-  Redazione P&D  -  05/09/2012

DIRITTO A QUALE ALIMENTAZIONE? - Carlo PRISCO

DIRITTO A QUALE ALIMENTAZIONE?

Negli ultimi secoli si è sviluppata nei paesi occidentali una corrente culturale e giuridica sempre più attenta nell'affermare e tutelare quelli che sono stati definiti i "diritti umani" o "diritti fondamentali", che erano stati tradizionalmente limitati o interdetti dall'esercizio di poteri dittatoriali o comunque assoluti. Dalla rivoluzione francese in poi si è affermata la necessità di riconoscere uguaglianza e libertà a ciascun individuo, lottando contro le monarchie e cercando di rimuovere gli ostacoli sociali ed economici che ciò non consentivano.

Nel XX secolo le problematiche di convivenza sociale sono radicalmente mutate, così come i rapporti economici tra individui e tra stati; inoltre la popolazione mondiale è aumentata come mai prima di allora e, sebbene formalmente – almeno nei paesi occidentali – la schiavitù e la dittatura siano state la tempo superate, gli ostacoli alla libertà e all'uguaglianza sono tutt'altro che scomparsi: semmai sono diventati sempre più occulti e, quindi, difficili da riconoscere e da combattere.

Con l'avvento di sistemi economici e produttivi su scala mondiale e con l'imposizione dell'economia quale sommo potere si sono determinate sperequazioni tra ricchi e poveri all'interno dei singoli stati e tra nazioni.

L'industria alimentare oggi rappresenta un business planetario che, sorprendentemente, pur riguardando la totalità degli abitanti della Terra, è controllato da un numero minimo di operatori, che sono a monte delle filiere e ne ricevono i reali profitti, mentre gli esecutori materiali (contadini, operai, tecnici) sono spesso semplici dipendenti o addirittura schiavi[1].

Ma quello che una volta era uno sfruttamento unidirezionale, oggi funziona sia dal lato della produzione che da quello del consumo e, infatti, anche gli acquirenti dei generi alimentari (e, comunque, in quanto contribuenti) rappresentano un'opportunità di arricchimento che viene sfruttata con le stesse finalità di cui sopra, ma attraverso modalità differenti.

Fra i diritti fondamentali che sono stati riconosciuti a tutti gli esseri umani c'è quello all'alimentazione, eppure il sistema nel quale viviamo poggia su una eccezionale contraddizione: da un lato, infatti, si afferma che tutti – ricchi, poveri, europei, africani, bianchi, neri, etc. – hanno diritto di accedere alle risorse alimentari e, dall'altro lato, si finanziano e avallano forme di alimentazione che non possono garantire alcuna uniformità di trattamento, poiché per funzionare presuppongono proprio la persistenza delle sperequazioni.

E' certo che l'alimentazione a base di carne non può essere adottata da tutto il mondo, poiché – se così fosse – le terre emerse del nostro pianeta non sarebbero sufficienti per allevamenti e coltivazione dei mangimi: ne occorrerebbero il doppio o il triplo![2]

Insomma, il "diritto" degli occidentali di alimentarsi si scontra con quello di tutto il resto del mondo, con una differenza: i cibi di origine animale non sono necessari e, anzi, non sono nemmeno salutari!

A ben vedere, fuori dei luoghi comuni e delle (op)pressioni pubblicitarie, proprio l'uso di alimenti animali determina o aggrava un numero elevatissimo delle principali patologie occidentali: dal tumore alle malattie cardiovascolari, dall'obesità alle disfunzioni ormonali, etc.[3]

Ecco dunque che, mentre sottoscriviamo petizioni, organizziamo manifestazioni ed esterniamo sdegno e rammarico per la morte per inedia di milioni di persone o per la miseria in cui vivono, quotidianamente alimentiamo il circolo vizioso che determina, agevola e perpetua questo stato di cose, riempiendo i nostri carrelli di prodotti animali.

E' necessaria una quantità di risorse (suolo, mangimi, acqua, etc.) eccezionale per allevare i 60 miliardi di animali terrestri che ogni anno vengono uccisi per la produzione di carne, senza contare tutti quelli sfruttati per produrre uova e latte o sottoprodotti che dovrebbe ripugnare perfino nominare, quali la bile degli orsi o il fegato delle oche/anatre.

In primo luogo occorre abbattere le foreste per fare spazio ad allevamenti e coltivazioni di mangimi e, non a caso, già nel 1981 si era parlato di "Hamburger Connection" per indicare la correlazione tra il consumo di carne e la deforestazione[4].

