Letteratura  -  Redazione P&D  -  19/06/2022

Condividere una vacca - Massimo Paradiso

Il sesto giorno d’udienze, la generale accettazione delle regole di precedenza determinate dalla “prenotazione” fece sì che non si rinnovassero le scenate e le grida indecorose della giornata precedente, se si eccettua una diatriba insorta all’ingresso tra il custode e due donne: queste avevano bensì conseguito diritto di precedenza, ottemperando alle note regole, ma pretendevano di entrare conducendo con sé una vacca. Affermavano le donne che, come ier l’altro un avvocato aveva potuto recare con sé e mettere sotto il naso del giudice l’oggetto del contendere, e cioè il contratto di livello, altrettanto volevano fare loro col mite animale. Cosa, che diede poi la stura a oziosi ragionamenti tra i baccellieri disoccupati di Baratteria circa la possibilità di considerare il ruminante (ma oggi più correttamente diremmo: la ruminante) se non res cogitans, dacché le vacche non pensano, almeno res extensa, vista la sua stazza, oltre che res dubia, visto che costituiva il punctum dolens della controversia. Il custode fu irremovibile, visto che nella sala non c’era uno spiraglio libero nel quale far entrare tutta la... res extensa della vacca, ma poiché è impossibile spuntarla dialetticamente con una donna – e figuriamoci con due – dovette rassegnarsi almeno a far da custode alla quadrupede per tutto il tempo dell’udienza.

Le due donne si fecero avanti, ma volgendo indietro lo sguardo ogni due passi, per controllare che la loro bestiola non fosse stata involata. Entrambe popolane, e vestite modestamente, una ostentava un’aria di superiorità e faceva attenzione a non farsi sfiorare dall’altra; questa, a un aspetto più dimesso, affiancava un contegno più aggressivo. Si piazzarono di fonte al Governatore e aprirono la bocca contemporaneamente con le stesse parole. «Chiedo giustizia, Eccellenza». «Sì – ribadirono subito, quasi non bastasse la prima richiesta –. Chiedo giustizia». E poi si tacquero entrambe, come se non vi fosse nulla da aggiungere. 

Sembrava perciò evidente, visto l’uso del verbo al singolare, come ciascuna chiedesse giustizia soltanto per sé. Ma non fu questo che rilevò il giudice: «La richiesta mi sembra legittima ma piuttosto generica. Se non sapete che cosa volete, tornatevene a casa. Se lo sapete parlate chiaro e, prima di tutto, presentatevi: chi siete?». «Serafina Mendolia, per servirvi – disse l’una. – Carmen Mendolia, serva vostra» disse l’altra, mentre Serafina faceva una smorfia e poi fu lesta a riprendere la parola: «Certo, Eccellenza, che sappiamo perché siamo venute. Ed è appunto per questo che siamo qui. Se no, perché saremmo venute?». Poi, subitamente, tacque. «Per chiedere giustizia?» chiese ironicamente il Governatore. «Si certo – riprese Serafina –. Ecco, vedete, lo sapete anche voi, Eccellenza, perché siamo venute. Se no, perché mai avremmo fatto due giornate di cammino con la vacca appresso, e perché avremmo dato due maravedì al custode per diritti di segreteria e diritto di precedenza in questa sala?». Il custode, attento a quel che succedeva nonostante il compito custodiale che si era assunto, si maledisse: già lo sapeva che le donne non sanno tenere la bocca chiusa, ma insomma...

«Fingerò di non ave sentito quel che avete detto a proposito dell’acquisita precedenza – conosceva, il buon Sancho, le debolezze umane e quando poteva vi passava sopra –. Dunque domando di nuovo: siete venute per avere giustizia? Bene. Ma che giustizia volete? E quanta ne volete? Tre o quattro once, una o due spanne?». Ironizzava il buon Sancho, ma le donne rimasero spiazzate e tacquero ancora una volta. “Tra tutte le donne che popolano l’universo mondo – considerò il giudice – a me dovevano capitare le sole che, invitate a parlare, tacciono. Una fortuna, in altro contesto, ma nella presente contingenza...” [acribia vuole che si dichiari apertamente come non furono esattamente queste le parole del buon Sancho: possiamo però assicurare di aver esattamente riferito il suo pensiero: ci siamo soltanto presi la libertà di usare parole nostre per esprimerlo]. 

«Insomma, che volete? Parlate, ma una per volta. Cominciate voi» intimò alla donna che sembrava più anziana e ostentava arie di superiorità. «Questa donna mi ha truffato quando abbiamo fatto la divisione dell’eredità di mio padre – esordì – e pretenderebbe di essere mia sorella!». «Spiegatemi un po’ questa faccenda. Se è vostra sorella, perché dite “questa donna” e “mio padre”; o se non lo è, perché mai è erede con voi nell’eredità di vostro padre?». «Certo che siamo sorelle – interloquì l’altra donna –. Solo abbiamo madri diverse». «Come se questo bastasse a farci sorelle! – fu la replica –. Solo mia madre era la moglie legittima di mio padre; la madre di questa donna era una sciacquetta che si concedeva a tutti...». Non poté finire perché l’altra l’afferrò per i capelli e ci volle un bel po’ per separarle e riportare la calma. 

