-  Todeschini Nicola  -  29/07/2014

CONSENSO INFORMATO E DANNO: UN PASSO AVANTI ED UNO INDIETRO. Cass. 12830/2014. - Nicola Todeschini

Era una buona occasione, quella che il ricorrente ha consegnata alla terza sezione civile della Corte di Cassazione per far applicazione dei criteri già enunciati in precedenza in riferimento al grande tema del risarcimento del danno da difetto d'informazione. Lo era anche perché la fattispecie riguardava un caso di chirurgia estetica, che si prestava a paradigma del nuovo corso, anche se così non è stato.

Ma accanto alle tinte fosche ne segnalerò pure di limpide e colorate, seppur appannate dalla ricostruzione sistematica non soddisfacente che le precede.

Ma procediamo dalle prime, che muovono questo mio breve lavoro.

Il caso riguarda la responsabilità di un sanitario che ha eseguito un intervento di natura estetica omettendo la dovuto informazione (ricevendo quindi un consenso viziato), seppur l'esecuzione tecnica sia stata perita. Ne sono derivate conseguenze inattese e sgradite, delle quali il paziente ha reclamato la riparazione, una prima volta sfortunatamente, in primo grado, quindi vittoriosamente in seconde cure. Ricorre in cassazione il sanitario osservando che vi sarebbe stato "solo" vizio d'informazione (dando modo di far comprendere quanto sia poco chiara la ricostruzione sistematica del dovere d'informare) e che per reclamare il risarcimento del danno consistente nelle complicanze sgradite ed inattese sia necessario che il paziente dimostri che, se correttamente informato, non si sarebbe determinato all'intervento mancando, diversamente, il nesso di causa tra la condotta e l'evento dannoso.

A ben vedere è, in parte qua, il ragionamento che la celebre 2847/2010 (qui commentata) ha precisato a sintesi dei due orientamenti, contrapposti, che prima della sua pronunzia si contendevano il campo: per reclamare il risarcimento del danno consistito in complicanze, sgradite e sottaciute, di un intervento pur perito, il paziente deve offrire dimostrazione della diversa scelta che avrebbe preso se correttamente informato.

Poiché la pronunzia di seconde cure tale accertamento non avrebbe condotto, il ricorrente ne stigmatizza il vizio logico che interverrebbe su di un punto nevralgico, sconfessandone le fondamenta decisorie.

La terza sezione da conto sia dell'orientamento diverso (per il quale dall'omessa informazione derivava senza condizione l'illegittimità dell'intervento e quindi la risarcibilità del danno), che ha preceduto la fondamentale 2847/2010 , che della pronunzia del febbraio 2010, più volte citata, tanto che ne riproduce, pedissequamente, proprio un brano che sintetizza l'orientamento scelto e che più sopra ho già ricordato.

Ne desume la necessità di distinguere tra diritto alla salute e diritto all'autodeterminazione, come pure in parte fa la 2847, e propone di rileggere la vicenda in esame ora ponendola sotto la lente del diritto alla salute, quindi del diritto all'autodeterminazione, così da metterne in luce il fatto che incidono su piani diversi, non necessariamente coincidenti.

Ed è qui che le distanze si fanno severe.

Afferma invero che, sotto il primo profilo, quello del diritto alla salute, esiste nesso di causa tra condotta ed evento, ma non vi sarebbe colpa perché l'evento lesivo sarebbe derivato a seguito di un intervento perito. Indugiando invece sul profilo del diritto all'autodeterminazione osserva che la 2847 avrebbe approfondito non ogni caso in cui le complicanze sgradite e taciute seguirebbero ad un trattamento perito, ma solo l'ipotesi in cui si tratti di "intervento medico necessario". Sosterrebbe tale convinzione l'assunto secondo il quale, se così non fosse, l'ordinamento cadrebbe in contraddizione qualificando "contra ius" un intervento invece necessario.

Tutt'altra musica nel campo degli interventi non necessari, ove il difetto di consenso qualificherebbe tout court come contra ius il trattamento applicato.

