-  Gasparre Annalisa  -  20/12/2014

ATTIVITA' MEDICA: IL VALORE DEL CONSENSO AI FINI PENALI - Annalisa GASPARRE

Il rilievo penale del consenso nell'attività medico-chirurgica


L'attività medico-chirurgica è stata oggetto di attenzione da parte del giudice penale in vicende nelle quali si sono contestati non solo e, comprensibilmente – nel senso di strutturalmente coerenti con i beni giuridici tutelati – i reati di omicidio (soprattutto colposo) e di lesioni personali (dolose o colpose), quali fattispecie che ledono la vita o l'integrità fisica del paziente, ma altresì il reato di violenza privata (il cui bene giuridico tutelato, come noto, è la libertà morale). Inoltre, ad aggrovigliare contestazioni e accertamenti è da rilevare l'incidenza, nel tema di contestazione che può essere rivolto al medico, dell'ipotesi di omicidio preterintenzionale (quale conseguenza della lesione personale volontaria).

Tale è il quadro, per vero circoscritto, delle fattispecie incriminatrici addebitabili al medico-chirurgo nell'esercizio dell'attività sanitaria che abbia a riferimento la persona del paziente (esulano, infatti, i pur possibili casi – occasionati dall'attività medica – di falso, abuso della professione, rifiuto od omissione di atti d'ufficio, ad esempio). Tuttavia, si tratta di un quadro complicato dalla possibilità che, rispetto ai sopra citati reati di evento, siano contestate corrispondenti condotte di tipo omissivo, con i problemi di accertamento (tra cui, quelli inerenti alla posizione di garanzia e all'attività d'équipe) che ne derivano dall'innesto di un non facere in una fattispecie disegnata come commissiva.

In termini generali, si ritiene, pacificamente, che l'attività di cui si tratta sia lecita ed autolegittimata, perché consentita dall'ordinamento e abbia, anzi, un'utilità sociale. Tuttavia, il fondamento della liceità dell'attività sanitaria è stato oggetto di discussione da parte di dottrina e giurisprudenza. L'approfondimento dell'assioma è, infatti, destinato a complicarsi con riguardo ai limiti ed alla "sintesi" di diritti e doveri, apparentemente contrapposti, che vengono in gioco: l'attività medica rientra nell'area del rischio consentito, se vi è espressione del consenso dell'avente diritto oppure si tratta di attività connessa all'adempimento di un dovere da parte del medico, anche contro la volontà del paziente? E ancora, in che modo si coniuga la previsione dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p.?

Per tentare di ricostruire l'attuale stato dell'esegesi giurisprudenziale, in via prioritaria, vanno prese in considerazione le norme di riferimento e il rango delle stesse. Il riferimento obbligato è quello all'art. 32 co. 2 Cost. che, nell'affermare il diritto alla salute, esclude che vi possa esservi coazione in tema di trattamenti sanitari, salvo i casi previsti dalla legge in cui la salvaguardia della salute collettiva coincide con la tutela della salute individuale. Quella menzionata è vera e propria riserva di legge.

Dall'affermazione del diritto alla salute, interpretata quale libertà dell'individuo di autodeterminarsi con riferimento al trattamento sanitario, si è ritenuto farsi derivare la necessità del consenso del malato (sia ad iniziare un trattamento che a rifiutarlo o ad interromperlo, anche se con rischi per la vita). Il diritto alla salute – intesa questa quale equilibrio tra fisico e psiche della persona – , nella sua declinazione di diritto fondamentale che non è soggetto a coazione sanitaria e del correlato diritto di rifiutar cure, pertanto, rientra tra i principi fondamentali di libertà (C. Cost. 45/65), ricollegandosi, sia all'art. 2 Cost., quale diritto inviolabile della persona che all'art. 13 Cost. che presidia il principio di libertà (nella specie, di autodeterminazione). Inoltre, in termini espliciti di consenso libero e informato si esprime la Convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, esplicando il principio costituzionale.

