-  Gasparre Annalisa  -  22/10/2013

DETENUTI: NIENTE LUSSO IN CARCERE – Cass. pen. 42605/2013 – A.G.

La Cassazione ha ritenuto che consentire ad alcuni detenuti di indossare abiti e accessori di lusso non rispetta le pari condizioni di trattamento tra i detenuti, specie se a voler utilizzare tale vestiario è un boss sottoposto al regime del 41 bis o.p.

Una circolare ministeriale fa divieto ai detenuti di ricevere o detenere capi di abbigliamento e accessori particolarmente costosi e lussuosi. Contro tale regola si attivava un detenuto sottoposto al regime del 41 bis o.p. che, a seguito di reclamo, otteneva dal Magistrato di Sorveglianza la disapplicazione soggettiva della circolare. Contro tale provvedimento Procuratore della Repubblica e Avvocato Distrettuale dello Stato ricorrevano in Cassazione evidenziando che le limitazioni della circolare ministeriale risiedevano nella ratio di garantire la parità di trattamento tra detenuti.

La Corte riconosce che gli oggetti personali e il vestiario di proprietà personale ammessi in cella devono trovare il loro comune denominatore nel particolare valore morale ed affettivo, un valore economico non consistente e la compatibilità con l'ordinato svolgimento della vita intra muraria.

Osservano i giudici che l'adozione di un vestiario pregiato e lussuoso, specie da parte di taluni detenuti, "sicuramente darebbe origine a contrasti e gravi disarmonie nella popolazione carceraria, nonché sarebbe di intralcio nella scansione esplicativa delle normali attività intramurarie" (alterazione della par condicio in carcere), inoltre richiamerebbe posizioni di predominio "ricalcato proprio dalle organizzazioni malavitose di provenienza".

Annullamento senza rinvio l'esito del giudizio della Corte, la quale definisce "davvero illogico" consentire condizioni di maggiore agio personale, al limite del voluttuario, proprio ai condannati sottoposti al regime di più aspro rigore trattamentale. Dice la Cassazione che "Non può non riconoscersi, invero, che il vestiario che solo un boss può permettersi, che lo ha contraddistinto in libertà, e che un mero affiliato non si sarebbe mai ardito di indossare (per rispettare le ineludibili gerarchie interne), costituirebbe motivo di distinzioni, vassallaggi, ossequi o invidie, e simili gravi turbative, ben pericolose per l'ordine e la sicurezza, quanto meno interne".

 

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 27 settembre – 16 ottobre 2013, n. 42605

Presidente Bardovagni – Relatore Zampetti

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza in data 10.01.2013 il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, accogliendo il reclamo proposto da L.R.G.G. , detenuto sottoposto al regime di cui all'art. 41 bis Ord. Pen., disponeva la disapplicazione nei suoi confronti della circolare ministeriale e dei conseguenti ordini di servizio della Direzione dell'Istituto penitenziario relativi al divieto imposto di ricevere e detenere capi di abbigliamento ed accessori particolarmente costosi e di tipo lussuoso.

Osservava invero il detto Magistrato come la disposizione ministeriale in questione avesse imposto un regime generale eccessivamente restrittivo, non giustificato da reali ragioni di sicurezza, mentre il decreto applicativo del regime ex art. 41 bis Ord. Pen. non conteneva specifiche limitazione a qualità e marca dell'abbigliamento consentito.

2. Avverso tale ordinanza proponevano ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Reggio Emilia e l'Avvocato Distrettuale dello Stato per conto dell'Amministrazione penitenziaria i quali, con atti di analogo contenuto, deducevano violazione di legge argomentando, in sintesi, nei seguenti termini: le limitazioni in discussione, derivanti dalla normativa specifica, sono giustificate da preminenti ed evidenti ragioni di parità di trattamento tra detenuti, non essendo comunque ragionevole consentire a chi sia sottoposto a trattamento più rigoroso di godere di condizioni più favorevoli degli altri detenuti.

