-  Trisolino Luigi  -  28/04/2015

ASPETTI PROBLEMATICI DELLE CLAUSOLE TESTAMENTARIE – Luigi TRISOLINO

-Il pensiero di Bonilini sull"autonomia testamentaria

-Il c.d. fedecommesso assistenziale; la clausola "si sine liberis decesserit"

-Cenni sulla diseredazione quale papabile pena privata di fonte testamentaria

 

Una visione permeata da uno spirito del tempo che si avvicina al compiuto riconoscimento della facoltà dispositivo-testamentaria, di carattere positivo quanto negativo, si presenta nell"opera, della metà degli anni "90, del Bonilini, il quale specifica che per regolamento di interessi "post mortem", espressione assurta a causa del negozio testamentario, deve intendersi quella che risulta essere la fondamentale funzione che l"atto "de quo" è chiamato ad assolvere, ossia la determinazione della sorte dei rapporti patrimoniali che sopravvivono alla morte del testatore.

Nonché – precisa l"A. – attraverso il testamento si consente anche il realizzarsi di interessi privi del carattere della patrimonialità, come confermato dal dato normativo del cpv. dell"art. 587 c.c., ai sensi del quale "l"efficacia delle disposizioni non patrimoniali non è punto subordinata alla compresenza di disposizioni di carattere patrimoniale". Alcuni Autori (C. M. BIANCA, CRISCUOLI), non confermati nella loro idea da una parte della dottrina (CICU), sogliono al riguardo parlare della c.d. funzione veicolare del testamento, o di testamento mera forma.

È stato inoltre rilevato che la legge conosce un concetto ampio e uno ristretto di testamento (CICU), e che il concetto ristretto trova (quella che potrebbe chiamarsi) dimora normativa nel primo comma dell"art. 587, secondo il quale il testatore dispone di tutte le proprie sostanze o di parte di esse, per il tempo in cui avrà cessato di vivere; il concetto ampio di testamento, invece, trova la sua formula positiva (normativa) nell"integrale dettato dell"art. 587. Testamento è anche la manifestazione di volontà che si esprime col mero tramite di disposizioni aventi carattere non patrimoniale (BONILINI).

Si consideri l"elegante carrozza (il testamento) che conduce per i frastagliati sentieri della dottrina e dell"interpretazione delle fattezze nomo-positive del sistema codicistico, la diseredazione, dama corteggiata dalla libertà testamentaria, ma costretta come un istituto eversivo, o dagli "amoraleggianti" costumi, ad entrare nella corte della legalità non dall"ingresso ufficiale bensì dalle porte secondarie (spesso proprio da quelle di emergenza con maniglioni antipanico), le quali, a quanto pare, ben sanno accogliere lo spirito della siepe leopardiana che non arresta il rimirare di chi la contempla al primo, presunto ostacolo formale, ma sa scavare e far trascendere verso un"infinità di spazi da scrutare e su cui ricercare.

Si è considerato il testamento quale atto negoziale unilaterale e unipersonale. Come il negozio matrimoniale può essere annoverato tra gli atti personalissimi. Per quanto concerne, infatti, la questione circa le disposizioni rimesse all"arbitrio del terzo, l"art. 631 c.c. chiaramente considera nulla ogni disposizione con cui si fa dipendere dall"arbitrio di un terzo l"indicazione dell"erede o del legatario, o la determinazione della quota di eredità. Nel secondo comma, tuttavia, l"art. 631 dispone la validità della disposizione a titolo particolare in favore di persona da scegliersi, dall"onerato o da un terzo soggetto, tra più persone determinate dal testatore o appartenenti a famiglie o categorie di persone dallo stesso testatore determinate, ed è pur valida la disposizione per mezzo della quale si dispone a titolo particolare in favore di uno tra più enti determinati dallo stesso disponente. Un successore deve essere individuato tra la rosa di "candidati" lasciata dal testatore: tant"è che, qualora l"onerato o il terzo non possano o non vogliano fare la scelta, questa è compiuta con decreto dal presidente del tribunale del luogo in cui si è aperta la successione, dopo aver assunto le opportune informazioni utili. Spostando il mirino critico verso la più specifica disposizione testamentaria qualitativamente negativa e ablativa, si noti come le disposizioni rimesse all"arbitrio, ma anche alla semplice scelta (tra una rosa di "candidati" indicati dal disponente), da parte del terzo o del presidente del tribunale del luogo di apertura della successione, sarebbe impensabile, poiché gli "atteggiamenti" diseredativi non dispiegano la loro giuridica incidenza a favore, bensì a sfavore (tranne se la "hereditas" risulti "damnosa") della persona, e quindi devono come minimo esser posti in essere direttamente dal testatore, unico e totale "dominus" dell"autoregolamento negozialtestamentario.

