-  Redazione P&D  -  15/06/2010

Cass. Pen., sez. III, 15/06/2010, n. 22743 - LA NOZIONE DI SOTTOPRODOTTO - Vito TUFARIELLO

Con sentenza in data 13.01,2009 il Tribunale di Montepulciano assolveva perché il fatto non sussiste Guidetti Corrado e Vitolo Bruno dai reati previsti dall'art. 256 d. lgs. n. 152/2006 essendo imputato, il primo, quale legale rappresentante della Keratrans Depo s.n.c., di avere effettuato attività di recupero di rifiuti consistiti in cocci di tavelloni prodotti dalla ditta rappresentata dal Vitolo senza la prescritta comunicazione di cui all'art. 216 del citato decreto e il secondo, quale legale rappresentante dell'Industrie laterizi riuniti s.p.a., di avere effettuato attività di recupero di rifiuti consistiti in residui di lavorazione di laterizi [circa 6.500 mc di tavelloni e tegolame vario] senza la comunicazione di cui sopra e senza essere iscritto all'Albo nazionale dei gestori ambientali, nonché di avere depositato in modo incontrollato nel proprio stabilimento la parte dei rifiuti non utilizzati per il consolidamento di strade interne.

Proponeva appello il PM contestando la qualificazione giuridica dei fatti non ricorrendo, nella specie, la nozione giuridica del sottoprodotto per la mancanza dell'autocertificazione che doveva garantire il reimpiego richiesta dall'art. 183, comma 1 lett. p) del decreto n. 152/2006, e per la necessità di sottoporre i materiali a trattamento preliminare (separazione degli scarti dal materiale d'imballaggio, frantumazione).

Inoltre, per il materiale trattenuto dalle I.l.r. non c'era alcuna certezza di reimpiego perché solo una minima parte veniva destinata alla sistemazione delle strade interne dello stabilimento, mentre la maggior parte, di migliaia di metri cubi, veniva accumulata, anche fuori dell'area dell'impianto produttivo, frammista ai materiali d'imballaggio con pregiudizio per l'ambiente.

Chiedeva l'annullamento della sentenza.

Con provvedimento 1.10.2008 il presidente della Corte d'appello di Firenze, qualificata l'impugnazione come ricorso per cassazione ex art. 593, comma 2 c.p.p., trasmetteva gli atti a questa Corte.

L'imputato Guidetti depositava memoria difensiva.

Va, anzitutto, rilevato che, a seguito della declaratoria d'illegittimità costituzionale dell'art. 1 legge n. 46/2006 (Corte costituzionale n. 26/2007), sono appellabili dal pubblico ministero, ai sensi dell'art. 593 c.p.p. quale risultante all'esito della pronuncia di incostituzionalità, le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa [Cassazione sezione III, ordinanza n. 19037/2007 RV. 238084].

Nella specie, l'appello del PM, che unicamente prospetta una violazione di legge sull'interpretazione della nozione di sottoprodotto, è stato trasmesso a questa Corte che può deciderlo quale ricorso immediato per cassazione.

Il ricorso, che verte sulla configurabilità dei reati, è fondato perché censura con puntuali argomentazioni giuridiche la decisione che, pur avendo correttamente ricostruito la situazione fattuale, è inficiata dai vizi logico-giuridici segnalati dal ricorrente.

La sentenza, infatti, ha disatteso il consolidato orientamento di questa Corte che ha evidenziato le condizioni che integrano il concetto normativo di sottoprodotto.

E' stato accertato, in fatto, che gli scarti della lavorazione delle I.l.r. (tavelloni e tegole rotte o con difetti), previa separazione degli imballaggi di legno e plastica, venivano, in parte, consegnati alla ditta Keratrans Depo che, tramite un suo dipendente, li frantumava all'interno dell'impianto I.l.r. prima del trasporto presso ditte varie che utilizzavano il materiale nel processo di produzione delle ceramiche.

Gli scarti di tegole frantumate non utilizzati dalla Keratrans venivano accumulati all'interno dello stabilimento e in una cava e parzialmente impiegati dalle I.l.r. per il consolidamento delle strade interne dello stabilimento.

Tanto premesso, il Tribunale riteneva che il suddetto materiale non costituisse rifiuto, ma sottoprodotto poiché il residuo di lavorazione veniva reimpiegato senza alcun trattamento preliminare.

E' stato puntualizzato da questa Corte [nella sentenza n. 20499/2005 RV. 231528] che l'art. 14, comma 2, del di. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178, nel porre l'interpretazione autentica della definizione di rifiuto stabiliva che non ricorre la decisione di disfarsi, di cui alla lett. b) del primo comma della medesima disposizione, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo in presenza di una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi potevano essere effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente; b) se gli stessi potevano essere effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si rendesse necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del citato digs. n. 22 del 1997.

L'art. 14 cit., che al primo comma precisava in positivo la nozione di rifiuto, delineava poi al secondo comma una fattispecie derogatoria che escludeva l'illecito penale.

La pronuncia della Corte di giustizia [sez. Il, 11 novembre 2004, C-457/02] ha esaminato la questione di compatibilità del cit. art. 14 con la normativa comunitaria di riferimento e ha chiarito che la specificazione della nozione di rifiuto, della quale é pur sempre necessaria comunque un'interpretazione estensiva in ragione dei principi di precauzione e prevenzione espressi dalla normativa comunitaria in materia, è possibile solo nei limiti in cui sia sottratta alla relativa disciplina ciò che risulti essere un mero "sottoprodotto", del quale l'impresa non abbia intenzione di disfarsi.

