-  Redazione P&D  -  17/12/2013

BREVI NOTE SUL REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA – Cass. 50333/13 – Teresa PUNTILLO

La sentenza sotto riportata permette una breve riflessione sulla interpretazione dell"art. 570 c.p. Il testo afferma:

[I]. Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia [ 540], o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

[II]. Se dal fatto deriva una lesione personale grave [ 583 comma 1], si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima [ 583 comma 2], la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni

La norma tutela il corretto esplicarsi del rapporto coniugale.

La convivenza fra coniugi, deve essere caratterizzata dal reciproco rispetto, dalla solidarietà, dall"affetto e dagli scopi comuni. Se tali fondamentali elementi mancano non si potrà che giungere alla crisi del matrimonio, alla separazione dei coniugi. L"intollerabilità della convivenza e la crisi matrimoniale sono sbocchi possibili della unione, ai quali, però, si deve giungere senza che ad uno dei coniugi sia riservato un trattamento umiliante, degenerato in violenze fisiche e morali.

Qui sta il discrimine fra la fine ordinaria di un matrimonio e il disvalore penale della condotta di un coniuge, che impone all"altro di subire sofferenze e privazioni umilianti per la persona.

L'interesse protetto dal reato di cui all'art. 572 c.p. è la personalità del singolo in relazione al rapporto che lo unisce al soggetto attivo. Il reato vuole impedire che tramite una condotta sistematica vengano perpetrate durevoli sofferenze fisiche o morali, nell"ambito famigliare, sia legittimo che di fatto.

Difatti, il delitto di maltrattamenti in famiglia si realizza, sotto il profilo materiale, in presenza di una serie di atti lesivi dell'integrità fisica o della libertà o del decoro del soggetto passivo nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica tale da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza;

A dire della giurisprudenza, si punisce la sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita. I singoli episodi che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo. (Cassazione penale , sez. VI, 04 dicembre 2003, n. 7192; Cassazione penale , sez. VI, 31 gennaio 2003, n. 7781).

Non si sopporta l'illiceità del trattamento, che deve consistere in una sistematica persecuzione suggerita da odio, malanimo, disprezzo, crudeltà fine a se stessa, riconducibili alla determinazione dell'agente di arrecare sofferenze fisiche e morali, (Cassazione penale , sez. II, 18 marzo 1986).

Il profilo soggettivo accompagna il fatto tipico, nel senso della necessità di constatare, nel comportamento del reo, in modo unitario ed uniforme, una grave intenzione di avvilire e sopraffare la vittima, potendosi ricondurre ad unità i veri episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest'ultima, non rilevando affatto, data la natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell'agente periodi di normalità e di accordo.

Il reato di maltrattamenti in famiglia ha una propria oggettività giuridica, che consiste nella coscienza e volontà dell"agente di sottoporre il soggetto a sofferenze fisiche e morali in modo continuo ed abituale. Occorre perciò una condotta sistematica, che si estrinseca con più atti, delittuosi o meno, che determinano, ed avvinti nel loro svolgimento da un"unica intenzione criminosa di ledere l"integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze (Cass., Sez. VI, 26.6-18.9.1996, n. 8530)

Quindi: "ad integrare l'abitualità della condotta, nel delitto di maltrattamenti in famiglia o contro fanciulli, è sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, unificati dalla medesima intenzione criminosa, anche se succedutisi per un limitato o per limitati periodi di tempo e anche se gli atti lesivi siano alternati con periodi di normalità"(Cassazione penale , sez. VI, 08 ottobre 2002, n. 43673); "il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte aggressive e lesive, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima" (Cassazione penale , sez. VI, 14 luglio 2003, n. 33106; Cassazione penale, sez. VI, 13 luglio 1988; Cassazione penale , sez. I, 23 febbraio 1984).

Come detto, nel giudizio deve emergere chiara la vessazione continua, anche intervallata da periodi di normalità che, però, non incidono sul complessivo disvalore esistenziale della condotta; una continua sottoposizione alla altrui criminosa volontà, diretta solo a mortificare la personalità del familiare, ad annullarla, a rendere lo stesso succube, insicuro, affranto, offeso, umiliato. Quale condizione costante, esistenziale, che non trova vie di uscita se non il rivolgersi, per ripagare il torto subito, alla giustizia.