Di segno, solo apparentemente, contrario è il disposto dell'art. 5 codice civile che enuncia il divieto di disporre del proprio corpo, norma che, peraltro, oltre ad essere di fonte subordinata rispetto alla Costituzione, deve essere interpretata in senso costituzionalmente orientato, giacché precedente la Carta costituzionale. Il giudice delle leggi, infatti, ha affermato la prevalenza del principio dell'art. 32 Cost. sulla disposizione dell'art. 5 c.c.: la norma costituzionale, in altre parole, segna il limite di applicazione della previsione codicistica, stabilendo l'ambito di liceità dell'attività di disposizione del proprio corpo che sarà consentita per motivi terapeutici o comunque nell'ambito di trattamenti sanitari (C.Cost. 161/85).

La tensione di valori è quella che intuitivamente si pone rispetto ai doveri professionali del medico sul quale incombono anche vincoli deontologici, primo fra tutti il rispetto della salvaguardia della vita del paziente. Tuttavia, si tratta di profili recessivi rispetto all'autodeterminazione del paziente che si esprime tramite il consenso (parimenti imposto dalle norme deontologiche): il medico dovrà acquisire il consenso e rispettare un eventuale dissenso all'iniziare o al proseguire il trattamento terapeutico.

Inoltre, in termini generali, la giurisprudenza – anche con riferimento alla fattispecie di omicidio del consenziente (di recente Cass., Sez. I pen. 37246/2014) – ha delineato i connotati del consenso giuridicamente rilevante. Tale è la manifestazione personale, consapevole (cioè informato), autentico (cioè non apparente, non condizionato da motivi irrazionali, non frutto di costrizione o suggestione esercitata da terzi), reale e attuale. In particolare, affinché possa dirsi che il trattamento terapeutico ha carattere lecito occorre che il consenso sia informato, cioè espresso dopo un'informazione completa circa i possibili effetti negativi della terapia o dell'intervento, comprensiva delle controindicazioni e della gravità degli effetti.

Stratificati sono gli arresti giurisprudenziali che si sono occupati del rilievo del consenso nella materia in parola, con particolare riguardo all'attività medico-chirurgica esercitata in assenza del consenso oppure oltre quello prestato dal paziente con riferimento ad un intervento meno invasivo di quello realizzato in concreto.

Dall'ambito di indagine vanno preliminarmente esclusi i casi di emergenza, in cui non sia possibile esprimere o negare alcun consenso. In tale evenienza, il medico è legittimato ad agire con un trattamento adeguato alle contingenze: trova applicazione l'esimente dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p.

L'approdo attuale della giurisprudenza è, prima facie, nel senso che presupposto di liceità dell'attività del medico è l'inderogabile consenso del paziente, precipitato della libertà di autodeterminazione del paziente di rango costituzionale ed internazionale, senza, tuttavia, che tale conclusione valga a rinnegare il presupposto dell'utilità sociale svolta nell'attività medica: la giurisprudenza recupera i valori espressi dall'esercizio dell'attività sanitaria in un'ottica diversa, vale a dire quella dell'elemento soggettivo dei reati eventualmente ravvisabili in un dato caso e che, come si dirà, è incompatibile con la generale funzione sociale perseguita dall'esercente la professione sanitaria (sentenza Giulini).

Tuttavia, non vi è uniformità di vedute rispetto al ruolo giocato dal consenso: secondo taluni va inquadrato nell'ambito della causa di giustificazione ex art. 50 c.p., con ciò operando ad elidere l'antigiuridicità del fatto tipico, secondo altri, il consenso esclude la stessa configurazione della tipicità. In quest'ultima accezione, il consenso del paziente agirebbe in radice, costituendo presupposto di validità e liceità dell'attività medica, e non mera "giustificazione" data dalla necessità di armonizzare il precetto penale con settori dell'ordinamento in cui la condotta vietata è autorizzata o imposta. Secondo altri ancora (sentenza Volterrani), l'attività medica si autolegittimerebbe, sicché non sarebbe necessario alcun consenso, la cui assenza sia penalmente rilevante. La sentenza S.U. Giulini del 2008 esclude la compatibilità concettuale tra attività sanitaria ed elemento soggettivo richiesto per il reato di lesioni personali volontarie (e quindi, anche dell'ipotesi di omicidio preterintenzionale che le presuppone).

