-  Redazione P&D  -  21/10/2008

Corte Costituzionale, 15 aprile 2008, n. 102, Pres. F. Bile, SALVA PARZIALMENTE LA TASSA REGIONALE SUL LUSSO: ORA SI ATTENDE LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA - F. Guella

Con la sentenza 102 del 2008 la Corte costituzionale è intervenuta sul tema della finanza regionale, con particolare riguardo alle impugnate disposizioni della Regione Sardegna relative alla c.d. tassa sul lusso. In particolare la Regione autonoma aveva istituito, con gli artt. 2, 3 e 4 della l. reg. n. 4 del 2006, tre nuove imposte gravanti rispettivamente sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case siti entro i tre chilometri dalla battigia marina e destinati ad uso abitativo, sulle seconde case destinate ad uso turistico e site ancora ad una distanza inferiore ai tre chilometri dalla linea di battigia marina, non adibiti ad abitazione principale da parte del proprietario avente domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, e su gli aeromobili ed unità da diporto, applicabile – nel periodo dal 1° giugno al 30 settembre – alla persona o alla società aventi domicilio fiscale fuori dal territorio regionale che assumono l’esercizio dell’aeromobile o dell’unità da diporto (e dovuta per ogni scalo negli aerodromi, ed annualmente per lo scalo nei porti); tale regime impositivo era stato fatto poi oggetto di modifiche di dettaglio, con l’art. 3, cc. 1°, 2° e 3°, della l. reg. n. 2 del 2007, al fine di evitare alcune possibili censure. Si era infine introdotta una imposta di soggiorno di applicazione comunale, prevista dall’art. 5 della stessa l. reg. n. 2 del 2007. 

Con tali strumenti la Regione tentava di dare forma ad una propria politica di sviluppo territoriale sostenibile, colpendo con l’imposizione fiscale attività sintomatiche dello sfruttamento ambientale connesso al settore turistico; in particolare, la Regione esercitava così la propria autonomia speciale per il tramite di poteri impositivi, istituendo nuovi tributi in assenza di una specifica legge statale in materia. 

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ricorreva in via principale avverso tali disposizioni, allegando violazioni dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e capacità contributiva, nonché soprattutto questioni inerenti alla violazione della normativa comunitaria e del riparto interno di competenze tra Stato e Regioni. Su tali due ultime questioni la Corte costituzionale ha occasione di affermare principi di massima rilevanza, sollevando per la prima volta una questione pregiudiziale alla CGCE e precisando quali siano i parametri che presiedono al riparto delle competenze legislative tributarie nelle Regioni ordinarie e nella Regione Sardegna. 

Per quanto riguarda in particolare il diverso regime apprestato dal titolo V della Costituzione e dallo Statuto speciale di autonomia, la Consulta rileva come l’osservanza dei “principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario” (obbligo derivante dal combinato disposto del secondo comma, lettera e), del terzo comma – competenza legislativa concorrente nella materia del coordinamento del sistema tributario – e del quarto comma – potestà legislativa esclusiva nella materia tributaria non espressamente riservata alla legislazione dello Stato – dell’art. 117 Cost., nonché dell’art. 119, secondo comma, Cost.) sia sì omogenea – per la sua funzione di coordinamento – all’obbligo di “armonia con i principi del sistema tributario dello Stato” previsto dall’art. 8, lett. i), dello Statuto della Regione Sardegna, ma al contempo come le due discipline si differenzino sotto il profilo quantitativo e qualitativo relativamente all’ambito di autonomia lasciato alle scelte impositive. In particolare – nell’interpretazione che la Corte costituzionale ha dato del sintagma “armonia con i principi del sistema tributario dello Stato” – la Regione Sardegna è tenuta esclusivamente, nell’istituire i tributi propri, a svolgere scelte coerenti con il sistema fiscale statale, conformandosi agli elementi essenziali e alle scelte politiche di fondo dei singoli istituti tributari presenti a livello nazionale; al contrario, i “principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario” realizzerebbero – nella visione della Corte – un coordinamento in senso stretto, così da presupporre la necessità di una apposita legge statale che stabilisca lo schema generale della fiscalità regionale, solo all’interno del quale si potrebbe svolgere l’autonomia impositiva. 

