-  Redazione P&D  -  20/12/2013

BREVI NOTE IN TEMA DI ADOZIONE – Cass. 28213/13 – Teresa PUNTILLO

La sentenza sotto riportata permette una breve riflessione sui presupposti del provvedimento di adozione, partendo dal suo nucleo fondamentale: la tutela dell"interesse del minore ad una crescita armonica preferibilmente all"interno della sua famiglia di origine.

Nel riprendere le parole della S.c., va innanzi tutto premesso che la disciplina dell'adozione di minori, fin dalla originaria Legge del 1967, confermata da quella oggi vigente del 1983 e dalle sue successive modifiche, ha sempre considerato l'esclusivo interesse del minore, preminente su ogni altra posizione, ivi comprese le aspirazioni dei genitori di origine, pur talora umanamente comprensibili.

Quanto all'art. 8 L. 184 del 1983, esso, definendo l'abbandono di minore, come privazione di "assistenza morale e materiale da parte dei genitori (o dei parenti tenuti a provvedervi)", costituisce sostanzialmente una norma in bianco, nella quale peraltro la giurisprudenza (e segnatamente quella di questa Corte) è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci (per tutte, Cass. N. 21917 del 2006).

Soccorre, in tal senso, il richiama ai principi costituzionali: l'art. 30 Cost. indica l'obbligo (prima ancora che il diritto) dei genitori di educare, istruire, mantenere i figli, e il principio costituzionale trova riscontro nell'art. 14 c.c., là dove si precisa che i genitori hanno il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli.

È necessario da un lato trasmettere al minore, con l'educazione e l'istruzione, i valori necessari per fargli progressivamente acquistare le capacità e posizioni proprie di ogni membro della collettività: a svolgere tale alta e delicatissima funzione la famiglia non è lasciata sola, vi, sono altri soggetti istituzionali: ad es. la scuola); essa ha comunque un ruolo preminente ed insostituibile. Ma è pure indispensabile provvedere anche finanziariamente al soddisfacimento dei bisogni del minore e alle sue esigenze di crescita: si tratta evidentemente di un compito assai complesso ed articolato, ben più ampio di quella minima prestazione di cure che serve a mantenere in vita il soggetto.

È evidente peraltro che non ogni irregolarità o ritardo nell'adempimento dei doveri genitoriali potrebbe dar luogo ad adozione; varie possono essere le misure previste, da quelle amministrative di aiuto e sostegno alla famiglia, all'affidamento familiare, dalla decadenza o limitazione della potestà, con o senza allontanamento del minore o del genitore, fino all'adozione legittimante. Ma allora le diverse formule generali che sembrano indicare situazioni qualitativamente diverse (difficoltà temporanee della famiglia di origine, o - ciò che è lo stesso - privazione temporanea di un ambiente familiare idoneo, comportamento del genitore pregiudizievole al figlio, violazione o trascuratezza dei doveri inerenti alla potestà ovvero abuso dei relativi poteri, con grave pregiudizio del figlio, mancanza di assistenza morale e materiale) sono soltanto indici di un più o meno grave (o magari gravissimo) inadempimento dei doveri educativi dei genitori. E va precisato che solo all'interesse del minore deve farsi comunque riferimento; non si sanziona il comportamento del genitore, ma ci si deve preoccupare esclusivamente di eliminare le conseguenze che tale comportamento determina o potrebbe determinare sullo sviluppo della personalità del fanciullo.

Va peraltro osservato che rispetto ad altre misure l'adozione comporta la conseguenza più grave, lo scioglimento di ogni legame con la famiglia di origine.