Tuttavia, pur essendo innegabile, secondo le Sezioni Unite Giulini, che l'atto chirurgico integri "materialmente" e tipicamente il fatto incriminato, lo step successivo di verifica dell'antigiuridicità di quel fatto attiene alla disamina della relazione medico-paziente, vale a dire al "consenso informato" che caratterizza la condotta del sanitario. Diventa allora dirimente verificare, prima del profilo dell'antigiuridicità, se l'atto chirurgico ha prodotto un danno o un beneficio, perché in quest'ultimo caso a venire meno è già la tipicità del fatto, di talché non ha senso approfondire se un fatto – che non è tipico – sia antigiuridico o meno. In altre parole, la tipicità viene a configurarsi non per difetto di consenso tout court, bensì solo se l'evento cagionato è infausto. Rovesciando la questione: se l'evento provocato dall'atto chirurgico è infausto per il paziente, rileva il consenso (se prestato) nel senso di escludere l'antigiuridicità; se l'esito è fausto il problema non si pone perché non vi è tipicità, ergo la mancanza del consenso è penalmente irrilevante.

La giurisprudenza, salvo isolata opinione, sembra assestata almeno riguardo a cosa si intenda per malattia, concetto indispensabile per giudicare infausto l'evento. Malattia, almeno in tale contesto, non è la mera lesione dell'integrità fisica (posto che l'atto chirurgico comporta sempre – ed ovviamente – un'incisione del corpo del paziente) bensì la menomazione funzionale o di significavo processo patologico.

In sintesi, la tassonomia ricavabile dalle pronunce della Cassazione può essere schematizzata come segue.

Se il consenso informato manca del tutto, l'espletamento di attività medico-chirurgica integra un atto illecito, talché il medico risponde di tutte le conseguenze negative arrecate al paziente. Pertanto, il medico è responsabile nel caso in cui l'esito sia infausto, perché la condotta ha cagionato un evento conforme al tipo, mentre è esente da responsabilità nel caso in cui l'esito sia fausto.

Ulteriore e parzialmente diverso è il caso in cui il consenso sia stato originariamente prestato ma per un intervento diverso da quello realizzato. In queste ipotesi di consenso viziato, si è paventata l'ipotesi che vi fosse spazio per il reato di violenza privata, in quanto il profilo della violenza richiesta dalla fattispecie risiederebbe nella costrizione del paziente a tollerare un trattamento non consentito. Le Sezioni Unite sono pervenute ad escludere la configurabilità del reato perché la violenza che connota la condotta costrittiva si esaurirebbe nell'atto operatorio, difettando l'evento che la violenza è preordinata a realizzare. Difetta, poi, anche il requisito della costrizione atteso che il paziente anestetizzato si trova in stato di incapacitazione, tale per cui non ha senso parlare di costrizione della volontà che presuppone il dissenso della vittima. In conclusione, in siffatte condizioni di consenso prestato per un intervento diverso, si applica la stessa regola circa la dicotomia esito fausto/esito infausto elaborata a proposito dell'assenza di consenso.

Tuttavia, sia che il consenso manchi o sia prestato per un intervento diverso, secondo alcuni, nei casi in cui vi sia conformità al tipo perché l'esito è infausto, non si potrebbe contestare la volontarietà della condotta, atteso che vi è incompatibilità tra finalità terapeutica e dolo. L'elemento soggettivo in parola, invece, secondo recente giurisprudenza, troverebbe pacifica cittadinanza nei casi estremi in cui il medico abbia realizzato comportamenti anomali, distorti, dissonanti rispetto alla finalità terapeutica, vale a dire per scopi estranei (scientifici, dimostrativi, didattici, estetici o esibizionistici), tanto da travalicare i canoni di imprudenza, imperizia o negligenza.

Rigoroso è invece il trattamento giuridico nel caso di dissenso: insuperabile è l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal paziente, naturalmente anche nell'ipotesi in cui non effettuare l'intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute del paziente o la sua morte. Così la Cassazione (Volterrani) ha affermato che il medico non può 'manomettere' l'integrità fisica del paziente, quando questi abbia espresso il suo dissenso, in quanto ciò sarebbe in radicale contrasto con il principio personalistico espressamente accolto dall'art. 2 Cost. In tali casi, sono integrati i reati dolosi, a prescindere dall'esito (fausto/infausto) dell'intervento.

Infine, va considerato che, secondo alcuni, la mancata acquisizione del consenso informato rappresenterebbe una violazione di regole cautelari, sicché i reati di omicidio o di lesioni potrebbero essere ascritti, per ciò solo, a titolo di colpa. Si obietta, tuttavia, che le regole sul consenso non siano inquadrabili nell'ambito delle norme cautelari.




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