Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  23/04/2020

Dal consenso presunto al dissenso presunto - E.Reale, G.Cacciapuoti, A.Liberti, F.Fabbozzo

L’ evoluzione del consenso nel reato di violenza sessuale: prospettive di riforma 

«Qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte dell’uomo, secondo una diffusa concezione, non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna, soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche in maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo».1 

Queste parole, ancora intrise di antico pregiudizio e di valutazioni moralistiche sulla donna, costituiscono il punto di partenza di questa breve riflessione che vuole sottolineare come, nel corso del tempo, la giurisprudenza abbia via via modificato la prospettiva di valutazione del reato di violenza sessuale. 

Ancora ben impresso nelle menti di chi frequenta da anni le aule di giustizia è l’atteggiamento tenuto nei confronti della donna nei processi per violenza sessuale: ella, insieme alle sue abitudini, ai suoi comportamenti, alle sue esperienze veniva posta sul banco degli imputati piuttosto che difesa e protetta, e quindi resa vittima due volte, mentre “ha diritto di essere quello che vuole senza bisogno di difensori”2. 

Nel nostro Paese l’evoluzione che ci ha condotto sino ad oggi è partita, dunque, da lontano e di questo percorso lungo e tortuoso la sentenza n° 42118/2019 emessa dalla III Sezione Cassazione Penale3 costituisce l’ultimo atto.
Prendendo spunto dal caso, posto al loro vaglio, di un uomo condannato dal Tribunale di Genova per il reato di cui all’ art. 609 bis c.p. (oltre per le accuse di lesioni e maltrattamenti in famiglia), sentenza successivamente riformata dalla Corte d’Appello del capoluogo ligure in anni quattro mesi dieci di reclusione, i Giudici di legittimità esplicitano quanto in realtà era velatamente presente in altri precedenti pronunciamenti: il
dissenso presunto. Con tale sentenza cambia chiaramente la visione interpretativa dell’elemento oggettivo del reato, vi è una modifica della prospettiva applicativa: se prima, infatti, era il consenso ad essere supposto, ora è il dissenso della vittima ad essere presunto. Affermano i Giudici: a carico della vittima non vi è alcun onere di espressione del dissenso all’intromissione di soggetti terzi all’interno della sua sfera di intimità sessuale; al contrario, si deve ritenere che tale dissenso sia da presumersi laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare l’esistenza di un consenso, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco. Insomma, non si parla più aprioristicamente di un consenso presunto sol perché la vittima non ha mostrato segni di opposizione, ma di un consenso che deve essere esplicitamente prestato ed in mancanza del quale si ritiene che ci si trovi di fronte ad un dissenso. La portata innovativa di tale decisione si ritrova proprio in questo capovolgimento di prospettiva più favorevole alla vittima, la quale potrebbe per un qualunque motivo non riuscire ad esprimere con forza il proprio dissenso, come nel caso in cui sia paralizzata dalla paura. Evidente, dunque, la presa di posizione assunta dalla Suprema Corte che, nel corso degli anni, ha a mano a mano capovolto il suo punto di vista. Per meglio esplicitare la novità e limitando l’analisi al solo ordinamento italiano è necessario fare una breve disamina degli elementi costitutivi del reato di violenza sessuale contemplato nel nostro codice sostanziale all’art 609 bis4 cui è legato a doppio filo il concetto di consenso. La norma è posta a tutela della libertà sessuale, vale a dire la libertà di autodeterminarsi in ordine alla propria sfera sessuale ed agli atti che la compongono. Le condotte prese in considerazione sono essenzialmente due: da un lato la violenza sessuale per costrizione, realizzata per mezzo di violenza, minaccia o abuso di autorità; dall'altro lato la violenza per induzione, attuata mediante l’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa o mediante inganno, come nel caso in cui il colpevole opera una sostituzione di persona. Nel concetto di atti sessuali deve ricomprendersi ogni atto coinvolgente la corporeità della persona offesa, posto in essere con la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo della sfera sessuale di una persona non consenziente (dolo generico). Per quanto concerne la violenza, essa consiste non solo nell'esercizio di una vis fisica o coazione materiale, ma anche in qualsiasi atto o fatto, posto in essere dall'agente, che abbia come ricaduta la limitazione della libertà del soggetto passivo, costretto, contro la sua volontà, a subire atti sessuali. Per quanto riguarda invece la minaccia, essa consiste nella prospettazione di un male ingiusto e notevole (ad opera del soggetto agente) quale conseguenza del rifiuto a subire la condotta. La violenza sessuale per induzione si sostanzia, invece, nell'abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima, vale a dire approfittare delle particolari condizioni in cui si trova la persona offesa. La lettura della norma, stante la delicatezza e l’invasività del reato, ma anche, e bisogna sottolinearlo, una certa lacunosità, ha indotto la giurisprudenza di legittimità ad una molteplicità di interpretazioni e riflessioni che hanno sviscerato i vari aspetti della norma stessa. Senza avere la pretesa di ricostruire per intero l’enorme lavoro giurisprudenziale svolto negli anni, si ricordano alcune sentenze di particolare valenza innovativa. Una sentenza di poco antecedente a quella di cui ci stiamo occupando, e di cui costituisce indubbiamente un importante precedente, ha sancito il seguente principio:... “integra l'elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui, realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona”.5 Andando a ritroso nel tempo, nel 2008 la Cassazione stabilì che: «Il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di violenza sessuale la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga poi meno a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso».6 Ma indubbiamente la pronuncia più interessante ai nostri fini e che ci aiuta a meglio comprendere la portata innovativa della sentenza del 2019 è la sentenza n°37752/2011 (Cassazione penale, sez. III, del 19/10/2011) che si pone come esatto contraltare rispetto agli ultimi pronunciamenti. Secondo la Corte “sussiste violenza fisica, anche se attenuata, quando le modalità dell’azione del soggetto agente non sono state violente, ma solamente subdole, ed egli abbia agito nella ragionevole convinzione del presunto consenso della donna, allorquando il comportamento di questa non sia stato solo passivo, ma partecipativo all’atto sessuale stesso e poteva essere equivocato e valutato come assenso”; senza dubbio si tratta di una sentenza che ha costituito un punto di partenza per lasciare impuniti una molteplicità di violentatori, nel momento in cui si dia per scontato il consenso della donna. 