Per produrre 1 kg di carne di manzo occorrono circa 16 kg di vegetali, oltre 50.000 litri d'acqua e si immettono nell'atmosfera oltre 28 kg di CO2[5]: ciò non è compatibile con la sopravvivenza sulla Terra di tutti gli esseri umani, né tantomeno delle forme di vita vegetali, animali e dell'ecosistema nel suo insieme.

I fautori dei prodotti "biologici", che spesso si sentono moralmente estranei allo sfruttamento di animali ed ecosistema determinati dagli allevamenti intensivi, promuovono al contrario un sistema che richiede una quantità tale di occupazione di suolo che renderebbe impossibile sfamare con prodotti di origine animale perfino un'umanità di pochi milioni di abitanti, figurarsi l'intera popolazione mondiale (in crescita)!

Se quanto sopra rappresenta le forme di sfruttamento che sono a monte del sistema di produzione di cibi animali, spesso si tace tutto ciò che sta a valle e che, invece, riguarda i consumatori dei paesi "ricchi": questi ultimi infatti, benchè già danneggiati dalla sottrazione di risorse collettive, dalla contaminazione di aria e acqua e dall'impoverimento dell'ecosistema e dei paesaggi, ne sono in definitiva i reali motori, la cui inconsapevolezza o debolezza rappresenta il bene supremo per tutti coloro che intendano trarne vantaggio.

Prima di tutto: com'è possibile che 1 kg di carne possa costare meno di 1 kg di vegetali, o 1 litro di latte bovino meno di 1 litro di latte di soia?

Si è visto sommariamente che il rapporto produttivo bistecca/vegetali si aggira su 1 a 15 (1 kg di carne = 15 kg di vegetali) e ciò senza contare l'uso di acqua, che può giungere fino a 1 a 50 o 1 a 100: c'è poi un consumo di energia che non è neppure paragonabile, tra il coltivare, raccogliere e trasportare i vegetali e, invece, l'allevare, il macellare, il conservare, il trasportare, lo smaltire le carcasse e il confezionare prodotti animali. Basti pensare che qualsiasi costo economico/ambientale connesso con la produzione di vegetali si riversa automaticamente, moltiplicato per n volte, nella carne: a ciò si devono poi aggiungere tutti i costi ulteriori già menzionati.

La risposta è tristemente ovvia: sono le tasse versate da ognuno di noi (compresi i vegetariani!) a rendere possibile la vendita di prodotti animali a prezzi non soltanto concorrenziali, ma perfino inferiori rispetto a quelli dei vegetali: la PAC (Politica Agricola Comune dell'Unione Europea), per esempio, destina oltre il 60% dei fondi all'allevamento[6] e a questo si sommano le più disparate agevolazioni, come per esempio l'iva ridotta al 4% di cui beneficia il latte vaccino, mentre su quello vegetale grava intera al 21% (oggi).

Ma come è possibile mantenere questo stato di cose? Innanzi tutto è fondamentale che certe informazioni siano pubblicizzate il meno possibile e che gli elettori non siano al corrente delle scelte dei loro politici (e tantomeno delle ragioni di tali scelte); è poi fondamentale diffondere e avallare la persuasione che il consumo di cibi animali sia necessario: in questo modo tutte le istanze morali dei consumatori possono essere superate.

Per questi motivi assistiamo continuamente alla diffusione di informazioni tese a dimostrare che gli omogeneizzati a base di carne sono indispensabili, le merendine per bambini a base di latte e uova sono l'ideale per la crescita, i formaggi, le carni e tutto il resto per gli adulti essenziali per vivere in salute, etc. Eppure basta scavare un attimo sotto la superficie di tali affermazioni, per scoprire che esiste mezzo mondo di vegetariani (vuoi per motivi religiosi e culturali, vuoi per povertà, vuoi per motivi etici o di salute) e che sono individui in ottima salute: soltanto in occidente, per esempio, sono quelli meno soggetti alle gravi patologie che affliggono sempre di più la società.

Ed è proprio confrontandosi con tali dati di fatto, cui si accompagnano i numerosissimi studi che testimoniano i benefici della dieta a base di vegetali, che sorge spontanea un'altra riflessione: fra i diritti fondamentali non c'è anche quello alla salute?

Un secondo paradosso giuridico: da un lato si promuove il diritto alla salute di ciascuno e, dall'altro, si emanano leggi per sovvenzionare e rendere possibile il consumo di cibi che sono riconosciuti per essere la causa di numerose patologie, mentre – per effetto – si rendono meno convenienti, fino a risultare addirittura più costosi, quei prodotti che favoriscono la salute umana.