Il giudice era sì infastidito, ma più ancora divertito e invece di farle cacciar via, come aveva pensato in un primo momento, volle andare in fondo alla faccenda: se non altro per evitare di dover affrontare un altro caso. «Siate breve, esponente i fatti fin dall’inizio, senza omettere nulla e soprattutto senza commenti. I fatti, solo i fatti, ma tutti i fatti!». Così disse il buon Sancho, ma che ingenuità! Serafina infatti principiò a dire: «Avevo circa cinque anni quando mio padre, che era legittimo consorte di mia madre ed eravamo agiati, e vivevamo in pace e abitavamo in una bella casa in centro città, fu stregato, tanto che andò a vivere con quella donna lì, in una casa che sembrava una stalla situata fuori del paese e dove già ci vivevano...». 

«Basta così – l’interruppe il giudice –. Che c’azzeccano tutti questi particolari con i fatti di causa...?». «Ma se mio padre non se n’andava di casa quest’altra sua figlia non nasceva e non ereditava né la vacca né la casa...». «Oh, finalmente si comincia a capire qualcosa: la lite riguarda l’eredità di vostro padre!». «No Eccellenza. Per quella abbiamo già fatto un’altra causa». «Che ho vinto io – s’intromise l’altra donna –. Perché mio padre ha fatto testamento e ha lasciato l’eredità a me e a mia sorella in parti uguali. E sottolineo uguali!, anche se per legge io non avevo diritto a niente». E s’indovinava, nella parole e nel tono di voce, l’amarezza per quella figliolanza misconosciuta dalla legge. «E allora perché un’altra lite giudiziaria?». «Per la divisione, Eccellenza. La casa e il cortile li abbiamo divisi esattamente a metà: una stanza per ognuna, che si apre su un cortile diviso solo da un filare di pietre, basse, in modo che la vacca ci possa stare a cavallo...».

«Com’è, com’è questa storia della mucca a cavallo?» chiese il giudice. «Nel testamento era scritto che la casa la potevamo dividere, ma la vacca doveva rimane in comune finché campava. Chi l’avesse venduta, macellata o comunque fatta morire avrebbe perduto la sua parte. E fu allora che mia sorella mi ha truffato!». Zittite le proteste della sorella, si venne alfine a sapere quanto segue. Poiché Serafina, da “cittadina” non avvezza a certe rozzezze, non voleva che la vacca defecasse nella sua parte di cortile, la sorella le propose quanto segue: la vacca, legata, avrebbe stazionato “a cavallo” delle pietre di confine tra i due cortili: la testa e la parte anteriore dalla parte di Serafina, la coda e il posteriore dalla parte di Carmen. Ciascuna avrebbe dovuto occuparsi della parte di vacca che ricadeva nella sua proprietà. E lei, Serafina, aveva ingenuamente accettato. A questo punto intervenne sornione il Governatore, soffocando a stento le risa: «Se avete ottenuto quel che volevate, di che cosa adesso vi lamentate? Lo sterco non cade forse nel cortile vicino e non nel vostro?». «Già – rispose seria Serafina, che ancora non aveva percepito la comicità della situazione –. Così io devo dar da mangiare e da bere alla vacca per non farla morire, questa donna invece munge il latte e si vende lo sterco come concime. La puzza invece – soggiunse – si spande equanime nelle due proprietà». 

Il Governatore e gli astanti non la finivano più di ridere. Alla fine si dové decidere. Ma la situazione era troppo comica per porvi fine. Sicché il Governatore risolse di attenersi al principio che tante volte era stato invocato in quella sede: “Stare ai patti. Caschi il mondo, bisogna stare ai patti. Se no...”. Disse dunque alla donna: «Il patto di divisione va rispettato, su questo non ci piove. Potete perciò: continuare a nutrire la vacca e tenervi la puzza, oppure donare a vostra sorella la quota che vi spetta, ma con l’obbligo di fornirvi gratuitamente un quartuccio di latte al giorno, oltre a uno dei quarti posteriori della vacca quando questa morirà». E nel dir così il buon Sancho calcò la voce su “sorella”, per evidenziare che non aveva gradito, e tantomeno condiviso, il disprezzo per colei che comunque discendeva dagli stessi lombi [anche qui, acribia vuole si evidenzi come le parole riportate.... etc., etc.]. 

Brano tratto da

“Chiedo giustizia, Eccellenza..." Resoconto esattissimo delle udienze di giustizia tenute da S.E. don Sancho Panza Governatore dell’isola di Baratteria




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