La distinzione, originale e non prima seriamente affrontata, a quanto mi consta, dalla terza sezione, non è in grado di far vacillare la ricostruzione che chi scrive ritiene invece meritevole di maggior considerazione. Ne costituiscono fondamenta proprio i principi generali che, seppur invocati, paiono nella pronuncia tuttavia sbiaditi. Nasce dall'esigenza, comprensibile, di superare un nodo cruciale dell'impostazione classica: com'è possibile definire corretto, rectius diligente, un intervento affrontato in violazione del dovere d'informare? Se il dovere d'informare è sostenuto da principi di rango costituzionale, richiamati dal principio di diligenza quale determinatore del contenuto dell'obbligazione a fondarne il significato, come può rimanervi estraneo quando si tratta di qualificare gli effetti della sua violazione?

Secondo il relatore la strada è quella di separare le qualificazioni giuridiche; quella che riguarda l'intervento in sé, definito a guisa di "an dell'intervento", e quella che riguarda l'esecuzione dell'intervento. Quando quest'ultima sia secundum ius non è detto debba esserlo anche la prima (violata dal difetto d'informazione). Ebbene: per gli interventi necessari varrebbe quanto sostenuto dalla 2847 (spetta al danneggiato di mostrare che se adeguatamente informato avrebbe negato il consenso e solo allora potrà reclamare il danno consistito nelle complicanze sgradite e taciute emerse all'esito di un intervento perito); per quelli non necessari invece la sola violazione del dovere d'informare renderebbe contra ius la prestazione con l'effetto di consentire al danneggiato di pretenderne il risarcimento degli esiti sgraditi e taciuti senza null'altro provare.

L'incedere degli argomenti, invero suggestivi in virtù della qualità di chi li elabora, non persuade, e dimostra tutta la sua debolezza se solo si riflette sulla vulnerabilità di uno dei suoi paventati presupposti: all'esordio si afferma che "la necessità dell'intervento chirurgico preclude la possibilità di qualificare contra ius l'intervento"; ne fa discendere la rilevanza della distinzione tra interventi necessari e non necessari. L'incoerenza è facilmente rilevabile: se il diritto all'autodeterminazione è sorretto da principi di rango costituzionale, e vale a suggellare pari dignità sia al consenso che al dissenso, informati, e non soffre limite di sorta per i soggetti con capacità di determinazione riconosciuta dalla legge, tanto che la cura può essere rifiutata (lo ricorda proprio la 2847) pur se astrattamente necessaria per la cura della salute (tutte in realtà lo sono, altrimenti non sarebbero cure) in ossequio al bilancio costi benefici che ha come unico orizzonte quelle, personalissimo, del paziente, non può darsi l'ipotesi di un intervento necessario a prescindere dalla volontà del paziente!

Argomentando diversamente si sosterrebbe, come alcune pronunce -neppure troppo velatamente- hanno fatto in passato (si ricordi il caso del lager del San Raffaele), l'esistenza di un "diritto a curare", in ossequio al quale, appunto, ci sarebbero interventi che altri, non il paziente, qualificherebbero "necessari" ed in vista dei quali la violazione del diritto all'autodeterminazione sarebbe, per così dire, meno lieve. La necessità, quindi, è una qualità del trattamento la cui attribuzione spetta al paziente semplicemente perché il trattamento deve essere utile alla sua salute, non a quella "pubblica".

Un altro argomento sconfessa la validità dell'assunto qui criticato: discutiamo di cure, e quindi di trattamenti che hanno per conseguenza un fine, appunto, consistente nella cura della salute che, come ricorda l'OMS, non è semplice assenza di malattia (ad ulteriore conferma del fatto che io posso decidere di curarmi anche negando il consenso al trattamento sanitario per il quale pur vi fosse indicazione tecnica); ebbene: in quanto finalizzati alla cura della salute sono tutti solo potenzialmente "necessari" alla bisogna, ma non certo obbligatori. La necessità, quindi, è criterio semmai relativo, e dipende dalla decisione del paziente. Non può quindi la pronuncia scandalizzarsi per l'ipotesi di un trattamento "necessario" che sia al contempo "contra ius", perché è il diritto all'autodeterminazione consapevole del paziente che lo rende legittimo, non la scienza, perché è in discussione non il trattamento sul piano terapeutico (la sua indicazione) ma l'applicazione a "quel paziente".