Applicabile, invece, alla diseredazione è l"art. 628 c.c., il quale dispone che è affetta da nullità ogni disposizione a favore di persona incerta, che sia indicata in modo da non poter essere determinata. Quindi, la persona che si vuol destinare al "purgatorio" della diseredazione ("paradiso" in caso di "hereditas damnosa") dev"essere determinata in modo certo; un piccolo errore, quale una vocale o una consonante in più o in meno, o una vocale finale diversa da quella del nome reale dell"escluso, tranne in casi atti a destare ardui dubbi nell"interprete della volizione presente nella disposizione testamentaria, non rilevano ai fini della qualificazione della dicitura del nome come incerta, ossia come indicata in modo da non poter essere determinata (questo lo si evince da una lettura attenta e problematica dell"art. 628 c.c.).

Suggestivo sarebbe il caso di una diseredazione dell"anima. Qualora siano effettuate disposizioni a favore dell"anima (ai sensi dell"art. 629 c.c.), ad esempio, di alcuni figli con consequenziale preterizione, o con espressa esclusione di altri, non ci si troverebbe in questo caso di fronte a una diseredazione, giacché quest"ultima, malgrado il tenore morale e sentimentale insito nelle più profonde trame volitive che hanno spinto il testatore a porla in essere, è un istituto di matrice patrimonialistica e il senso di disonore o amarezza (quindi passionale) è solo un riflesso psicologico di una esclusione che il diritto considera tutta dedita al versante patrimoniale del vivere civile, è, così, un riflesso psicologico non attinente all"economia degli effetti sostanziali del negozio testamentario.

L"atto testamentario, nel tempo, si è reso inoltre ospitale strumento della padronanza, dei libertinaggi, dei riflessi sovrastrutturali di società feudalistico-medievali spesso tese alla conservazione dei beni nell"entroterra familiare, e al maschilistico accentramento proprietario in capo ai discendenti maschi, fomentando la potenza dell"aristocrazia, ove un nome di famiglia si svuotava e s"accresceva socialmente con l"avanzare o il ritrarsi dei domini proprietari terrieri e immobiliari. Istituto giuridico che si presta a svariate metaplasie per cucirsi vesti cangianti col mutar delle strutturazioni sociali e, più generalmente, dell""ethos" del tempo, è la sostituzione fedecommissaria realizzantesi attraverso l"atto testamentario. Il fedecommesso era una disposizione testamentaria mediante la quale il testatore istituiva erede o legatario un soggetto determinato, detto istituito, con l"obbligo di conservare i beni ricevuti, i quali alla sua morte si trasferivano automaticamente (indipendentemente da una manifestazione di volontà del primo chiamato all"eredità) ad un soggetto diverso, detto sostituito, indicato dal testatore stesso. Una variante meno opprimente era costituita dal fedecommesso "de residuo", che non imponeva all"istituito di conservare i beni ricevuti, sicché la successione del sostituito risultava limitata ai beni non alienati. Salutato generalmente dalla corrente di pensiero illuminista come istituto nefasto per la libera circolazione dei beni e della ricchezza, venne travolto e spazzato via nel periodo rivoluzionario francese, in funzione alla politica del diritto antiaristocratica, per essere poi vietato anche dal codice civile italiano del 1865; ricomparso in forma limitata nel codice del "42, attualmente la sostituzione fedecommissaria è confinata ai margini del sistema giuridico, e riguarda la sola ipotesi dell"art. 692 c.c. (modificato con la L. 151/1975 di riforma del diritto di famiglia), che fa dell"istituto medesimo un "altro" istituto, di limitatissima applicazione, con funzioni e matrici d"ispirazione volte all"assistenzialismo e al solidarismo verso il soggetto incapace, interdetto, o minore che presenti i presupposti per l"interdizione. Un rapporto di mera omonimia, con una applicazione del meccanismo sostitutivo basato sulla "fides" ma anche sulla remunerazione delle persone fisiche o degli enti che si prendono cura dell"incapace, discendente in linea retta o coniuge del testatore; un rapporto di omonimia che ricorda il "feeling" intercorrente tra la diseredazione odierna e la "exheredatio" del diritto romano, entrambe le coppie di istituti avendo alla base similari meccanismi ma diversissime necessità funzionali e, per quanto riguarda la coppia sulla sostituzione fedecommissaria, anche ispirazioni valoriali inconciliabili. Il "fedecommesso assistenziale", come autorevolmente è stato definito (TRABUCCHI), assicura, quindi, l"impensabilità di un suo "recursus" al proprio precedente storico, sia da un punto di vista pratico, dato il carattere ormai ampiamente affermato di libera circolazione dei beni (consacratasi nella fedeltà al diritto dell"Unione Europea ex art. 117, comma 1, Cost., a seguito della Legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3; ma, in fin dei conti, si veda più semplicemente la materia stessa dell"invalidità del divieto testamentario di alienazione perpetuo, e, analogicamente, la "ratio" dell"art. 1379 c.c. sul divieto di alienare stabilito per contratto), sia sul piano teorico, dato il diniego civico di una insensata, barbara pratica giuridica che, registrando il suo successo in epoca medievale, risulta troppo lontana e anacronistica per riproporsi nella sua purezza originaria allo spirito culturale contemporaneo; sarebbe, altrimenti, a parere di chi scrive, un surrettizio affermarsi di una inspiegabile dittatura testamentaria, se non proprio di un "terrorismo" testamentario intergenerazionale. Se si riflette a fondo, fedecommesso e diseredazione erano complementari, e in un certo senso, lo sono tuttora: il padre medievale che disponeva, per mezzo del testamento, una prima istituzione d"erede, e, consapevole della mortalità del figlio, della maggiore longevità dei beni patrimoniali del lignaggio, nonché della sua stessa "pia" ostinazione a mantenere l"onore sul nome della famiglia, dispiegando la facoltà di ingranare i meccanismi fedecommissari, disponeva ulteriormente l"automatico trasferimento, a seguito della morte dell"istituito, dei beni ereditari in capo al c.d. sostituito, compiva un"azione "de facto" diseredativa, in particolare apparentemente diseredativa "de facto", o già nel primo grado generazionale del trasferimento successorio (qualora, per esempio, maschilisticamente trasmetteva il patrimonio ereditario solo ad alcuni dei propri figli, ai maschi), o nel seguente passaggio del viaggio intergenerazionale dei beni ereditari (escludendo, nella designazione del sostituito, gli eventuali altri soggetti aventi il medesimo grado di parentela e lo stesso profilo giuridico – dell"epoca – di quest"ultimo); nulla, d"altronde, impediva al testatore di porre in essere una sostituzione (per il caso, ad esempio, che il sostituito premorisse all"istituito), con ciò confezionando un ulteriore caso di apparente diseredazione de facto. Si è qui utilizzato il carattere di apparenza nel parlare del rilievo diseredativo della sostituzione commissaria, e della sostituzione ordinaria (ma, non sarebbe strano, in quest"ottica, riferirsi persino alla sostituzione plurima e reciproca), poiché di una radicalissima preterizione in realtà si tratta, e non di diseredazione (preterizione e diseredazione sono due istituti distinti). Sostanzialmente, quindi, il fedecommesso comportava una radicalissima preterizione, a cui poteva magari accompagnarsi una esplicita esclusione qualora vi fossero casi, per esempio, di ribellioni al capofamiglia (i rivoluzionari giacobini, tendendo a far proselitismi tra le giovani generazioni, solitamente non vedevano di buon occhio la paternalistica esclusione dalla successione ereditaria).