Alla luce di ciò diviene irrilevante verificare se le imposte censurate siano riconducibili alla materia del turismo (rispetto alla quale lo Statuto di autonomia prevede espressamente un potere impositivo proprio), perché comunque la Regione è legittimata ad esercitare la propria competenza legislativa di istituzione di tributi propri anche in assenza di una legge statale generale di coordinamento, ed anche in settori già presidiati da tributi statali, con il solo limite del rispetto dell’armonia con i principi del sistema tributario dello Stato. 

Nel caso specifico, la Corte costituzionale giudica non rispettata tale armonia con i principi del sistema tributario nazionale in due dei quattro tributi, e specificamente nei casi dell’imposta sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case ed in quella sulle seconde case ad uso turistico. 

Per quanto concerne la prima imposta, essa riguarda una tipologia di reddito già soggetta a prelievo in forza della legislazione statale (in particolare, art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986), fatto che non costituisce di per se – nel caso della Regione autonoma – ipotesi di illegittimità costituzionale. Tuttavia il tributo statale e quello previsto dall’art. 2 della l. reg. n. 4 del 2006 sono ispirati a diverse opzioni politiche di fondo, e ciò si traduce in una disarmonia rispetto ai principi fondamentali che dovrebbero invece essere comuni. In particolare le imposte riguardano entrambe l’incremento di valore realizzato all’atto della cessione a titolo oneroso di un immobile (o dei titoli partecipativi delle società proprietarie o titolari di diritti reali sull’immobile medesimo), ma l’imposta regionale ha per oggetto anche le plusvalenze ultraquinquennali, contraddicendo la scelta del legislatore statale di sottoporre a tassazione le sole plusvalenze derivanti da cessioni effettuate entro il quinquennio (per le quali soltanto opera una valutazione legale tipica di speculatività). L’imposta statale rispetterebbe quindi il principio generale di tassare il “reddito diverso” costituito dalla plusvalenza, in considerazione delle caratteristiche oggettive dell’operazione speculativa di acquisto, mentre la disposizione regionale persegue – quale indirizzo di politica fiscale – la tassazione di qualunque plusvalenza, anche non speculativa, e considera quindi un concetto di “reddito-entrata” (che prescinde da limiti temporali presuntivi). 

Anche l’imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico viene giudicata non rispettosa dei principi del sistema tributario dello Stato. In particolare, l’elemento determinante nell’individuazione del soggetto passivo è normativamente definito come “possesso”, da non intendersi però in senso civilistico, ma come titolarità di enumerate situazioni giuridiche soggettive sul fabbricato, che in sostanza prescindono dall’effettivo o potenziale uso turistico del fabbricato (coincidendo invece con la figura dei tributi di tipo patrimoniale e immobiliare, come è l’ICI). Quindi, a discapito della denominazione di “imposta regionale sulle seconde case ad uso turistico”, il tributo non presenterebbe una effettiva ratio impositiva turistica ed ambientale. 

Nel ragionamento della Corte costituzionale, conseguenza di ciò è che tale (solo declamata) ratio turistico-ambientale non può sorreggere e giustificare le esclusioni soggettive dall’imposta – a favore delle persone con domicilio fiscale in Regione – previste dalla norma censurata, così che tali esclusioni vengono a risolversi in illegittime discriminazioni, prima ancora che in una disarmonia rispetto ai principi del sistema tributario statale (discriminazioni ancora più stridenti se si pone a raffronto il caso dei soggetti aventi domicilio fiscale in Italia, ma non in Sardegna, con quello dei soggetti aventi residenza anagrafica all’estero, ma domicilio fiscale in Sardegna a ragione del fatto che ivi producono la maggior parte del loro reddito “italiano”). 