Il dolo segue, di conseguenza.

L"intenzione, la volontà, è proprio quella di vessare; l"essere consapevoli di umiliare di continuo, distorto habitus di convivenza, di svilire la figura, la personalità dell"altro, in un perverso intento di affliggere.

Nel tempo, in modo costante.

Per quanti riguarda la prova del reato, essa è determinata, in massima parte, dalle dichiarazioni della persona offesa.

Sono ben conosciute le accortezze che il giudice deve portare nella valutazione di tali dichiarazioni, in quanto, di per sé, la persona offesa porta un suo particolare interesse alla condanna dell"imputato, per cui deve essere attentamente valutato il profilo della sua attendibilità.

Come espresso dalla giurisprudenza della S.C., :          Ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, ben può tenersi conto delle dichiarazioni della parte offesa , la cui testimonianza , ove ritenuta intrinsecamente attendibile, costituisce una vera e propria fonte di prova, sulla quale può essere, anche esclusivamente, fondata l'affermazione di colpevolezza dell'imputato, purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata. (Cassazione penale , sez. IV, 21 giugno 2005 , n. 30422; Cassazione penale , sez. VI, 04 novembre 2004 , n. 1505; Cassazione penale , sez. VI, 04 novembre 2004 , n. 443; Cassazione penale , sez. III, 27 marzo 2003 , n. 22848; Cassazione penale , sez. VI, 06 ottobre 1999 , n. 1423; Sezione III, sentenza 5 ottobre-18 dicembre 2006 n. 41282). Ancora: In tema di valutazione della prova testimoniale, le dichiarazioni rese dalla persona offesa, sottoposte ad un attento controllo di credibilità, possono essere assunte, anche da sole, come prova della responsabilità dell'imputato, senza che sia indispensabile applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p. - tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso, fino a valutare l'opportunità di procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Cassazione penale , sez. VI, 03 giugno 2004 , n. 33162). La credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa deve essere valutata dal giudice di merito, dopo un'accurata indagine circa i profili di attendibilità dal punto di vista soggettivo ed oggettivo (Cassazione penale , sez. III, 12 maggio 2004 , n. 24348).

Infine, ricordiamo che il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe i delitti di percosse e minacce, anche gravi, sempre che tali comportamenti siano stati contestati come finalizzati al maltrattamento, ma non quello di lesioni attesa la diversa obiettività giuridica dei reati (Cassazione penale , sez. I, 09 novembre 2005 , n. 7043).

 

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Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 12 giugno – 13 dicembre 2013, n. 50333
Presidente Milo – Relatore Cortese

Fatto

1.- Con sentenza in data 29.12.2008 il Tribunale di Napoli condannava L.A. alla pena di anni tre e mesi otto di reclusione e al risarcimento del danno in favore della parte civile, per i reati, unificati ex cpv. art. 81 cp., di maltrattamenti, violenza privata, minacce e ingiurie continuate e molestie in danno della moglie M.V. .
2.- A seguito di gravame dell'imputato, con sentenza in data 04.02.2011 la Corte di Appello di Napoli, dando atto della remissione della querela e della rinuncia alla costituzione di parte civile da parte della M. , dichiarava n.d.p. in ordine al reato ex art. 594 cp. in quanto estinto per remissione di querela, rideterminando la pena per i reati residui in anni tre di reclusione.
3.- Propone ricorso per cassazione il prevenuto, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, posto che:
a. - sono state erroneamente valutate le risultanze probatorie in relazione in particolare alla sussistenza del requisito oggettivo e soggettivo del reato ex art. 572 cp. Costituito dall'abitualità delle condotte vessatorie;
b. - non si è tenuto conto che con il divorzio cessa ogni presupposto per la configurabilità di tale reato;
c. - si è ritenuta senza adeguata motivazione la sussistenza del reato di minaccia grave, comunque assorbito in quello di maltrattamenti, ed estinto, ove privo della gravità, per intervenuta remissione di querela;
d. - è stato ritenuto sussistente senza motivazione il reato di molestie, per il quale è stata anche applicata, come aumento ex cpv. art. 81 cp., la pena della reclusione in luogo di quella dell'arresto.

