-  Gribaudi Maria Nefeli  -  21/02/2014

DECRETO BALDUZZI: IL TEMPO PASSA MA I DUBBI NO - Maria Nefeli GRIBAUDI

 

Il tempo è chiarificatore, si sa, tuttavia pur essendo trascorso più di un anno dall"entrata in vigore del decreto Balduzzi permangono considerevoli dubbi sulla sua effettiva portata: da qualunque fronte lo si guardi, barcollano consolidati principi di diritto.

Sul fronte penale, attendavamo la Corte Costituzionale per conoscere del fondamento di quei profili di illegittimità costituzionale sollevati dal giudice milanese.

Nell"attesa, la speranza di veder riaffermare il principio di tassatività, declinazione del principio di legalità, garanzie di indiscutibile rilievo costituzionale che a mio sommesso avviso vengono seriamente messe alla prova di fronte al tenore dell"art. 3 del decreto Balduzzi laddove depenalizza la condotta dell"esercente la professione sanitaria (e si badi, non solo del medico) che sebbene sia connotata da colpa lieve, sia conforme alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, senza nulla dirci però su cosa debba intendersi per queste. Colpa lieve, linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, grandi concetti che quasi intimidiscono, ma che hanno confini troppo elastici, fumosi, opinabili, tanto che non sappiamo più cosa andavamo cercando.

Se è vero infatti che la dottrina ha offerto in questi anni svariate definizioni di colpa lieve, nessuna di queste viene accolta all"unanimità e tanto meno ha ricevuto l"avallo da parte del legislatore. Lo stesso può dirsi in riferimento alle linee guida ed alle buone pratiche, in merito alle quali mancano indicazioni specifiche in ordine alla loro provenienza ed al loro grado di scientificità che siano tali da soddisfare il principio di tassatività.

Anche il principio di uguaglianza, formale e sostanziale (art. 3 Cost.), risulta assai compromesso laddove si sancisce un trattamento di favore riservato agli esercenti la professione sanitaria senza che vi sia un ragionevole motivo a legittimarlo, e certo a tal fine non sembrano sufficienti le peculiarità della professione sanitaria, né tantomeno il proliferarsi del contenzioso in materia di malpractice medica.

Speranze svanite, almeno per ora, per la manifesta inammissibilità della questione per non aver il giudice a quo compiutamente descritto la fattispecie concreta (C. Cost. 6.12.2013, n. 295).

Sul fronte civile, gli animi si sollevano, ma non prima di aver fugato i timori di veder perduti anni di evoluzioni giurisprudenziali che hanno portato alla consacrazione della natura contrattuale della responsabilità del medico, libero professionista certo, ma anche cd. strutturato, attraverso il grimaldello del "contatto sociale" assurto a fonte dell"obbligazione, con considerevoli ricadute sotto il profilo prescrizionale e dell"onere probatorio, favorevoli per il danneggiato.

Alla prima lettura della novella abbiamo infatti temuto che quella clausola di salvaguardia che per l"appunto fa salvo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. fosse foriera di cambiamenti considerevoli che intendessero ricondurre la responsabilità del medico entro l"alveo della responsabilità aquiliana, così riducendo il termine di prescrizione a cinque anni ed aggravando l"onere probatorio in capo al danneggiato.

La Corte di Cassazione ha tuttavia ben presto fugato ogni dubbio e, al di là del dato letterale, ha affermato che :

" è evidente che la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità aquiliana del medico, ma anche per la cosiddetta responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale" (Cass. 4030 del 19.02.2013).

E noi tutti abbiamo tirato un sospiro di sollievo.

Certo è che le parole hanno un significato. Un significato preciso e tecnico, anche se oggigiorno non si hanno più certezze.

Inoltre, non privo di oscurità è l"ultimo inciso della disposizione in esame in cui si sancisce che "il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo" .

E" vero che l"art. 2236 c.c., in riferimento ai casi che implicano la soluzione di problemi di particolare difficoltà, limita la responsabilità del medico ai soli casi di dolo o colpa grave e, come ha da tempo chiarito la giurisprudenza, sempre che si tratti di imperizia.

Che il grado della colpa che connota la condotta del danneggiante possa influire sulla quantificazione del danno mi pare cosa ben diversa ed un evidente vulnus al principio dell"integrale risarcimento del danno che governa la responsabilità civile la quale, avendo riguardo alla figura del danneggiato, vuole che la liquidazione del pregiudizio dipenda dalla sua effettiva entità.

Tale disposizione impropriamente ricorda quanto stabilito dall"art. 133 del codice penale in forza del quale il grado della colpa rileva ai fini della quantificazione della pena, questa volta però in coerenza con la natura e la ratio della responsabilità penale che, invece, avendo riguardo alla figura del reo, assolve ad una funzione retributiva-rieducativa.

Differenze di non poco conto, che ancora non ci fanno dormire sonni tranquilli.




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