La verità sostanziale e il distacco dalla verità processuale 

La verità processuale dovrebbe corrispondere alla verità sostanziale. Il condizionale è d’obbligo, il più delle volte, infatti, questa corrispondenza non si verifica con gravi conseguenze per la vittima di violenza sessuale che, alla notizia della immediata liberazione del/i suo/i carnefice/i, non solo si sente non tutelata, ma vittima per la seconda volta. 

Oggi, però, alla luce del principio espresso dalla Corte con la recente sentenza n. 42118/2019, se pur non si potrà dare giustizia alle “vittime del passato”, si potrà evitare che altre violenze restino impunite sulla scorta di un presunto consenso. 

Se solo proviamo a rileggere (riportandoli in maniera anonima) alcuni casi del passato, neanche troppo lontano, alla luce del nuovo orientamento, vediamo come cambia il risultato processuale.
1° caso. Durante la primavera dell’anno 2019 un passante nella stazione circumvesuviana del Comune di Napoli nota una giovane ragazza seduta su una panchina in lacrime e in stato di shock. La giovane immediatamente racconta di essere stata violentata da tre ragazzi. Allertata dal passante, giunge sul posto la polizia e la donna sporge formale denuncia – querela nei confronti dei suoi tre carnefici. A carico dei denunciati il Gip presso il Tribunale di Napoli dispone la misura cautelare in carcere. L’ordinanza viene impugnata dai difensori degli arrestati e il Tribunale sezione Riesame pronuncia l’annullamento della stessa, con un provvedimento in cui sul banco degli imputati, anzi più esattamente sul banco degli indagati, sembra esserci la persona offesa. L’ordinanza del Riesame ritiene le dichiarazioni della persona offesa – rese più volte in un limitato arco temporale – inattendibili. 