Qual è dunque, per così dire, il punto di rottura, al di là del quale si procede necessariamente all'adozione? Ed è possibile individuarlo con sicurezza sempre e comunque? Non tanto e non solo ai comportamenti del genitore, ma alle conseguenze sulla personalità del minore dovrebbe farsi riferimento, e dunque, ove la situazione familiare fosse tale da compromettere in modo grave e irreversibile lo sviluppo psico-fisico della personalità del fanciullo, si dovrebbe far luogo ad adozione. Non alla figura di un minore astratto, né a tutti i minori di quell'età o di quell'ambiente sociale ci si dovrà peraltro richiamare, ma a quel minore particolare, con la sua storia, il suo "vissuto", le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, la sua età, il suo grado di sviluppo; ma allora, in tal senso, la questione, talora dibattuta, se di sviluppo "normale" od ottimale debba trattarsi, non ha più senso: è lo sviluppo riferito a quel minore precisamente individuato.

L'esigenza è dunque sempre la medesima: garantire una crescita armonica e compiuta del fanciullo. L'adozione, come si diceva, si distingue nettamente dalle altre figure perché presuppone una situazione grave ed irreversibile (laddove il giudizio di gravità ed irreversibilità va fatto - lo si ribadisce - con riferimento alla posizione del singolo minore) (Tra le altre, Cass. n. 16795 del 2009).

Quanto all'art. 1 L. n. 184, esso introduce una generale enunciazione di principio, per cui il minore ha diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia. Non è tuttavia accettabile un'interpretazione del principio in senso assoluto: il minore dovrebbe essere educato sempre e comunque nella famiglia di origine (ciò che contraddirebbe il contenuto stesso della L. n. 184 e i principi costîtuzionali: l'art. 30, comma 2, Cost. precisa che, anche in caso di incapacità dei genitori, devono essere comunque assicurati i compiti di educazione, mantenimento, istruzione dei figli).

Il significato dell'enunciazione che apre la legge n. 184, anche alla luce dei commi successivi dell'art. 1 (per cui sono disposti a favore della famiglia interventi di sostegno ed aiuto, al fine di prevenire situazioni di abbandono) è ben diverso: il minore ha diritto ad essere educato nella propria famiglia di origine finché ciò sia possibile, ed è pertanto necessario individuare tutti gli strumenti di aiuto e sostegno ad esso, seguendo del resto le indicazioni dell'art. 31 Cost., perché essa possa assolvere ai suoi compiti educativi; ma quando questo programma non ottenga l'effetto sperato, si farà luogo all'adozione, sciogliendo ogni legame con la famiglia di origine. (Cass. n. 1108 del 2010; da ultimo, Cass. 25213/13).

In definitiva, il diritto a vivere nella propria famiglia di origine incontra un limite, nello stesso interesse del minore, se si accerta la ricorrenza di una situazione di abbandono che legittimi la dichiarazione di adottabilità qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico - fisico, cosicché la rescissione del legame familiare è l'unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva.

Emerge abbastanza di frequente la necessità di contemperare il principio secondo cui il minore ha diritto di rimanere nella propria famiglia di origine, con conseguente ricorso allo stato di adottabilità come soluzione estrema, quando ogni altro rimedio appare ormai inadeguato, con l'esigenza dell'acquisto o di un recupero della capacità genitoriale in tempi compatibili con l'esigenza del minore di uno stabile contesto familiare (Cass., 14 giugno 2012, n. 9769; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1839). In tale quadro, e la questione costituisce uno degli aspetti fondanti del ricorso in esame, deve ribadirsi l'irrilevanza delle mere espressioni di volontà da parte dei genitori, o degli altri stretti congiunti, ove prive di qualsiasi concreta prospettiva e quindi non idonee al superamento dello stato di abbandono (Cass. 17 luglio 2008 n. 16795).

L'apprezzamento, poi, della sussistenza in concreto della situazione sopra descritta si sostanzia in una valutazione rimessa al giudice del merito, mentre la prospettazione di un riesame del materiale probatorio acquisito nel processo, secondo giurisprudenza ampiamente consolidata (v., per tutte, Cass., sentt. n. 18288 del 2011, n. 17915 del 2010, n. 18288 del 2011), è esclusa in sede di legittimità, qualora la motivazione non presenti vizi di carattere logico e giuridico.