Insomma, per fare un paragone concreto: una bistecca di seitan[7], che ha un apporto proteico pari o superiore a quello della carne, costa da 1 a 3 volte il prezzo di una bistecca animale, il che – in un sistema economico puro (non falsato da interventi esterni) – non potrebbe trovare alcuna giustificazione, considerato che il seitan è ricavato direttamente dal frumento.

Molti, vedendo hamburger in vendita a 1 euro nei fast food, pensano che il motivo di questi prezzi dipenda dalla scarsa qualità degli ingredienti: neppure se tali cibi fossero riciclati potrebbero essere venduti a simili prezzi se non godessero, a monte, di entrate tali da consentire simili ribassi.

Il trattato di Lisbona ha riconosciuto la natura senziente degli animali non umani e, coerentemente, numerose leggi, in tutti i paesi occidentali, sanciscono il divieto di provocare loro sofferenza o morte, salvo che ciò sia necessario.

A questo punto, dopo aver visto che la dieta carnivora/onnivora non soltanto non è necessaria, ma è addirittura responsabile di un gran numero di patologie umane, occorre porsi un'altra domanda: cosa renderebbe legittimo uccidere a scopo alimentare?

Spesso si domanda per quale motivo gli animali non umani dovrebbero godere di diritti, ma non ci si chiede mai il contrario: per quale motivo essi non dovrebbero goderne? Per le loro differenti facoltà intellettive? Per la loro differente postura? Per la diversità del linguaggio? Forse che, dunque, un essere umano con minorazioni psichiche congenite potrebbe essere ucciso impunemente? O ammetteremmo forse di uccidere qualcuno costretto su una sedia a rotelle? E, ancora, sarebbe concepibile l'uccisione di qualcuno privo della voce? Se, poi, parlassimo di forza fisica, allora l'equazione sarebbe invertita e l'uomo dovrebbe soccombere e dismettere ogni pretesa dinanzi alla superiorità lapalissiana degli altri animali: quale, fra i civilizzati cittadini occidentali, accetterebbe di essere depredato e ucciso da un suo simile più forte, o più astuto, o più entrambe le cose?

E se domani una specie aliena invadesse la Terra e, preso atto dei danni che l'umanità sta causando, ritenesse opportuno sterminarla, quale argomento adotterebbero i fautori della supremazia umana per difendersi da questa rivendicazione? Resterebbe, forse, soltanto quell'effimero ideale di appartenenza al luogo, per sostenere le proprie ragioni: peccato, però, che né il fatto di essere venuti a esistenza prima dell'uomo, né quello di essersi stanziati per primi in alcun posto abbia mai permesso ad alcun animale non umano di essere risparmiato dall'avanzata della "civilizzazione".

Ma nella mente del giurista, depurata di qualsiasi pregiudizio, non possono che esistere due alternative: o l'uomo è inventore e creatore del diritto e di ogni diritto, oppure questi si limita (perlomeno in alcuni casi) a riconoscere ciò che preesiste e codificarlo. Nel primo caso va da sé che l'attività di produzione normativa sarebbe un mero arbitrio e non potrebbe esistere nessun diritto fondamentale inalienabile, poiché, appunto, sarebbero i consociati a decidere di volta in volta, di epoca in epoca, cosa meriti tutela e cosa no; nel secondo caso, l'unica differenza tra i diritti degli umani e dei non umani consisterebbe nella possibilità dei primi di formalizzare ciò che, invece, i secondi si limitano a vivere e praticare.

In conclusione, se esistono i diritti fondamentali degli uomini, così come se esistono i diritti degli animali, allora non può esistere nessun diritto di cibarsi di carne o di sfruttare gli altri (animali umani e non) per appagare il proprio palato.

[1] Bales, Kevin, New Slavery in the Global Economy, University of California Press, 1999, USA.

[2] Modenesi, Tamino, Verga, Biotecnocrazia: informazione scientifica, agricoltura, decisione politica, Edizione Jaca Book, Milano, 2007, pag. 124.

[3] De Meester F., Zibadi S., Ross Watson R., Modern Dietary Fat Intakes in Disease Promotion, Humana Press, 2010, Usa.

[4] Myers, Norman, The hamburger connection: how Central America's forests became North America's hamburgers, articolo pubblicato nella rivista Ambio, vol. 10, n. 1, 1981, Royal Swedish Academy of Sciences, pagg. 2-8.

[5] Rapporto LAV, I costi reali del ciclo di produzione della carne, 2012, pag. 7, http://www.lav.it/uploads/84/4240 4_dossier_LAV_ Costi_della_carne_vers.bassa_.pdf

[6] Burley, Helen, What feeds our food?, Friends of the Earth, London, UK, 2008, pag. 26.

[7] http://it.wikipedia.org/wiki/Seitan




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