-  Fabbricatore Alfonso  -  09/06/2015

CONCORRENZA SLEALE: QUANDO LA DENOMINAZIONE SOCIALE PUO' INGENERARE CONFUSIONE - Cass. 11224/15 - A. F.

Cassazione, sez. I Civile, 29 maggio 2015, n. 11224 
Pres. Rordorf – Rel. Nappi

La sentenza in epigrafe riguarda il tipico caso di concorrenza sleale derivante dall"utilizzo da parte di un imprenditore di una denominazione sociale quasi del tutto uguale ad altra impresa, allo scopo di poterne trarre comunque beneficio.

La tutela della ditta e della denominazione sociale trova espresso riconoscimento all" art. 2598 c.c., secondo cui, ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi, compie atti di concorrenza sleale chiunque usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente.

Questa disciplina viene ulteriormente inasprita dalla previsione dell"art. 2600 c.c., ai sensi del quale se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l'autore è tenuto al risarcimento dei danni, oltre a prevedere che possa essere ordinata la pubblicazione della sentenza di condanna: oltretutto, la norma stabilisce che accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume.

Il regime, dunque, è piuttosto rigido, volto essenzialmente alla tutela della libertà economica di ciascun soggetto, alla stabilità dei mercati e, soprattutto, alla tutela del nome e  dell"immagine della persona, fisica o giuridica che sia.

Il caso, nello specifico, vede protagonisti due soggetti, uno dei quali ex amministratore della società X, operante nel settore dei servizi: i due costituiscono una nuova società Y a responsabilità limitata utilizzando, in pratica, la stessa denominazione sociale dell"altra. La denominazione della nuova società Y è infatti del tutto uguale a quella della precedente X, salvo una leggera variazione, di per sé non idonea a fugare il pericolo di confusione.

Inoltre la nuova società si accaparra un importante contratto di fornitura della società X, nelle more, tra l"altro dichiarata fallita. Adite le vie legali, il Tribunale di Roma, accertata la concorrenza sleale della società Y, la condanna al risarcimento del danno in misura di tre presumibili annualità del rapporto contrattuale in cui era subentrata, che assicurava un fatturato annuo di circa centocinquanta milioni di lire delle vecchie lire.

Ricorre in Cassazione la società Y, adducendo che erroneamente i giudici del merito hanno riconosciuto la responsabilità concorrente dei terzi non imprenditori, senza accertarne il dolo o almeno la colpa e in mancanza di un rapporto di concorrenzialità, atteso il diverso oggetto delle due società X e Y; contestano inoltre il computo del danno, stimato arbitrariamente sulla base di tre annualità del contratto di fornitura stipulato con un terzo, in precedenza cliente della società X.

La Corte afferma che  i giudici del merito hanno plausibilmente ritenuto che i soci abbiano specificamente voluto dare vita ad un diverso soggetto che venisse, di fatto, a sostituirsi alla società X nell'espletamento degli incarichi che potevano provenire dal contratto di fornitura, ritraendo un vantaggio diretto da tale operazione". Quanto alla dedotta diversità di oggetto e attività sociale tra società X ed Y, risulta dallo stesso ricorso che il campo di attività delle due società era identico, benché in uno statuto si parlasse di "formazione" e nell'altro di "addestramento" all'informatica, tanto che una società sostituì l'altra nelle prestazioni formative per la prestazione di cui si discute. E ciò che rileva è in definitiva l'attività effettivamente esercitata.

In merito, poi, alla denominazione sociale quasi del tutto uguale utilizzata nel costituire la nuova società Y, i Giudici affermano che ai fini della tutela della ditta o della denominazione sociale accordata dagli artt. 2564 e 2567 c.c., quando si deduca il pericolo di confusione per l'uso fattone da altro imprenditore, così come ai fini della tutela ex art. 2598 n. 1 c.c. quando tale uso integri altresì concorrenza sleale, è sufficiente che si verifichi una situazione potenzialmente pregiudizievole e cioè la virtuale possibilità di confusione tra le ditte e le denominazioni sociali di due imprenditori, ovvero la astratta idoneità del comportamento tenuto dalla ditta o società concorrente ad incidere negativamente sul profitto che l'imprenditore si propone di ottenere attraverso l'esercizio dell'impresa" (Cass., sez. I, 15 dicembre 1994, n. 10728, m. 489210). 
Nel caso in esame i giudici del merito hanno ritenuto che tale confondibilità risulti accertata non solo per il comune uso della denominazione quasi del tutto uguale, ma anche per la concreta attività svolta dai ricorrenti appunto allo scopo "di ingenerare nella clientela l'idea di una sostanziale continuità delle prestazioni offerte dall'attrice" società X.

Del resto è pacifico che tale accertamento, effettuato in concreto sulla base di una valutazione sia dei segni distintivi utilizzati sia del contesto dell'utilizzazione, è espressione di un giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità (Cass., 7 sez. I, 28 febbraio 2006, n. 4405, m. 589976, Cass., sez. I, 28 gennaio 2010, n. 1906, m. 611399).

La Corte, pertanto, rigetta i motivi e condanna parte attrice a sostenere le spese del giudizio.




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