Antonio. Quarant’anni. Veniva da Napoli, dopo la separazione dalla moglie aveva perso la casa, poi il lavoro ed era diventato alcolizzato. A Bologna dormiva, quando era possibile, al dormitorio Sabatucci. A fatica era riuscito ad uscire dall’alcol e avrebbe voluto ricominciare, onestamente, il suo mestiere di pranoterapeuta. Ma senza residenza non poteva riaprire una partita Iva. E il comune continuava a negargliela, perché era un senzatetto”.

Una trappola. Non hai un indirizzo e non ti do la residenza. Lo spartiacque tra l’essere cittadini o clandestini.

“Abbiamo fatto causa al comune di Bologna e abbiamo vinto. Antonio è rinato. Ha ritrovato i legami familiari. Ha di nuovo stima di sé. Tutto ruota in Italia attorno alla residenza. Esistere o diventare fantasmi”.

I fantasmi avvolti nei cartoni sulle griglie del metrò, con il tetra pack di vino accanto? 

“Tra i sessantamila senza tetto che vivono in Italia, una piccolissima parte dorme effettivamente all’aperto e passa la giornata sul marciapiede. Quell’iconografia appartiene al passato. Gli altri sono invisibili”.

Perché? Come si finisce sulla strada oggi?

“Trent’anni fa i clochard erano in gran parte alcolisti, tossicodipendenti, persone con problemi psichici e soprattutto stranieri. Oggi sono poveri e italiani. E’ facilissimo precipitare nel baratro. Un licenziamento, le rate di mutuo non pagate, uno sfratto, un divorzio, un soffio e da una vita dignitosa ci si ritrova nei dormitori, alle docce pubbliche, alle mense della Caritas, con i vestiti di qualcun altro indosso”.

Lei diceva invisibili. 

“Camminano accanto a noi bussando ad ogni porta, ad ogni centro per il lavoro, sono vestiti in modo decente, ma tutto ciò che gli resta è in una busta di plastica sottobraccio. Chi c’è sulla strada? Operai licenziati, padri e madri separati, pensionati al minimo ridotti alla fame, imprenditori falliti, lavoratori di 50 anni non più collocabili. Quando arriva lo sfratto è finita”.

 




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