 

 

 

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Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 24 settembre – 18 dicembre 2013, n. 28213
Presidente Vitrone – Relatore Campanile

Svolgimento del processo

1 - Con sentenza depositata in data 16 febbraio 2012 il Tribunale per i Minorenni di Venezia dichiarava lo stato di abbandono della minore B.E. , nata a (omissis) da B.L. , all'epoca quindicenne.
La decisione si fondava sull'incapacità genitoriale della giovane madre, emersa anche all'esito di vari tentativi di collaborazione con i servizi sociali, di inserimento nella comunità mamma-bambino gestita dal (…), nonché nel mondo del lavoro, ed accertata, infine, tramite consulenza tecnica d'ufficio all'uopo espletata.
1.1 - La Corte di appello di Venezia, sezione per i minorenni, con la sentenza indicata in epigrafe ha rigettato l'appello proposto dalla B. e dai propri genitori, rilevando che la valutazione di incapacità alla cura e all'educazione della minore, espressa nell'impugnata decisione, non risultava adeguatamente contrastata dalla documentazione prodotta, consistente in due pareri espressi da una psicologa circa un percorso psicoterapeutico cui gli appellanti si sarebbero in seguito sottoposti, della cui effettività e del cui esito non veniva fornito alcun dato.
A fronte dell'evidenziata incapacità genitoriale di B.L. , non poteva tenersi conto, anche in considerazione dell'urgente necessità di fornire alla minore delle valide figure educative e un sostegno per un sereno sviluppo psicologico, dell'attaccamento dalla stessa manifestato nei confronti della bambina. Quanto ai nonni, venivano confermate le valutazioni del Tribunale circa la loro incapacità - già dimostrata nei confronti della propria prole - di provvedere, rappresentandosi i suoi reali bisogni, alla crescita della minore.
1.2 - Per la cassazione di tale decisione B.L. , B.V. e P.A. propongono ricorso, affidato a due motivi, cui il tutore della minore, avv. G.A.M. , resiste con controricorso.