Nel caso dell’imposta regionale su aeromobili ed unità da diporto invece, non vi è disomogeneità rispetto ai principi fondamentali di diritto tributario nazionale, e neppure si profila il problema se essa si risolva in una duplicazione d’imposta, sia perché i diritti aeroportuali previsti dalla legge n. 324 del 1976, non costituiscono tributi (ma corrispettivi civilistici di alcuni servizi aeroportuali), sia perché il tributo è dovuto dal soggetto passivo per il solo fatto di avere effettuato uno scalo nel territorio sardo (e quindi l’imposta regionale prescinde dall’obbligo a carico del soggetto passivo di corrispondere i compensi dovuti per i servizi utilizzati nello scalo dell’aeromobile, così che il presupposto dell’imposta regionale è diverso dal fatto costitutivo dell’obbligo di corrispondere i diritti aeroportuali); infine, come si accennava, per la Regione Sardegna non sussiste nell’ordinamento un divieto di istituire tributi propri relativi a identici presupposti di tributi statali. La Corte costituzionale d’altro lato, esclusa preliminarmente anche la lesione degli articolo 3 e 53 della Costituzione, a ragione del fatto che il carattere regressivo di questo singolo tributo non ne inficia la legittimità (dato che i criteri di progressività debbono informare il sistema tributario nel suo complesso e non i singoli tributi), non esclude invece la potenziale violazione mediata dell’articolo 117, co. 1°, per contrasto con le norme di diritto comunitario relative alla libera prestazione dei servizi e al divieto di aiuti di Stato (artt. 49 e 87 TCE). 

Nello specifico, la questione diviene rilevante nell’ipotesi in cui ad esercire l’aeromobile o la nave sia un’impresa comunitaria, dato che l’assoggettamento delle imprese a prelievo fiscale nel solo caso in cui non abbiano domicilio fiscale in Sardegna può creare una discriminazione rispetto a quei soggetti economici che, pur svolgendo la medesima attività, non sono tenuti al pagamento del tributo per il solo fatto di essere fiscalmente domiciliati nella Regione. Si determinerebbe infatti un aggravio selettivo del costo dei servizi resi dalle imprese non residenti, in via di principio non ammesso dal diritto comunitario. La CGCE sostiene (sentenze 11 gennaio 2007, C-269/05, Commissione c. Repubblica ellenica; 6 febbraio 2003, C-92/01, Stylianakis; 26 giugno 2001, C-70/99, Commissione c. Portogallo) che qualora le misure nazionali rendano le prestazioni transfrontaliere più onerose di prestazioni nazionali similari, esse realizzano una illegittima restrizione alla libera prestazione dei servizi; inoltre, tale agevolazione selettiva – producendo un vantaggio economico concorrenziale – potrebbe concretare una ipotesi di aiuto di Stato, esso pure non ammesso dal diritto comunitario. La peculiarità del caso in esame è tuttavia legata da un lato al fatto che il vantaggio competitivo non deriva dalla concessione di un’agevolazione fiscale, ma indirettamente dal minor costo (fiscale) cui le imprese residenti sono assoggettate, e dall’altro al carattere regionale della misura (e quindi alla necessità di compensare, attraverso la tassazione delle imprese fiscalmente non domiciliate in Sardegna, i maggiori costi sostenuti dalle imprese ivi domiciliate, in ragione delle peculiarità geografiche ed economiche legate al carattere insulare della Regione, argomento che la stessa Corte costituzionale prospetta, rilevandone però al contempo la problematicità); a tale riguardo, di particolare utilità può essere la recente sentenza della CGCE, 11 settembre 2008, C-428/06 e C-434/06. 

Quale esito di tale situazione, la Corte ammette – per la prima volta – la propria legittimazione a sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 del TCE. Infatti, nonostante la peculiare posizione di organo di garanzia costituzionale che la Consulta riveste nell’ordinamento interno, essa ha nondimeno – per l’ordinamento comunitario – natura di “giurisdizione nazionale” (di unica istanza nel caso dei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale, dove nessun altro giudice ha avuto in precedenza la possibilità di sollevare la questione interpretativa). Il rinvio alla CGCE viene quindi svolto con l’ordinanza n. 103 del 2008.




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