Diritto

Il ricorso è fondato nei limiti e per i motivi di cui appresso. Si osserva, invero, in ordine alle doglianze di cui sopra:
- sub 3.a., che, contrariamente a quanto in essa assunto, dalla congiunta motivazione delle sentenze di merito, risulta una articolata e corretta analisi delle molteplici risultanze probatorie, sulla cui base si è non illogicamente ritenuta la sussistenza del requisito oggettivo e soggettivo del reato ex art. 572 cp. costituito dall'abitualità delle condotte vessatorie;
- sub 3.b., che effettivamente con l'intervenuto divorzio, cui non segua - come nella specie non è seguita - alcuna ricomposizione di una relazione e consuetudine di vita improntata a rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, deve ritenersi cessato ogni presupposto per la configurabilità del reato di maltrattamenti (cfr. sul punto Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011 - dep. 20/06/2012, Frasca, Rv. 252906);
- sub 3.c, che effettivamente, per le contestate minacce, tenuto conto, per alcune, della loro genericità e, per altre, più specifiche, del contesto in cui vennero profferite (in presenza, cioè, di altre persone), non appare sussistere il connotato della gravità;
- sub 3.d., che trattasi di doglianza del tutto generica in punto responsabilità (tenuto conto di quanto esposto nella richiamata motivazione della sentenza di primo grado) e palesemente infondata, alla stregua della giurisprudenza ormai consolidata, in punto applicazione, come aumento ex cpv. art. 81 cp., di pena omologa a quella prevista per il reato più grave.
Da quanto sopra discende che:
- deve escludersi il reato ex art. 572 cp. per il periodo successivo all'11.07.2003 (con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata sul punto), mentre va ritenuto sussistente per il periodo anteriore;
- in mancanza della gravità, il reato ex art. 612 cp. deve ritenersi estinto per intervenuta remissione di querela (con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata sul punto);
- per il reato ex art. 610 cp., verificatosi dopo il divorzio (e precisamente in data 16.08.2006), deve essere esclusa l'aggravante teleologica (con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata sul punto);
- restano per il resto confermati nella loro sussistenza, in quanto non oggetto di ricorso ovvero di motivi non inammissibili (con conseguente preclusione di qualsiasi ulteriore rilevazione anche d'ufficio), i reati ex artt. 610 e 660 cp..
Riguardo al reato ex art. 572 cp. anteriore al divorzio, si osserva che il reato si prescriverebbe, secondo il vecchio regime, non prima di quindici anni, mentre, secondo il più favorevole regime introdotto dalla legge 251 del 2005, non prima - tenuto conto della contestata recidiva - di nove anni, quattro mesi e quindici giorni (anni cinque aumentati della metà - anni sette e mezzo, aumentati di un quarto), che vanno a cadere in data 26.11.2012. A tale durata devono peraltro aggiungersi mesi sette e giorni dieci di sospensione, dovuta a un rinvio a richiesta della difesa dal 26.02.2010 al 05.11.2010, con conseguente non maturazione del termine di prescrizione.
Gli atti devono essere trasmessi alla Corte d'appello di Napoli (in diversa sezione), perché provveda alla rideterminazione della pena in ordine ai reati (residuati come sopra) di cui agli artt. 572, 610 e 660 cp.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine: - al reato di cui all'art. 572 cp.
limitatamente alla condotta successiva all'11.07.2003 perché il fatto non sussiste; - al reato di cui all'art. 612 cp., esclusa l'aggravante, perché estinto per remissione di querela; - all'aggravante, che esclude, contestata per il reato di cui all'art. 610 cp..
Rigetta nel resto il ricorso e dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli perla rideterminazione della pena in ordine ai residui reati di cui agli artt. 572 (periodo anteriore all"11.7.2003) 610 e 660 cp..

 




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