Motivi della decisione

2 - Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione degli artt. 1 e 8 della l. n. 184 del 1983, assumendo che l'inadeguatezza dei ricorrenti e della giovane madre della minore sarebbe stata valutata prescindendo dai danni di natura irreversibile a una crescita equilibrata della minore e che, in sostanza, la decisione adottata avrebbe avuto una valenza "punitiva" per l'incomprensione delle ragioni dell'intervento del servizio sociale, senza considerare l'efficacia di un supporto, suggerito anche dal forte legame madre-figlia.
2.1 - Con il secondo mezzo si denuncia carente e con-traddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5. c.p.c., in relazione all'omessa considerazione degli aspetti positivi correlati all'esito di un percorso psicoterapeutico e al rigetto delle istanze di natura istruttoria intese a dimostrare l'attivazione dei ricorrenti per sopperire ad eventuali difficoltà della figlia.
3-1 motivi sopra indicati possono essere congiuntamente esaminati, in quanto, sotto diversi profili, pongono in termini non dissimili la questione inerente ai criteri valutativi sottesi all'accertamento dello stato di abbandono della prole.
Di certo, la peculiarità della vicenda in esame, consistente, da un lato, nella giovanissima età della madre della minore E. e, dall'altro, nelle gravissime carenze riscontrate nella cura e nell'educazione della minore stessa, evidenziano la difficoltà, ed a tratti, la natura sofferta, nella prassi quotidiana, delle decisioni in merito alla sussistenza dello stato di abbandono.
Occorre quindi affidarsi a un punto di riferimento sicuro, costituito dall'assoluta priorità dell'interesse del minore, in relazione alla esigenza di assicurargli quel minimo di cure materiali, calore affettivo, aiuto psicologico indispensabile per lo sviluppo e la formazione della sua personalità.
La L. n. 184 del 1983, all'art. 1 afferma, infatti, il diritto del minore a vivere e crescere nella propria famiglia, ma solo fino a quando ciò non comporti un'incidenza grave ed irreversibile sul suo sviluppo psicofisico, e l'art. 8 della stessa legge definisce la situazione di abbandono come mancanza di assistenza materiale e morale. In altri termini, il diritto a vivere nella propria famiglia di origine incontra un limite, nello stesso interesse del minore, se si accerta la ricorrenza di una situazione di abbandono che legittimi la dichiarazione di adottabilità qualora, a prescindere dagli intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo psico - fisico, cosicché la rescissione del legame familiare è l'unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio ed assicurargli assistenza e stabilità affettiva.
Emerge abbastanza di frequente, come nel presente caso, la necessità di contemperare il principio secondo cui il minore ha diritto di rimanere nella propria famiglia di origine, con conseguente ricorso allo stato di adottabilità come soluzione estrema, quando ogni altro rimedio appare ormai inadeguato, con l'esigenza dell'acquisto o di un recupero della capacità genitoriale in tempi compatibili con l'esigenza del minore di uno stabile contesto familiare (Cass., 14 giugno 2012, n. 9769; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1839). In tale quadro, e la questione costituisce uno degli aspetti fondanti del ricorso in esame, deve ribadirsi l'irrilevanza delle mere espressioni di volontà da parte dei genitori, o degli altri stretti congiunti, ove prive di qualsiasi concreta prospettiva e quindi non idonee al superamento dello stato di abbandono (Cass. 17 luglio 2008 n. 16795).
L'apprezzamento, poi, della sussistenza in concreto della situazione sopra descritta si sostanzia in una valutazione rimessa al giudice del merito, mentre la prospettazione di un riesame del materiale probatorio acquisito nel processo, secondo giurisprudenza ampiamente consolidata (v., per tutte, Cass., sentt. n. 18288 del 2011, n. 17915 del 2010, n. 18288 del 2011), è esclusa in sede di legittimità, qualora la motivazione non presenti vizi di carattere logico e giuridico.
3.1 - La Corte di appello di Venezia non si è sottratta al delicato compito di valutare, nell'ottica dell'interesse della minore E. , le risultanze processuali già acquisite nel corso del giudizio di primo grado e quelle dedotte in sede di gravame, con motivazione esente da censure sotto il profilo logico-giuridico.
Nella sentenza impugnata, invero, si da atto della circostanza che B.L. , quando - da padre rimasto sconosciuto - aveva dato alla luce, a soli quindici anni, la figlia E. , era già nota ai servizi sociali per i suoi "comportamenti inadeguati manifestati a scuola e a casa"; era stata collocata in regime di affidamento consensuale presso il (OMISSIS) "da cui era scappata, per poi farvi ritorno, e da cui il padre l'aveva successivamente ritirata contro il parere del servizio sociale".