Nel vigente codice civile italiano, all"art. 692, il legislatore ha stabilito che ciascuno dei genitori o degli altri ascendenti in linea retta o il coniuge dell"interdetto (la stessa disposizione – a dire il vero, in quanto compatibile – si applica nel caso del minorenne che si trova nelle condizioni di abituale infermità di mente tali da far presumere che interverrà la pronuncia di interdizione nell"ultimo anno della sua minore età), possono istituire rispettivamente il figlio, il discendente o il coniuge con l"obbligo di conservare (in taluni casi comunque attenuabile) e di restituire alla sua morte i beni, anche costituenti la legittima, a favore della persona o degli enti i quali, sotto la vigilanza del tutore, hanno avuto cura dell"interdetto medesimo. Si escludano i casi in cui l"interdizione sia negata, o il relativo procedimento non sia iniziato entro due anni dal raggiungimento della maggiore età del minore abitualmente infermo di mente, e si escludano pure i casi di revoca dell"interdizione, ovvero di violazione, da parte delle persone o degli enti designati, degli obblighi di assistenza: circostanze tutte che comportano, ai sensi del quarto comma dell"art. 692 c.c., l"inefficacia della sostituzione fedecommissaria "assistenziale". Si consideri, inoltre, il secondo comma dell"art. 696 c.c., in cui espressamente si stabilisce che, qualora le persone o gli enti che hanno avuto cura dell"incapace muoiano o si estinguano prima della morte di lui, i beni o la porzione dei beni che spetterebbe loro è devoluta – ordinariamente – ai successori "ex lege" dell"incapace: un siffatto rilievo pone l"interprete dell"architettura giuridica vigente a considerare come sottobanco, ma non surrettiziamente, anzi sotto la sfumatura assistenzialistica e solidaristica della buona fede, entri in scena una effettualità tipica di una preterizione di fatto, avente magari, a seconda delle complesse e contorte circostanze della vita reale dei soggetti, una valenza effettuale accostabile a quella di una diseredazione, "de facto" (anche se sul concetto di contrapposizione della diseredazione "de facto" alla diseredazione "de iure", e, a prescindere, sulla questione dell"esistenza stessa di una diseredazione "de iure" in un sistema normativo come il nostro attuale, sprovvisto di una norma che consideri espressamente l"istituto diseredativo, si potrebbe discutere ampiamente, senza però un concreto risultato, dato l"utilizzo qui solo di comodo dell"espressione "de facto", ai fini una più profonda intesa da parte del lettore nel discernimento tra una preterizione papabile a ricavare dalle concrete circostanze l"effetto tipico della diseredazione, e una diseredazione vera a tutti gli effetti, in tutte le circostanze).