È noto che l’art. 609 octies c.p. rientra in quella gamma di reati in cui spesso la fonte di prova è costituita in modo prevalente, se non esclusivo, dalle dichiarazioni della persona offesa dal reato, già il giudice di merito in sede cautelare deve operare in tale sede la verifica della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto in modo più penetrante e rigoroso rispetto al soggetto informato dei fatti, pur se non necessaria la compresenza di riscontri esterni (in tal senso Cass. Sez. I, 27.1.2016, nr. 16029). Le dichiarazioni della donna vengono ritenute inattendibili soprattutto sulla base del suo trascorso. Si legge nell’ordinanza che la vittima ha un passato turbolento a causa di rapporti crudi ed equivoci con la figura paterna, ha inoltre sofferto di disturbi alimentari e di un disturbo compulsivo di natura sessuale, più volte ha iniziato e portato a termine percorsi psicologici. A stralci è riportata anche la cartella clinica della persona offesa – quando era in cura presso la struttura sanitaria del suo distretto – e tutte le sue problematiche, debolezze e instabilità psicofisiche, anziché fungere da aggravante per la fattispecie criminosa, servono per sostenere la inattendibilità delle sue dichiarazioni, anche a dispetto di un referto di una psicologa, esperta in materia, che, ascoltata la vittima dopo l’accaduto, conclude affermando che “la reazione traumatica attuale non è in rapporto eziologico con il quadro clinico precedente"; e per di più afferma che "...la presenza di uno stato traumatico correlato allo specifico evento di violenza sessuale depone per una totale assenza di consensualità da parte della ragazza". Tuttavia, per il collegio non vi è la prova (indizi gravi) della sussistenza del dissenso alla consumazione dei rapporti sessuali tra la ragazza e i tre denunciati. Ebbene, con l’applicazione del principio sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 42118/19 “a carico della vittima non vi è alcun onere di espressione del dissenso all’intromissione di soggetti terzi all’interno della sua sfera di intimità sessuale; al contrario, si deve ritenere che tale dissenso sia da presumersi laddove non sussistendo indici chiari ed univoci volti a dimostrare l’esistenza di un consenso, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco”, il Tribunale del Riesame sarebbe pervenuto ad una diversa e opposta conclusione, non essendovi alcun elemento idoneo a dimostrare che la vittima era consenziente ai rapporti sessuali subiti. 

2. caso Sara insegnante di scuole materne, nell’anno 2016 incontra Danilo e tra i due nasce una relazione sentimentale caratterizzata da passionali rapporti sessuali che dopo poco diventano particolarmente violenti e brutali, e la violenza e brutalità non è reciproca, bensì diretta solo sulla donna e si accentua nei momenti di rabbia e nervosismo dell’uomo. Dopo mesi di violenze e minacce (nello specifico i due avevano videoripreso i loro rapporti sessuali e Danilo ricattava la compagna di divulgare i filmati ove mai lei decidesse di interrompere la loro relazione) Sara - a seguito dell’ennesima grave violenza subita - sporge formale denuncia – querela nei confronti del suo compagno che sarà indagato e imputato per il reato ex artt. 81, 609 bis c.p. per averla più volte violentata e costretta ad avere rapporti sessuali violenti, mordendola in varie parti del corpo e obbligandola ad avere rapporti anali, introducendo nell’ano oggetti di vario genere, provocandole tra l’altro lesioni dello sfintere irreversibili. All’esito della lunga ed articolata attività istruttoria espletata dal Collegio del Tribunale di Napoli, l’imputato è stato assolto. Nel corpo della motivazione il Tribunale non definisce le dichiarazioni della persona offesa inattendibili – come nel precedente esempio – ma sostiene che i rapporti sono avvenuti con modalità conosciuta ed accettata da Sara. La donna, è vero, non ha mai negato di amare l’uomo e di intrattenere con lui rapporti sessuali particolarmente passionali. La donna ha anche specificato di essersi opposta più volte a questi rapporti violenti e di sicuro di non avere dato il consenso. Ebbene, un consenso limitato a determinate condizioni non può intendersi come consenso univoco a qualsiasi pratica sessuale, e “a nulla rileva ovviamente l’esistenza di un rapporto di coppia coniugale o para - coniugale tra le parti, atteso che non esiste all’interno di un tale rapporto un “diritto all’amplesso”, né conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale”. (Cass, sez. III., n. 14789 del 2004). Tale principio, già ampiamente conosciuto nell’anno in cui è stata pronunciata la sentenza in oggetto e totalmente ignorato dal Collegio giudicante, è stato ribadito nella sentenza della Cassazione del 15 ottobre 2019, nr. 42118. 