Si confonde, quindi, la "necessità" con l'indicazione terapeutica, che è concetto per il vero ben distinto consistendo, di fatto, nell'appropriatezza di un trattamento rispetto ad una certa condizione patologica e anamnestica. O ancora si confonde con l'ulteriormente diversa distinzione tra interventi urgenti e/o necessitati , da una parte, (per i quali il sanitario può decidere per il trattamento in mancanza di soggetti in grado di manifestare una valida volontà), ed interventi d'elezione, invece non necessitati, dall'altra, ai quali ultimi il paziente può determinarsi in assenza, però, dell'urgenza che contraddistingue invece i primi.

Per il vero, alcune considerazioni che la pronuncia assegna alla criticata distinzione hanno titolo per essere spesi, invece, volgendo lo sguardo alle diverse caratteristiche dei trattamenti urgenti e d'elezione. E' vero infatti che i problemi maggiori li presentano i secondi, proprio perché maggiormente velleitari (non essendo urgenti e/o necessitati) e spesse volte non sufficientemente spiegati al paziente che, a motivo del difetto d'informazione, non si trova nella condizione di comprenderne la portata e vi accede sin troppo frettolosamente, dimostrando così proprio quella sconfinata fiducia nella perfezione della scienza medica che proprio i suoi migliori protagonisti si affaticano, prudentemente, a negare. Non ne derivano però certo le conseguenze che la criticata pronuncia fa discendere dalla distinzione che illustra, così che pare l'argomento sia da archiviare perché non solo poco utile a sostenere la tesi della Corte d'Appello e a respingere il ricorso, ma addirittura capace di rievocare il detestato "diritto alla cura".

Ma all'ombra delle non condivise premesse si collocano alcuni passaggi argomentativi invece condivisibili, come quando viene rimarcata l'importanza dell'informazione nei trattamenti con finalità estetiche data la loro peculiarità. Pur rimandando per l'approfondimento della categorie della "indicazione terapeutica", "appropriatezza funzionale ed esistenziale", ad altri scritti (da ultimo editi da Cedam) nei quali ho messo in luce con maggiori dettagli il mio pensiero, e che troveranno ulteriore ed aggiornato sviluppo nella prossima uscita del volume sulla responsabilità medica di Utet che ho l'onore di dirigere per la collana DIG), non esito a definire periglioso invocare per i trattamenti estetici un trattamento "diverso" poiché il rischio, come nella pronuncia di specie, è quello di rinfrancare un argomento (peraltro di agevole soluzione) indebolendone un altro, invece più decisivo perché meno lieve e, però, pregiudiziale. Non tanto, io credo, ha significato affrontare la distinzione tra interventi necessari e non necessari, come già tra obbligazioni di mezzi e di risultato, e così tra trattamenti estetici e non estetici, perché la ricostruzione sistematica non può se non ripartire dal riconoscimento, alla diligenza, dell'ambivalente funzione, ad un tempo, di criterio di responsabilità e di determinazione del contenuto dell'obbligazione.

La diligenza, a sua volta, si esprime attraverso il suo volto tecnico, la perizia, e richiede, per essere del tutto rispettata, pure attenzione e cura (la cui negazione va sotto l'etichetta di "negligenza"), nonché lungimiranza e cautela (la c.d. prudenza). Le categorie della diligenza sono quindi di per sé sole capaci di spiegare quanto invece nella pronuncia è affrontato con l'articolazione di distinzioni sconosciute alla teoria dell'adempimento delle obbligazioni e all'art. 1176, II c., c.c.: l'intervento eseguito secondo le regole tecniche è quindi l'intervento perito (non "corretto", come a volte, inciampando, si afferma, atteso che i principi di correttezza e buona fede alludono ad altri contenuti), ma la perizia non è sufficiente a far acquisire alla prestazione la patente di "diligente"; perché corrisponde, per esempio, a negligenza (lo sostiene la stessa terza sezione) violare il dovere d'informazione; a imprudenza, invece, promettere -per esempio discutendo d'interventi con finalità estetiche- risultati che non tengano conto delle difficoltà del caso, dell'emersione di complicanze così da indurre il paziente a pronunciare un consenso, per l'appunto, non informato all'esito di un difettoso giudizio costi/benefici.

Ecco perché, senza scomodare la claudicante distinzione tra interventi necessari e non necessari, è possibile spiegare, anche dal punto di vista sistematico, come mai sia in colpa (altro che se lo è!) il sanitario che esegua in modo perito un trattamento senza però informare diligentemente il paziente: semplicemente perché ha espresso un contegno, per un verso, perito, per l'altro negligente, così che la violazione della diligenza che ne è derivata non può che determinare, ex art. 1176 , II c., c.c., l'inadempimento della prestazione.