Si è prima palesata un"avversione a un tipo di testamento "paternalistico", o anche "terroristico", perché troppo invasivo nella libertà e nella psicoesistenziale serenità autodeterminativa, e quindi comportamentale, dell"individuo designato; con la vivida luce di questa premessa, si volgo il curioso sguardo analitico alla non meno paternalistica condizione (risolutiva ma anche sospensiva) "si sine liberis decesserit", posta quale asfissiante vincolo ad una istituzione di erede "ex testamento". Una tale condizione, dovrebbe essere attratta sotto la sfera di dominio del divieto generale di imporre pesi o condizioni sulla quota di legittima (art. 549, prima parte), e, al di là dei legittimari, nella più ampia sfera dei successibili "ex lege" (tra cui anche i legittimari stessi vanno contemperati), dovrebbe richiamarsi, nell"opera di delimitazione della norma generale che consente al testatore l"inserzione tra le disposizioni a titolo universale o particolare di condizioni sospensive o risolutive, il baluardo del combinato disposto degli artt. 634 e 626, il primo dei quali dispone che nelle disposizioni del testatore "si considerano come non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all"ordine pubblico o al buon costume […]", e il secondo dei quali (l"art. 626) fa discendere la nullità della disposizione dalla illiceità del motivo, il quale, risulta essere il solo che ha determinato il testatore a disporre.

Ora, considerando che dottrina e giurisprudenza già da tempo hanno affrontato la tematica delle sembianze e delle delimitazioni dei concetti – ad avviso di chi scrive relativi, mutevoli e alquanto multiformi se presi di per sé – di impossibilità e di illiceità, e tenendo a mente che l"esperienza giudiziaria denuncia la frequenza di condizioni illecite perché lesive della libertà e dei diritti fondamentali dell"individuo, quali la libertà matrimoniale, religiosa, politica, sessuale (BONILINI, C. M. BIANCA), non vi è nella dottrina completa unanimità nel relegare la condizione "si sine liberis decesserit" nella dimensione giuridica di invalidità. A dire di una scuola di pensiero, una siffatta condizione sarebbe nulla, poiché sostanzialmente riproducente il vietato meccanismo della sostituzione fedecommissaria (DE ANGELIS, LUMINOSO), evidentemente della vecchia sostituzione fedecommissaria; notiamo, infatti, come l"ultimo comma (il quinto) dell"art. 692 c.c. recita espressamente che in ogni altro caso (all"infuori, quindi, della tutela dell"incapace) la sostituzione "de qua" è nulla.

Detto quanto precede, si noti come sarebbe poco ragionevole militare a favore della validità della condizione sospensiva "si sine liberis decesserit", giacché, se si lasciasse alla guida del senso critico una lungimirante, catastrofica ironia, non senza quell"ansioso pizzico di preoccupazione di fondo per la dignità dell"essere umano, si potrebbe predire che gli avari di eredità familiare (che potrebbero essere chiamati anche "last wills hunters", cacciatori di testamenti) inizierebbero, non prima di una "captatio benevolentiae" presso chi desidera sapere a quale cognome spetterà, dopo la propria morte, il dominio sui propri beni, a concepire o a dare alla luce figli, snaturando l"atto di amore e di sostentamento della continuità della specie umana che, mettendosi in vibrante contatto con le parti energetiche più recondite della nostra essenzialità, dovrebbe far nascere nuove persone.

Prima che irragionevole sarebbe, invece, insensata (soprattutto in un"ottica quale quella odierna lontanissima da quello che potrebbe chiamarsi l""honor sanguinis familiae") una condizione risolutiva "si sine liberis decesserit" atta, una volta acquisita la qualità di erede, a far cessare la sussistenza di tale qualità in capo al già dichiarato erede. Si rammenti, infatti, il brocardo "semel heres semper heres". Ci si potrebbe chiedere se, in presenza di una siffatta condizione, risolutivamente orientata, si potrebbe concepire l"ammissibilità della successione in capo al designato (sotto condizione, nella volizione del testatore "de cujus") in virtù di una larga interpretazione del principio del "favor testamenti", oppure, applicare, nel presentarsi dei presupposti positivamente richiesti dall"art. 626 c.c., la norma presente in quest"ultimo articolo, e quindi considerare nulla l"intera disposizione (con conseguente apertura della successione legittima in caso di unicità della clausola), dopo aver operato la qualificante e specifica sussunzione della condizione "de qua" nella sfera del motivo illecito, il quale risulti essere la determinazione portante della volitività del testatore. Nell"affresco della filosofia diseredativistica, si potrebbero riscontrare "malefici" estremismi a cui il libertinaggio testamentario sottoporrebbe l"equilibrio dell"istituto della diseredazione, utilizzando sottigliezze giuridiche, come l"irrefrenata apponibilità di condizioni sospensive (si è visto che nel sistema successorio eventuali condizioni risolutive sarebbero, prima che illecite, insensate) gravanti sulla clausola ablativo-destitutiva: una simile diseredazione potrebbe essere definita cieca, malata, o semplicemente degenerata. Dovrebbe essere a tutti razionalmente e visceralmente evidente la bruttezza di una volizione, espressa "ex testamento", volta a diseredare un successibile (sia legittimario che legittimo) con sotterranee motivazioni inerenti alla paternalistica non approvazione di determinate "choices or lifestyles" di colui che si vuole escludere: in tal modo, la facoltà (tenuta fuori dalla nostra – si spera – maturità e sensibilità giuridica) di poter apporre una condizione che contempli, come un ricatto, comportamenti attinenti alle scelte personalissime dei successibili, finirebbe con l"entrare dalla non vegliata finestra dell"ordinamento qualora, appunto, fosse riconosciuta una sfrenata libertà diseredativa. Si sottolinei il dato della sfrenatezza nelle nostre preoccupazioni, poiché qualora in ossequio al principio della libertà testamentaria dovesse imporsi la liceità di un equilibrato istituto diseredativo positivizzato (nonché costituzionalmente orientato), applicabile persino ai legittimari, verrebbero comunque mantenuti gli argini normativi garanti del buon andamento e della non illiceità delle disposizioni testamentarie, anzi, lo stesso art. 626 c.c. si presterebbe – e oggi si presta già senz"altro – ad annettere nella propria sfera applicativa anche le clausole con cui si esplica la facoltà di disporre negativamente (di diseredare), in virtù delle espressioni omnicomprensive e quindi neutre enunciate nella norma ("disposizione" e "disporre"), atte ad indicare un semplice regolamento dispositivo "post mortem" proprio dell"atto testamentario.

