Deboli, svantaggiati  -  Alceste Santuari  -  12/12/2022

Corruzione, Enti del Terzo settore e modello 231

Il “modello 231” è un sistema di procedure e controlli interni, capaci di rafforzare la protezione giuridica di quanti (solitamente a titolo gratuito negli enti non profit), sono chiamati ad assumersi responsabilità amministrative e gestionali.

Come è noto, il d. lgs. n. 231/2001 ha introdotto una responsabilità in capo sia alle società sia agli enti non profit derivante dalla commissione di un reato presupposto da parte di un soggetto apicale ovvero di un soggetto alle dipendenze o coordinato da quest’ultimo che agisca per il vantaggio o per l’interesse dell’organizzazione.

Le disposizioni del d. lgs. n. 231/2001 si applicano dunque anche agli Enti del Terzo settore (associazioni, riconosciute e non riconosciute, fondazioni, imprese sociali). In quest’ottica, l’art. 4, comma 1, lett. g) della legge n. 106 del 2016, nel disciplinare gli obblighi di controllo interno e di accountability nei confronti dei diversi stakeholders della compagine organizzativa, ha previsto, tra gli altri, anche l’adozione del “modello 231”. In ossequio alle previsioni della legge delega, l’art. 30, comma 6, d. lgs. n. 117/2017, recante “Codice del Terzo settore”, nonché l’art. 10, comma 2, d. lgs. n. 112/2017, recante “Revisione della disciplina in materia di impresa sociale” prevedono che l’organo di controllo interno agli enti del terzo settore, tra i propri compiti, vigili anche sull’osservanza del cd. “modello 231”.

Per gli Enti del Terzo settore è vieppiù “strategico” dotarsi di adeguati, efficaci ed efficienti “modelli 231”, in specie quando gli enti in parola si rapportino con le pubbliche amministrazioni, siano impegnate in campagne di raccolta fondi e presentino un’articolazione e una gestione interne complesse, nella quale è necessario – alla stregua di quanto accade nelle imprese tradizionali – individuare precisamente il sistema delle responsabilità e le procedure adeguate per assicurare un corretto funzionamento e un adeguato livello di accountability.

A questo scopo, l’ente non profit è chiamato ad effettuare una mappatura dei rischi del contesto organizzativo, dei processi e delle prassi aziendali adottate. La mappatura risulta efficace al fine di evidenziare in quale area ovvero settore dell’attività e secondo quali modalità si possano verificare eventi che pregiudichino gli obiettivi indicati dal legislatore. Al termine della mappatura, che in una organizzazione non profit, in particolare, può rivelarsi efficace e utile per identificare con precisioni responsabilità e procedure che, spesso, non sono codificate, si procede alla stesura del sistema di controllo interno. Durante questa fase si analizzano la capacità del sistema di contrastare ovvero di ridurre efficacemente i rischi identificati, così da operare, se necessario, l’eventuale adeguamento del sistema medesimo. Si pensi, in questo senso, al potenziale reato di riciclaggio in occasione di campagne di raccolta fondi realizzate a mezzo di piattaforme informatiche.

Una efficace costruzione del “modello 231” richiede, tra l’altro, di:

  1. a) individuare le modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
  2. b) individuare idonee attività di auditing sistematico e periodico, attraverso le quali monitorare le procedure e i processi delle diverse aree di responsabilità interne;
  3. c) definire un appropriato sistema disciplinare e sanzionatorio a carico del soggetto autore del reato che abbia agito eludendo fraudolentemente quanto disposto nel “modello 231”;
  4. d) nominare l’Organismo di vigilanza cui affidare il monitoraggio e la verifica del funzionamento e dell’osservanza del “modello 231”.

Il “modello 231” agisce quale “argine” preventivo, efficace esimente, nonché quale “opportunità” per gli Enti del Terzo settore di revisionare le procedure e le modalità di assunzione delle decisioni e l’attribuzione delle responsabilità interne, con un conseguente innalzamento del livello di efficienza e di efficacia nel processo di erogazione dei servizi e di gestione delle attività di interesse generale.

Appare utile segnalare che le carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni per le quali si verifica il reato presupposto, giustificano l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, che potrà andare esimente se sarà in grado di dimostrare di aver adottato tutte le misure gestionali ed organizzative ed idonee a prevenire la commissione del reato presupposto. In questo senso, recentemente, la Corte di Cassazione ha avuto di ribadire che: “[…] Nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente [anche non lucrativo], le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal d.lgs. n. 231/01” (cfr. Corte di Cassazione, Penale, sez. 4, 15 febbraio 2022, n. 18413).

Da quanto sopra emerge, conseguentemente, l’applicabilità delle disposizioni contenute nel d. lgs. n. 231/2001 e, in parte, delle misure anticorruzione ex l. n. 190/2012 e di quelle in materia di trasparenza anche alle associazioni e alle fondazioni, nonché alle imprese sociali.

Come oramai anche la prassi sembra dimostrare, il “modello 231” negli enti del terzo settore serve a: i) rafforzare i sistemi di controllo interni; ii) incrementare l’accountability degli interventi e delle attività, nei confronti dei propri associati, delle pubbliche amministrazioni e dei cittadini-donatori; iii) potenziare la reputazione degli enti.

La cultura dell’accountability e della trasparenza, unitamente all’adozione di adeguate ed efficaci misure volte a prevenire fenomeni di corruzione non possono che essere “alleati” preziosi nel percorso di sviluppo e crescita di un settore non lucrativo sempre più chiamato a svolgere funzioni pubbliche.

 




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