Considerato in diritto

1. I ricorsi del Procuratore della Repubblica e dell'Amministrazione penitenziaria, fondati, devono essere accolti.

2. L'ordinanza impugnata deve essere annullata per violazione di legge e comunque per vizio di motivazione.

Rileva invero questa Corte che il vigente ordinamento penitenziario prevede una precisa disciplina relativa al vestiario di detenuti ed internati, distinguendo tra quelli che corrisponde l'Amministrazione e quelli personali di loro proprietà. La disciplina è prevista dall'art. 7 L. 354/75 e dagli artt. 9 e 10 del DPR 230/2000 (regolamento dell'ordinamento penitenziario). Orbene, premesso che è espressamente prevista la - del resto imprescindibile - emanazione di disposizioni ministeriali di attuazione specifica, va rilevato che in ordine a vestiario e corredo di proprietà espressamente sono rimessi al regolamento interno i casi in cui i ristretti possono essere ammessi a fare uso di corredo di loro proprietà e quali sono gli effetti che possono essere usati. In coerenza a tale principio, è parimenti ammesso in via generale il possesso di oggetti personali a condizione che abbiano un particolare valore morale o affettivo, pur che non abbiano - di contro - un consistente valore economico e non siano incompatibili con l'ordinato svolgimento della vita dell'istituto. È del tutto evidente che tale rigorosa disciplina prevista per gli oggetti personali non può non essere ritenuta pertinente anche al vestiario di proprietà personale, che dunque, per poter essere ammesso, deve essere giustificato da ragioni di particolare valore morale ed affettivo, non deve essere di consistente valore economico e non deve essere incompatibile con l'ordinato svolgimento della vita nell'istituto. Sotto tale ultimo profilo non può non rilevarsi che l'adozione, da parte di alcuni detenuti, di un vestiario particolarmente pregiato ed anche francamente lussuoso, adatto ad altri ambienti e scenari, sicuramente darebbe origine a contrasti e gravi disarmonie nella popolazione carceraria, nonché sarebbe di intralcio (si pensi solo alla necessità di plurimi cambi d'abito nella stessa giornata) nella scansione esplicativa delle normali attività intramurarie. È del tutto corretta, poi, e va condivisa, l'osservazione critica dei ricorrenti che hanno rilevato come l'adozione di vestiario lussuoso - che sarebbe possibile solo da parte dei detenuti particolarmente facoltosi - non solo altererebbe la tendenziale par condicio che deve presiedere alla condizione carceraria, che non può sopportare ingiustificate distinzioni nell'esecuzione della pena, ma finirebbe anche per riproporre ed esaltare in ambito carcerario posizioni di predominio, anche in un ben differenziato aspetto esteriore, ricalcato proprio dalle organizzazioni malavitose di provenienza, il che è davvero inammissibile. Non può non riconoscersi, invero, che il vestiario che solo un boss può permettersi, che lo ha contraddistinto in libertà, e che un mero affiliato non si sarebbe mai ardito di indossare (per rispettare le ineludibili gerarchie interne), costituirebbe motivo di distinzioni, vassallaggi, ossequi o invidie, e simili gravi turbative, ben pericolose per l'ordine e la sicurezza, quanto meno interne. Queste considerazioni di carattere generale, in quanto discendenti dalla legge e dal relativo regolamento, superano -di natura loro - l'errata riflessione del giudice a quo limitate al decreto ministeriale impositivo della disciplina ex art. 41 bis Ord. Pen., atto particolare, profilo sul quale peraltro non può non concordarsi con il rilievo critico dei ricorrenti secondo cui è davvero illogico - e qui si inserisce il vizio motivazionale dell'impugnata ordinanza - consentire condizioni di maggiore agio personale, al limite - od oltre il limite - del voluttuario, a condannati sottoposti a regime di più aspro rigore trattamentale.

Per conseguenza risulta evidente che è stata illegittima - e va annullata - la disapplicazione della circolare ministeriale e dei conseguenti atti interni disposta dal Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia.

3. In definitiva l'ordinanza impugnata deve essere annullata per il preminente vizio di violazione di legge. L'annullamento deve essere pronunciato senza rinvio, ex art. 620 cod. proc. pen., non essendo necessario nuovo esame del reclamo del L.R. che rimane soccombente già in base alla presente pronuncia, attesa la contrarietà a legge del provvedimento qui annullato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata.




Autore

immagine A3M

Visite, contatti P&D

Nel mese di Marzo 2022, Persona&Danno ha servito oltre 214.000 pagine.

Libri

Convegni

Video & Film