L"esigenza di un attuale, comunque significativo, filtro di salvaguardia della liceità dispositivo-testamentaria, potrebbe ritrovarsi tra le righe del passo in cui Bonilini afferma che "La validità delle disposizioni così dette poenae nomine, poi, cessa soltanto quando le medesime siano illecite o impossibili".

Se si ripercorrono per un istante le pagine in cui esponevamo le lezioni giampiccoliane e lipariane sulla teoria generale del negozio, riprendendo l"ottica astratta del comune "humus" di negozialità che ciba e sostenta le discipline dei due negozi, contrattuale e testamentario, ci si potrebbe accostare alla chiave di lettura (fornita peraltro da un recente studio) che, se seguita, farebbe volgere il giudizio critico e icastico di chi qui un paio di anni fa pensava e ora scrive, all"irreversibile frantumarsi della pangèa negoziale propria dello stato di natura dei concetti giuridici (mero piano speculare per un comodo lavoro), frantumazione conseguente al progressivo imbattersi della deriva delle manifestazioni negoziali dell"autonomia privata ora considerate (contratto e testamento). Tali manifestazioni negoziali dei privati, in un"ottica concettuale tutta separatista e autonomistica (ove ogni atto è come un concetto che, nella sua peculiarità, è retto dalle norme ad esso soltanto connaturate), giuocano a delle strane "guerre fredde" per spartirsi un posto al sole quanto più grande nella capitale normativa che è – o per gli orientamenti decodificazionisti era – il Codice, risultato del momento codificatorio figlio non solo dell"emulazione del primo Ottocento francese, ma anche del movimento storico liberaldemocratico.