Dopo la nascita di E. , affidata ai servizi, madre e figlia venivano ospitate presso la Casa di Accoglienza di (…), dove emergevano "varie difficoltà della prima ad occuparsi della bambina", in quanto "in occasione dei pasti doveva essere affiancata da un operatore per rispettare orari e modalità di somministrazione del cibo, la imboccava frettolosamente e il rifiuto del cibo da parte della bimba provocava in lei reazioni di stizza e di insofferenza".. "doveva essere sollecitata perché si occupasse della bambina" e, assumendo atteggiamenti oppositivi verso le educatrici, "mostrava di avere difficoltà a rispettare le regole, di mettersi in discussione ed ad elaborare mancanze ed errori a lei attribuibili, reagendo agli interventi educativi con sfoghi impetuosi o interrompendo qualsiasi comunicazione". Tali comportamenti influivano su E. , "che cercava nelle figure degli operatori, e non nella madre, punti di riferimento".
3.2 - La Corte di appello analizza, poi, vari tentativi di introdurre la giovane madre nel mondo del lavoro, attraverso l'inserimento in una scuola professionale, tutti rivelatisi infruttuosi, perché la giovane "non accettava il rispetto delle regole e assumeva comportamenti trasgressivi".
Un successivo trasferimento di madre e figlia in una comunità gestita dal (…) consentiva di riscontrare ancora l'incapacità della prima di esercitare in maniera consapevole ed adeguata il proprio ruolo: "la madre non riesce a sincronizzare le sue risposte con i bisogni della figlia".. "non ha interiorizzato il ruolo di madre e vive la bambina come persecutoria rispetto alle sue incapacità".
Tale situazione, che creava nella bambina seri disturbi sul piano psicologico, trovava conferma - prosegue la corte territoriale - nella consulenza tecnica disposta dal Tribunale, che aveva concluso che "Lucia non era in grado di sostenere lo sviluppo psico-affettivo della minore e non poteva acquisire adeguate competenze in un tempo compatibile con le esigenze di crescita della figlia".
3.3 - Analogo giudizio negativo emergeva dalla consulenza nei confronti dei nonni materni, i quali "avevano contribuito alla confusione di L. , stimolandone l'onnipotenza", ed erano comunque privi di "risorse vicarianti rispetto a quelle che L. poteva esercitare nei confronti della minore".
3.4 - A fronte di tale obiettiva situazione, la corte d'appello di Venezia ha correttamente escluso una probabilità di evoluzione in senso positivo, stante l'incapacità della madre di giovarsi dell'aiuto – nei cui confronti ha sempre mostrato un atteggiamento di "insofferenza ed opposizione" - degli operatori e degli educatori del servizio.
Risultano inoltre adeguatamente valutati i pareri espressi dalla d.ssa C. prodotti contestualmente alla proposizione dell'appello (per altro richiamati nel ricorso in termini assolutamente generici), osservandosi in primo luogo - senza che nel ricorso vengano svolti al riguardo rilievi di sorta - che negli stessi non viene messa in discussione la valutazione negativa espressa nelle varie relazioni redatte dal servizio sociale "sul ruolo ed attitudini genitoriali di L. , e sulla carente funzione vicariante della madre che i nonni potrebbero assumere verso la nipote". La richiesta di un nuovo esperimento di un percorso di recupero viene poi, con congrua motivazione, giudicata tardiva e inattendibile, dal momento che "la stessa psicologa cui gli appellanti si sono rivolti, dopo il primo parere espresso il 3 aprile 2012, nel quale ha proposto a L. e ai suoi genitori il percorso psicoterapeutico, nel parere successivo del 15 settembre non ha dato atto che nel frattempo, e dopo ben cinque mesi, quel programma terapeutico sia stato intrapreso dai predetti, o comunque non ha menzionato i progressi che L. avrebbe conseguito beneficiando di tale suo intervento psicoterapeutico".
4 - Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
4.1 - Le spese relative al giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e si liquidano - in favore dell'Erario, risultando la parte vittoriosa ammessa al patrocinio a spese dello Stato - come da dispositivo.
4.2 - Si da atto, altresì, dell'incompetenza di questa Corte in merito alla liquidazione del compenso in favore della tutrice della minore, ammessa al patrocinio a spese dello stato, in quanto, secondo il regime di cui al d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113, deve ritenersi che la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore officiato del gratuito patrocinio, per il ministero prestato nel giudizio di cassazione, spetti al giudice di rinvio o a quello la cui pronuncia è divenuta irrevocabile a seguito dell'esito del giudizio di legittimità ed al quale, quindi, l'interessato ha l'onere di presentare istanza, così come prevedeva la norma contenuta nell'art. 15-quattuordecies della legge 30 luglio 1990, n. 217, giacché la circostanza che nell'art. 82 del citato d.lgs. n. 113 del 2002 (riprodotto nell'art. 82 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) la previsione di quella norma non sia stata espressamente riprodotta, deve ritenersi frutto di un errore, in quanto, posto che contro la liquidazione è ammessa opposizione nelle forme della legge 13 giugno 1942, n. 794 dinanzi al tribunale o alla corte d'appello, è inconcepibile che l'opposizione alla liquidazione effettuata dalla Corte di cassazione possa svolgersi dinanzi ai giudici di merito (Cass., 13 maggio 2009, n. 11028; Cass., 25 luglio 2006, n. 16986).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore dell'Erario delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati in sentenza.




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