Occorre, quindi, essenzialmente distinguere tra residuo di produzione, che è un rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione previa trasformazione, e sottoprodotto, che invece non lo è, fermo restando che la nozione di rifiuto, ai sensi degli art. l della direttiva 75/442, nella sua versione originale, e della direttiva 78/319, non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica.

E a tal fine - afferma la Corte di giustizia nella citata decisione - in tanto è ravvisabile un sottoprodotto in quanto il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma "certo, senza previa trasformazione, ed avvenga nel corso del processo di produzione".

Ciò che non nuoce all'ambiente e può essere inequivocabilmente e immediatamente utilizzato come materia prima secondaria in un processo produttivo si sottrae alla disciplina dei rifiuti, che non avrebbe ragion d'essere; la quale invece trova piena applicazione in tutti i casi di materiale di risulta che possa essere si utilizzabile, ma solo eventualmente ovvero "previa trasformazione"; ciò che, proprio in ragione del principio di precauzione e prevenzione richiamato dalla Corte di giustizia, comporta l'applicazione della disciplina di controllo dei rifiuti.

Tuttavia - ha precisato la Corte - occorre interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, e quindi occorre circoscrivere la fattispecie esclusa, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia "solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione".

Anche alla luce dell'intervenuto decreto n. 152/2006, che ha introdotto la nozione di sottoprodotto, il suddetto orientamento è stato mantenuto quanto al reimpiego certo del residuo di lavorazione.

Con la successiva definizione di sottoprodotto introdotta dal d. lgs. n. 4/2008, fermo restando il divieto di trattamento preventivo, è però stato affievolito, criterio della tracciabilità assoluta prima ancorato alla certezza dell'utilizzazione risultante da puntuali verifiche e da attestazioni dei soggetti interessati alla cessione e al riutilizzo [l'autocertificazione, richiesta dall'art. 183, comma 1 lett. n) del decreto n. 152/2006, doveva garantire il reimpiego].

Per escludere la disciplina sui rifiuti è necessario, quindi, che a destinare il sottoprodotto al riutilizzo senza trattamenti di tipo recuperatorio sia lo stesso produttore e non un semplice detentore cui la sostanza sia stata conferita a qualche titolo.

Pertanto, il Tribunale, venuto meno - a seguito della suddetta modifica normativa - il requisito dell'auto, certificazione, era tenuto a verificare che l'utilizzazione del sottoprodotto fosse certa, e non eventuale, e avvenisse senza trasformazioni preliminari, cioè senza quei trattamenti che mutano l'identità merceologica della sostanza.

Infatti, secondo l'orientamento di questa corte [Sezione III n. 14323/2008, RV. 239657], in tema di gestione dei rifiuti, ai fini dell'applicabilità del regime derogatorio contemplato per i sottoprodotti, si richiede che le sostanze o i materiali non siano sottoposti a operazioni di trasformazione preliminare [d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett. p), come modificato dal d. lgs. 16 gennaio 2008, n. 4], perché tali operazioni fanno perdere al sottoprodotto la sua identità [cfr. n.37303/2006, RV. 235076; n, 14557/2007, RV. 236375].

Nella fattispecie, nello stesso ricorso si riconosce che i residui di produzione, oltre alla frantumazione, eseguita sul terreno mediante schiacciamento sul terreno con un mezzo cingolato [che è un'operazione di trasformazione preliminare, come ritenuto nella sentenza RV. 239657], erano sottoposti a operazioni di cernita con l'eliminazione del materiale d'imballaggio ad opera non già del produttore, ma di un dipendente della società cessionaria, neppure destinataria finale perché il riutilizzo, quale correttivo nell'impasto delle piastrelle di ceramica, sarebbe stato effettuato da altre industrie, e ancora che l'ingente quantitativo di "scarti di tegole frantumate" era stato accumulato dalle I.l.r. non solo nello stabilimento di produzione, ma anche all'interno di una cava di proprietà della stessa società, donde la mancata verifica della sussistenza dei presupposti sopraindicati sia con riferimento all'esecuzione di operazioni di trasformazione preliminare sia con riferimento alla riutilizzazione effettiva e oggettiva dei residui di produzione in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo [l'impiego certo in un processo di produzione non è stato indicato essendo incerta la destinazione finale degli scarti accumulati in aree aziendali senza cessione a un soggetto abilitato all'utilizzo in proprio del materiale stesso].

In conclusione, alla luce delle suddette considerazioni, risulta chiaramente che la qualificazione giuridica di sottoprodotto attribuita dall'impugnata sentenza al materiale probatorio è assolutamente erronea e comunque non supportata da argomentazioni giustificative, sicché la sentenza deve essere annullata, con rinvio per nuovo esame alla luce dei principi sopraindicati, per violazione di legge atteso che la motivazione si pone in diretto contrasto con un preciso precetto normativo.

E', infatti, esplicito il riconoscimento della mancanza di requisiti essenziali per la qualificazione del materiale come sottoprodotto, essendo stato dato atto che lo stesso era stato sottoposto a procedimento di frantumazione, sebbene in tanto si può parlare di sottoprodotto in quanto prima del riutilizzo il materiale non debba essere sottoposto a trattamenti di sorta, e che gli scarti di produzioni venivano, per la maggior parte, accumulati senza alcun prospettiva di reimpiego.

                                              PQM

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Montepulciano.

Cosi deciso in Roma nella pubblica udienza del 13.04.2010.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA il 15 Giu. 2010




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