Il recente studio a cui poco fa si faceva riferimento, è quello di una scrittrice la quale, parlando delle c.d. clausole di decadenza, appartenenti alla più ampia categoria delle disposizioni di carattere sanzionatorio, dette anche "poenae nomine relictae", sostiene che "Rientra […] nell"autonomia del disponente, prevedere uno svantaggio patrimoniale per l"onorato, ove costui trasgredisca la sua ultima volontà, consistente nella riduzione del lascito o nella totale decadenza dallo stesso" (M. C. TATARANO). La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha indicato il suo favore per l"applicabilità, alle disposizioni "de quibus", della disciplina prevista per le condizioni testamentarie dall"art. 634 c.c., secondo il quale nelle disposizioni testamentarie si considerano non apposte le condizioni impossibili e quelle illecite, ossia contrarie a norme imperative, all"ordine pubblico o al buon costume. In particolare, si fa riferimento alle due sentenze della Corte di Cassazione, l"una del 9 maggio 1966, n. 1180, l"altra, che richiama le disposizioni testamentarie a carattere sanzionatorio dirette ad esercitare una pressione psicologica sul beneficiario, del 18 novembre 1991, n. 12340. Chi, nel momento logico-ricostruttivo dell"ermeneutica normativa, ama attrezzarsi di consapevolezze storiche circa l"eziologia dei principi posti a base delle norme, non può, di fronte alla lettura dell"art. 634, non armonizzarsi all"unanime effetto di rimembranza dello spirito della regola sabiniana. Quest"ultima, risalente al diritto romano, sarebbe applicabile al testamento, giungendo così al risultato per cui le condizioni impossibili o "illecite vitiantur sed non vitiant". La scrittrice, M. C. Tatarano, nella sua opera di allontanamento dei canoni dell"atto testamentario dai canoni tipici della disciplina del contratto in generale, si appresta a partire dalla specifica considerazione per cui "è ben possibile che il divieto di alienare i beni ereditari incida sull"autonomia dell"istituito, senza dar luogo ad una sostituzione vietata [si allude alla sostituzione fedecommissaria vietata al di fuori della specifica fattispecie in cui è, con i dovuti peculiari presupposti che la distanziano dal fedecommesso storico, ammessa] e per di più senza essere contenuto in limiti temporali convenienti e senza rispondere ad un apprezzabile interesse del testatore, cioè senza rispettare quei margini dettati dall"art. 1379 c.c. per il divieto di alienazione consacrato in un contratto". In questo lavoro, invece, si era pervenuti a prendere comunque in rilievo incidentale lo spirito dell"art. 1379, in un"ottica evidentemente più liberale per la sfera giuridico-patrimoniale dell"istituito ricevente, e meno liberale per il piano volitivo del testatore, il quale, in fin dei conti, dopo la sua morte, sicuramente non esistendo più tra i vivi, non può constatare il disagio dovuto alle restrizioni alla libera circolazione dei beni. Però, se si considerano le spiegazioni che M. C. Tatarano fa seguire alle sue proposizioni qui da ultimo riportate, spiegazioni che fungono anche da premessa logica dei suoi rilievi, si può leggere che l"applicabilità della norma dell"art. 1379 al testamento "è da escludersi, non solo per l"impedimento testuale costituto dall"art. 1324 c.c., che consente l"estensione della disciplina del contratto ai soli atti unilaterali tra i vivi aventi contenuto patrimoniale, ma anche in considerazione della circostanza che la norma in esame risponde ad un"esigenza specifica della materia contrattuale, ed è espressione del principio di autonomia sancito dall"art. 1322 c.c.". Il riferimento ultimo all"art. 1322, norma che l"A. circoscrive al territorio contrattuale, sembra un implicito riferimento all"esclusione, per il testamento, dei limiti ulteriori che l"ordinamento pone al piano volitivo della contrattualistica, piano volitivo chiamato a sfociare in un accordo di due o più parti, nella costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico patrimoniale. Uno schietto schierarsi contro l"applicazione latamente analogica dell"art. 1322 al campo testamentario (analogia che, se esaltata, risulterebbe sicuramente alterata e magari persino fuorviante), ad avviso di chi scrive, vuole essere indice, in particolar modo, della lontananza dell"autonomia negozialtestamentaria dalla restrizione (rintracciabile in un piano valoriale generale dell"ordinamento) del cpv. dell"art. 1322, il quale consente schemi contrattuali (quindi, più genericamente, negoziali) atipici, purché questi risultino diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l"ordinamento giuridico. Quest"ultimo dato manifesta il parametro di socialità che deve comunque ispirare l"azione giuridica patrimonialmente incidente dei privati, la loro attività economica (come vuole lo spirito della Costituzione all"art. 41), nonché l"istituto stesso della proprietà privata (la quale nei contratti viene spesso resa oggetto di eventi circolatori nella sua titolarità), come auspica l"art. 42 Cost. nel riferirsi alla tutela della sua accessibilità a tutti. Tale parametro di socialità non è  direttamente riscontrabile nelle logiche conseguenze delle lucide premesse poste dall"Autrice, la quale, anzi, continua affermando, sulla scia di autorevoli insegnamenti certamente non lontani dallo spirito sociale della Carta costituzionale (BONILINI), che l"art. 1379 c.c. "Non può, quindi, applicarsi al testamento, espressione di un"autonomia ancor più ampia, che trova solo nella liceità degli intenti il limite alla sua esplicazione". Subito dopo, però, l"A. attenua i toni perentori riconoscendo, nonostante la non diretta applicabilità dell"art. 1379 al testamento, che "i criteri prudenziali suggeriti dalla disposizione [dello stesso art. 1379 s"intende], cioè quelli della temporaneità del divieto e dell"apprezzabilità dell"interesse, possono estendersi al divieto testamentario [di alienazione]"; saggiamente lasciandosi guidare dalla considerazione della "diffidenza del legislatore per le obbligazioni di durata senza limiti temporali" (M. C. TATARANO), diffidenza in ordine alla quale una disposizione che vieti senza un termine di durata l"alienazione dei beni ereditari, è suscettibile di determinazione  o di riduzione – qualora il termine sia troppo lungo – su intervento dell"autorità giudiziaria (M. C. TATARANO, ROCCA).

Tutto quanto precede ha il fine di configurare meglio l"autonomia negoziale che il testatore disponente può "sprigionare" legittimamente anche attraverso le disposizioni aventi carattere limitativo, o sanzionatorio. Lo stesso Bonilini si pone in una posizione di ammissibilità delle disposizioni di carattere sanzionatorio, quando afferma che "la penale testamentaria, o la clausola di decadenza, et similia, si rivelano momenti di un disegno (spesso molto articolato, ma) giuridicamente corretto, non foss"altro per il risultato al quale codeste disposizioni tendono: il rispetto della volontà testamentaria".