Prospettive di riforma 

Il notevole patrimonio giurisprudenziale di cui la sentenza n° 42118/2019 costituisce l’ultimo atto, il grande lavorio interpretativo di questi anni e soprattutto il progresso nella valutazione del consenso della persona offesa rischiano, tuttavia, di restare lettera morta nel momento in cui non vi è un riconoscimento legislativo che cristallizzi tali principi. In effetti, dalla lettura della normativa relativa ai delitti sessuali emerge una palese arretratezza rispetto a quanto sostenuto dalla giurisprudenza. 

La norma è, infatti, basata sui principi di un modello vincolato, la giurisprudenza, invece, ha superato, nella identificazione del reato di violenza sessuale, i requisiti tipici della norma codicistica (violenza fisica, minaccia, abuso d’autorità o delle condizioni di inferiorità della persona offesa) avvicinandosi, a mano a mano, ad un modello consensuale che ha come fulcro sempre un dissenso presunto. 

Secondo uno schema generale elaborato dalla dottrina in relazione alla configurabilità del delitto di violenza sessuale nei vari ordinamenti sono individuabili tre modelli:
- il modello consensuale puro che dà rilevanza massima al consenso per cui c’è un reato quando non è provato il consenso valido della persona offesa,
la prova dunque è concentrata sulla evidenza o meno del consenso e di rimando il dissenso è sempre presunto; 

- il modello consensuale limitato che dà importanza non tanto al consenso, ma richiede una effettiva e manifesta contraria volontà della persona che ha subito la violenza; ci troviamo nell'area di un consenso presunto e quello che deve essere dimostrato è il dissenso;
- il modello vincolato che non attribuisce un ruolo centrale al consenso, ma si basa sul fatto che le aggressioni sessuali per essere perseguite e punite debbano avere determinate caratteristiche (violenza fisica, minaccia, costrizione ecc.). Anche qui il modello comunque parte da un consenso presunto e ciò che va dimostrato con specifiche determinazioni è il dissenso. 

In questi ultimi due modelli quindi la prova è concentrata sulla evidenza o meno del dissenso e sulla presunzione invece del consenso, contrariamente a come ci indica la nuova frontiera giurisprudenziale per la quale il dissenso è sempre presunto.
Nell’ordinamento italiano troviamo un richiamo al modello vincolato che ruota intorno alla prova della violenza sessuale fondata sulla violenza fisica, sulla minaccia, e sulla costrizione come dimostrazione della mancanza del consenso della vittima. 

Sarebbe auspicabile, pertanto, una riforma dell’art. 609 bis c.p. e dell’intero impianto normativo dei delitti sessuali nel senso di un passaggio dal modello vincolato a un modello consensuale pieno così da uniformarsi alla giurisprudenza di legittimità.
In effetti, il nostro art. 609 bis, al primo comma, c.p. recita: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. E’ evidente l’assenza di un riferimento esplicito al consenso (c’è un riferimento implicito nell’ uso del verbo “costringere” che lascia troppo spazio all’ interpretazione). 