A nulla giova la pur riconosciuta perizia, perché per aversi adempimento dell'obbligazione va rispettato il principio di diligenza, e la diligenza è negata (per accertata negligenza) dalla violazione del dovere d'informare, attesa anche la sua copertura costituzionale. Diligenza e perizia, in altri termini, non sono sinonimi, ma la seconda è mera espressione -squisitamente tecnica- della prima, che può essere violata anche da altre manifestazioni della sua patologia, invero le peggiori, consistenti nella negligenza e nella imprudenza. Non a caso queste ultime sono impermeabili pure alla richiesta modulazione della severità del giudizio di responsabilità suggerito dalla speciale difficoltà, com'è noto, ex art. 2236 c.c.

Per festeggiare l'adempimento diligente, quindi, il debitore della prestazione deve dimostrare di non aver violato in nessuno modo la diligenza, né essendo imperito, né imprudente, né sciatto e gravemente disattento (e quindi negligente).

Insistere su di una coerente ricostruzione anche sistematica non è fine a sé stesso, come mi auguro risulti evidente, perché seppure la conclusione possa, in parte, sovrapporti a quella che sancisce il rigetto del ricorso, i diversi argomenti utilizzati hanno un peso che fa sentire i suoi effetti anche in altre direzioni, come quando l'incedere della argomentazioni giunge alla fatidica affermazione: "Va , in definitiva, ribadito che -nel caso di interventi non necessari- il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario".

Improvvisamente, per amore di una fallace distinzione che conduce ad estreme conseguenze, il principio del consenso informato, sostenuto ormai da una solidissima giurisprudenza della terza sezione, diviene, peraltro "di norma" e quindi nemmeno sempre, legittimazione e fondamento dei soli trattamenti sanitari non necessari?

Non v'è chi non legga, in questo finale scivolone, una dèfaillance che proprio non si può passare sotto silenzio.

Da ultimo la pronuncia merita attenzione quando, completata la discovery della propria tesi di base che culmina, come si è detto, con la conclusione che mette più in imbarazzo di tute, passa ad affrontare, sulle stesso piano della 2847 dalla quale ab initio si allontana, l'argomento utilizzato dal ricorrente: forse non accorgendosi che, facendolo, destituisce di fondamento ed utilità quanto prima osservato, ricorda che la prova (dalla 2847 richiesta per lasciare libero accesso alla richiesta di risarcimento del danno costituito dalle complicanze sgradite e sottaciute pur in presenza di intervento perito) possa essere data anche per presunzioni. Quindi, in assenza di prove dirette della volontà diversa che il paziente avrebbe manifestato se correttamente informato, argomenti di prova a sostegno del fatto che avrebbe deciso diversamente si deducono dal notorio (chi accetterebbe il rischio di trovarsi in una condizione peggiore di quella di partenza che non alterava, se non esteticamente, la propria integrità fisica?). E ancora: può ben presumersi, avendo riguardo ad un soggetto ipotetico medio, "normale e razionale" (dice la pronuncia, accendendo peraltro a concetti assai pericolosi come quella della "normalità), che non sia accettato un trattamento di chirurgia estetica che rischi verosimilmente di porre il paziente in uno stato addirittura peggiore, sotto il profilo estetico, di quello che vorrebbe emendare. Tutto quanto è desumibile già dalla 2847, senza necessità, lo si ribadisce di scomodare altre distinzioni, né di superarle nel senso auspicato dal recente arresto.

Da ultimo pare dimenticato, ma perché non evidentemente sollecitato, l'esame dell'altra ipotesi che proprio la 2847 considera invece paradigmatica del danno da difettosa informazione stabilendone la presunta verificazione: trattasi del danno non patrimoniale che derivi, al di la delle complicanze sottaciute, dal tradimento, si potrebbe dire, dell'alleanza terapeutica; dall'impossibilità di prepararsi al peggio, dall'impossibilità di decidere, dal vedere pregiudicato il diritto di decidere. La 2847 lo considera a guisa di un danno che è lecito presumere si manifesti, poiché appartiene al notorio il maggior dolore che si subisce quando si manifesti una complicanza alla quale non è stato possibile prepararsi per la difettosa informazione.

 




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