Ai fini del presente lavoro, una delineazione delle teoriche circa l"ammissibilità e i limiti delle disposizioni testamentarie non meramente attributive conduce a considerare il grado di spianabilità della strada su cui la diseredazione ha dovuto viaggiare prima di pervenire nelle secche chiarificazioni della sentenza di legittimità n. 8352 del 25 maggio 2012, pronuncia che ha riconosciuto la legittimità di una clausola testamentaria meramente ablativo-destitutiva verso dei non legittimari. Poteva, d"altronde, sostenersi che nel riconoscere la fruibilità di condizioni non impossibili e non illecite, e nel volgersi verso l"ammissibilità delle disposizioni sanzionatorie, la giurisprudenza di legittimità avrebbe potuto fare uno sforzo in più e animarsi delle ragioni che già militavano a favore dell"istituto diseredativo, anticipando di anni il proprio salto di qualità, sposando sin da subito, nei suoi atteggiamenti verso la materia, quella che a chi scrive va di definire, icasticamente, la matrona del sistema giuridico, ossia la certezza del diritto. È andata come è andata. Ora, quindi, è giusto occuparsi, instancabilmente, di lavorar di lima nel far uscire quanto più nitidamente possibile i contorni della disposizione diseredativa, e quelli delle disposizioni di un testatore che nell"invito alla "diligenza" del beneficiario, voglia quasi emulare il timor divino con l"instaurazione di un più sciatto "metus testatoris". Un carattere comune a tali differenti tipi di disposizione di ultima volontà, potrebbe attingersi presso il serpeggiante dato sanzionatorio. Tuttavia, pur avendo addosso ai retroscena del proprio elemento soggettivo-volontaristico una sfumatura, magari anche caratterizzante, di natura sanzionatoria, la diseredazione dei non legittimari (non riferita ai soggetti legittimari, destinatari di una posizione giuridica qualitativamente più delicata) si compiace di produrre un effetto destitutivo più immediato e disinvolto, scevro da condizioni a base delle quali vengono inevitabilmente a frapporsi imprevedibili incidenze che ostacolerebbero l"immediatezza effettuale della volizione del testatore, orientata alla espressa negazione della successibilità di qualcuno. Se l"atto stesso (intendendosi qui l"atto in senso documentale-materiale) potesse parlare, nel caso della disposizione "poenae nomine delictae" volta alla totale decadenza del soggetto dal lascito, potrebbe confortare il soggetto stesso a nutrire qualche sentore di aspettativa di fatto (in senso assolutamente atecnico, data la revocabilità della disposizione testamentaria da parte del testatore fino all"ultimo istante di vita), mentre nel caso della diseredazione esorterebbe il successibile, non senza una pacca sulla schiena di costui, ad avere un atteggiamento di embrionale rassegnazione, sempre abortibile qualora (a ragione della libera revocabilità di cui prima) il disponente dovesse cambiare idea circa la destinazione "post mortem" dei propri beni. E poi, a prescindere, il diseredato, a differenza del soggetto destinatario delle disposizioni sanzionatorie, non è mai beneficiario, neppure qualora per assurdo fosse apposta alla clausola destitutiva, una condizione risolutiva, la quale sarebbe comunque illecita, poiché minerebbe alle fondamenta il principio di certezza del diritto, contrastando, così, con l"ordine pubblico, ma anche con il buon costume, volendo quindi coniare il brocardo "semel exheredatus semper exheredatus".

Sacra centralità nel nostro ordinamento trova l"inammissibilità, positivamente espressa in un divieto, dei patti successori. Siffatto divieto mantiene l"atto testamentario nell"orbita di fedeltà alla unilateralità e alla unipersonalità, ricalcando brillantemente sulla effettiva, concreta, talvolta irriducibile distanza che in maniera pulsante vige tra la costituzione del negozio testamentario e la costituzione del contratto. Se fosse tolto, o anche solo fraudolentemente aggirato, il divieto di patti successori (positivizzato nel nostro codice all"art. 458, ove nella sua prima parte spicca – in aperta correlazione esegetica con l"art. 587 – il verbo "disporre"), sarebbe, osservando in faccia il vero, intaccata la libertà dispositiva del testatore, con un probabile "perverso" fiorire di diseredazioni convenute meta-contrattualisticamente a tavolino. Il testamento è atto negoziale unilaterale, e non è in grado di assurgersi a momento poietico di un rapporto "stricto sensu" tra più soggetti; esso non giunge a costituire nemmeno un"aspettativa legale, di per sé a più blanda intensità nella scala delle posizioni giuridiche soggettive favorevoli, rispetto al diritto soggettivo. A dir di molti esso costituirebbe, tuttavia, soltanto una (giuridicamente irrilevante) aspettativa di fatto, ossia, detto in termini più immediati, una semplice speranza da nutrire in cuore. Il testatore è destinato a far muovere con certezza solo le proprie "biglie", senza tra l"altro essere sicuro della effettiva loro destinazione. La successione statale, infatti, rappresenta una forma di salvataggio dei beni, da un lato, e di chiusura "in extremis" dell"avventura dei beni alla ricerca di una sistemazione giuridicamente rilevante, e, soprattutto, certa e verificabile. In una rilevante fetta della dottrina italiana, il testamento è un negozio giuridico ("ex multis", CICU, GANGI, AZZARITI-MARTINEZ, C. M. BIANCA), e, più in particolare, come è stato autorevolmente sostenuto, esso "corrisponde pienamente al significato di negozio quale autoregolamento giuridicamente rilevante di privati interessi" (C. M. BIANCA). Tuttavia, tra le scuole del pensiero giusprivatistico, spicca l"opinione secondo la quale il testamento non è un autoregolamento, bensì un eteroregolamento programmatico, dato che il suo disporre riguarda soggetti diversi dal suo autore (CRISCUOLI).  Ad avviso di chi scrive, nella teorica minoritaria dell"eteroregolamento si considera semplicemente il testamento nel suo momento "compiuto", ossia nel tempo "post mortem" in cui la titolarità dei beni in esso contemplati è già, a seguito dell"accettazione (per l"istituzione a titolo universale) o di mero mancato rifiuto (per l"istituzione a titolo particolare), attribuibile ai soggetti istituiti, giacché non sarebbe eteroregolamento dato che nel momento di confezionamento, e anche nell"istante della mera vocazione all"eredità, i chiamati, non essendo ancora entrati nella titolarità dei beni del testatore (avendo sempre e comunque la facoltà di non accettare), non sono effettivamente regolati nella loro sfera giuridico-patrimoniale dall"atto del testatore. È, quindi, il testamento, un eteroregolamento in potenza. Il negozio testamentario costituisce, a parer di chi scrive, un autoregolamento, dal punto di vista del testatore, punto di vista che verrebbe a mancare nel lasso temporale in cui l"eredità è giacente, ossia nel periodo tra la morte del testatore e l"accettazione dell"eredità, ove il testamento diviene un atto di regolamento senza più un padrone vivente, se non la legge stessa (tanto nel suo aspetto sostanziale quanto nel suo versante procedurale); un regolamento senza più padrone sì, ma non un atto fine a se stesso, poiché esso è comunque funzionale nel nome di qualcuno che fu, per qualcun"altro che, ancora vivido superstite all"ineluttabilità della morte, è.