Si tratta, a nostro avviso, di una norma che non ha i requisiti della chiarezza, determinatezza e univocità, lasciando una eccessiva libertà interpretativa.
La nuova formulazione dell’art. 609 bis, che parte dal principio del dissenso presunto di cui alla sentenza citata, deve essere la seguente:
“Chiunque, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali in assenza di indici chiari ed univoci volti a dimostrare l’esistenza di un consenso, sia pur tacito, ma in ogni caso inequivoco, è punito ...”. 

Una modifica della norma in tal senso comporterebbe, tuttavia, la necessità di un adeguamento dei mezzi a disposizione degli inquirenti, i quali soprattutto a seguito dell’entrata in vigore del cd. Codice rosso7 sono tenuti a svolgere, nei casi di violenza di genere, indagini celeri e complete. Opportuno sarebbe, pertanto, svolgere nel più breve tempo possibile dalla acquisizione della notizia di reato, le indagini sulla dinamica dei fatti, comprensive della valutazione dei segni traumatici e delle dichiarazioni della vittima (ad esempio, nel caso prima citato, il Tribunale della libertà non ha valutato il comportamento della ragazza immediatamente dopo il fatto, colto da un passante, testimone terzo degli effetti di un evento sicuramente traumatico) che escludono ogni consensualità. 

In ultima analisi, ed in via del tutto incidentale, non ci si può esimere dal condividere una riflessione scaturita proprio dalla lettura della sentenza n° 42118/2019. La decisione è originata da un caso emblematico in cui l’imputato non solo è accusato del reato di cui all’ art 609 bis c.p., ma altresì del reato di maltrattamenti di cui all’ art. 572 c.p. Ebbene, vi è una molteplicità di casi in cui episodi di violenza sessuale si verificano in un parallelo e continuato contesto maltrattante. Nell’ambito di un contesto di tal fatta, alla luce del dettato della recente giurisprudenza, il consenso appare irrimediabilmente falsato così come l’eventuale espressione di dissenso sarebbe inevitabilmente ostacolata. Alla luce di tali considerazioni opportuno sarebbe inserire alle due ipotesi già fissate dal secondo comma dell’art. 609 bis una terza, che contemplerebbe il maltrattamento come una delle condizioni di violenza sessuale per induzione. 

Per cui al secondo comma dopo “Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona”; si aggiunge: " 3) abusando della condizione di soggezione causata dal perpetrarsi di condotte maltrattanti". 

Si tratterebbe di una innovazione che, al di la del rapporto di concorrenza tra il reato di violenza sessuale e quello di maltrattamenti di cui la giurisprudenza si è più volte occupata8, eviterebbe l’inserimento dell’episodio di violenza sessuale nel contesto dei maltrattamenti, indicando invece questi ultimi come presupposto del reato di cui al 609 bis. 

1 Sentenza del Tribunale di Bolzano del 1982
2 Dall’ arringa storica dell’avv. Tina Lagostena Bassi –processo per stupro 1979
3 Emessa in data 19.03.2019 e depositata il 15.10.2019
4 L’ art. 609 bis è stato inserito solo nel 1996 nel titolo XII dedicato ai delitti contro la persona con la legge n° 66 che ha abrogato l’art. 519 – Della violenza carnale- con la finalità di tutelare la libertà sessuale non più come attinente alla moralità pubblica e al buon costume, bensì alla persona umana ed alla sua libertà personale. 

5 Cassazione penale Sez. III sentenza n. 22127 dell’ 8 maggio 2017 

6 Sentenza del 29 gennaio 2008 numero 4532

7 “Modifiche al codice penale e codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” entrata in vigore il 9.08.2019
8 Si veda a tal proposito la sentenza n° 40663/2016 


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