Volendo trarre un piccolo bilancio della correlazione e dello stadio di evoluzione riguardante il "dialogo" tra la dottrina e la giurisprudenza di legittimità degli anni in cui Bonilini ha scritto "Il testamento. Lineamenti", la sua opera di apertura a una idea più ampia di atto testamentario, spicca un tempo quietato nella conservazione e variabile al contempo, data, da un lato, la negazione dell"ammissibilità della clausola meramente diseredativa con la contestuale sedimentazione della teorica dell"istituzione implicita (Cass. 18 giugno 1994, n. 5895), e, dall"altro lato, una insipida ammissione implicita dell"istituto destitutivo (sussisteva il convincimento dell"operatività della rappresentazione in favore dei discendenti del diseredato), in cui il problema teorico dell"ammissibilità dell"istituto "de quo" non viene affrontato "expressis verbis" (Cass. 14 dicembre 1996, n. 11195).

All"alba del XXI secolo, sotto l"incalzar dei primi vagiti del neonato millennio, non tanto tra la giurisprudenza di legittimità, quanto in quella di merito si sono sostanziate, le pronunce del 28 marzo 2000 del Tribunale di Catania, e del 16 giugno 2000 della Corte d"Appello di Genova. La sentenza d"inizio primavera, dipingendo il testamento quale atto di disposizione in senso ampio, aveva ammesso la validità dell"atto testamentario a contenuto meramente negativo e, in particolare, a contenuto radicalmente, totalmente negativo nelle conseguenze effettuali della successione in capo ad altri privati consociati (il "de cujus", infatti, aveva escluso dalla successione, indistintamente, tutti i successibili "ex lege", senza dettare alcuna prescrizione sulla sorte dei beni dopo la morte); in questo caso giudiziario, quindi, non restava che riconoscere, come unica, concreta implicazione effettuale attribuibile alla volizione testamentaria del "de cujus", quel meccanismo di chiusura, quella ultima spiaggia, nonché "extrema ratio" del sistema delle successioni (in virtù della certezza del diritto auspicabile nella dovuta sistemazione della titolarità sul dominio dei beni), che è la successione dello Stato ex art. 586 c.c.  L"altra pronuncia, di fine primavera del 2000, vede la Corte d"Appello di Genova far riferimento alla negozialità del testamento nell"esplicito riferirsi all"autonomia negoziale del "de cujus", autonomia nel cui seno trova scaturigine la clausola, di tipo negativo, della diseredazione; la sentenza "de qua" specifica magistralmente l"ammissibilità di una clausola meramente destitutiva, in virtù dell"espressa negazione del contrasto tra l"istituto diseredativo e il primo comma dell"art. 587 c.c.  Il limite della pronuncia della Corte d"Appello genovese del 16 giugno 2000, spiccante agli occhi del fruitore giuridico della recentissima sentenza del Supremo Collegio n. 8352 del 2012, è stato quello di considerare ancora come atipica, e non semplicemente come innominata, la disposizione del testatore atta a diseredare.

I rilievi portati avanti nella riflessione tecnica denotano la stretta dipendenza reciproca degli equilibri del testamento in generale (considerato alla luce dell"autonomia negoziale di ultima volontà) e della più specifica molecola testamentaria atta alla esclusione di qualcuno dal quadro dei successibili "mortis causa": la diseredazione sta al testamento come la "libertas exheredandi" (da intendere in senso attuale e non romanisticamente) sta alla "libertas testandi".




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