-  Peron Sabrina  -  27/05/2016

Diritto di cronaca, oblio e risarcimento del danno - T. Torino 2292/2016 – S. PERON

 

Il Tribunale di Torino in questa recente sentenza che si pubblica è stato chiamato a valutare la lamentata portata diffamatoria di tre articoli di cronaca pubblicati da un noto quotidiano nazionale nel 2003 e che a distanza di oltre un decennio era ancora facilmente reperibili on-line.

Il Giudice torinese è pervenuto ad un giudizio di diffamatorietà degli articoli (con conseguente condanna dell"editore convenuto) facendo applicazione dei noti parametri di: interesse pubblico, verità e continenza.

Quanto al primo parametro, il tribunale ha ricordato che l"interesse pubblico alla conoscenza e alla divulgazione della notizia implica la «necessità per la collettività di avere notizia in ordine, tra l"altro, a temi relativi alla politica, all"economia, oltre che alle scienze, ai fenomeni criminali e alla giustizia e, cioè, a tutte quelle situazioni che possono influire sulla corretta informazione della pubblica opinione». Conseguentemente, la sentenza osserva come a tale concetto siano «estranee quelle notizie distolte dal fine nobile della formazione della pubblica opinione e volte, al contrario, a soddisfare, attraverso la violazione della sfera morale dei singoli la curiosità del pubblico anche col il riferire fatti costituenti chiaro pettegolezzo e offese e, in ogni caso, inutili in quanto non pertinenti alla notizia». Con l"ulteriore precisazione che il diritto di cronaca può essere «tanto più penetrante quanto più elevata sia la posizione pubblica della persona nelle istituzioni, nel mondo politico, in quello economico o scientifico, nella collettività per il riflesso che le sue condotte anche private possono assumere sulla dimensione pubblica», tuttavia, non può sicuramente essere la «semplice curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione si notizie sulla ita piva altrui perché è necessario che tali notizie rivestano oggettivamente interesse per la collettività».

Quanto al parametro della verità della notizia, il Tribunale partendo dal noto principio della necessità di una correlazione tra i fatti accaduti ed i fatti narrati, con il conseguente dovere del giornalista di sottoporre la notizia ad una rigorosa verifica delle fonti dai quali i fatti sono stati attinti, fonti anche tra loro contrapposte; ha ritenuto scusabile l"errore del giornalista solo nel caso in cui questi dimostri: a) di aver posto ogni più oculata diligenza e accortezza nella scelta delle fonti; b) di aver esplicato ogni più attento vaglio in ordine alla loro attendibilità; c) di aver operato goni più attento esame e controllo sulla rispondenza al vero della notizia.

Nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto la diffamatorietà delle notizie nella parte in cui informavano scorrettamente i lettori del fallimento personale del patron e legale rappresentante di una società e non invece della società stessa, facendo quindi credere che fosse fallita la persona fisica. In particolare, il giudice di prime cure ha osservato che si trattava di articoli destinati ad un pubblico di lettori medi  (e non di specialisti del diritto che avrebbero potuto facilmente cogliere l"impossibilità del fallimento di una persona fisica) «presumibilmente non avvezzi a discettare» in materia di fallimenti, i quali - anche per effetto dei titoli utilizzati - ben potevano essere indotti a credere che l"attore personalmente avesse «causato la rovina dell"azienda» e, di conseguenza, fosse stato «dichiarato fallito egli stesso come persona fisica, non riuscendo più a far fronte ai (propri) debiti».

Quanto infine al criterio della continenza della forma espositiva, il tribunale ha rinvenuto nei pezzi sottoposti al suo esame alcuni passaggi suggestivi e comunque eccessivi rispetto al contenuto alla notizia.

A quanto sopra si è aggiunto la circostanza che «la permanenza on-line e sul web per anni degli articoli oggetto di causa, lungi dall"affievolire l"interesse alla tutela risarcitoria, lo integra e gli fornisce consistenza ulteriore, in quanto confligge con il diritto soggettivo c.d. all"oblio, cioè ad essere dimenticato dalla collettività, quando la duratura permanenza ed indifferenziata accessibilità alla notizia (caratteristiche tipiche di tutto ciò che è reperibile su Internet, senza limiti di spazio e senza limiti di tempo) non sia più giustificata da oggettive ragioni di pubblico interesse alla sua persistenza della notizia ed anzi (…) quando la sempre attuale persistenza di notizie e dati appartenenti a periodi passati risulti distonica rispetto all"evoluzione delle vicende personali e professionali di chi ne è oggetto, finendo quindi i dati in questione per risultare incompleti ed affatto aggiornati e contestualizzati rispetto all"attualità».

Anche su questo punto il Tribunale di Torino ha fatto corretta applicazione dei principi sino ad oggi elaborati in materia di diritto all"oblio.

Il diritto all"oblio è, difatti, da intendersi quale diritto dell"individuo ad essere dimenticato ed è un diritto a tutela del riserbo imposto dal tempo ad una notizia già resa di dominio pubblico: «la rievocazione di vicende personali ormai dimenticate dal pubblico trova giustificazione nel diritto di cronaca soltanto se siano recentemente accaduti fatti che trovino diretto collegamento con quelle vicende, rinnovandone l"attualità» (Cass. 16111/2013, in FI, 2013, I, 2442).  Una volta venuto meno l"interesse alla conoscenza del fatto, il diritto alla riservatezza - che tutela il soggetto dalla curiosità pubblica (e in ciò distinguendosi dal diritto al segreto, il quale protegge dalla curiosità privata - Cass. 5525/2012, in FI, 2013, I, 305) - e la tutela dell"onore e della reputazione di un soggetto si riespandono sino ai loro fisiologici confini.

Si noti peraltro come il diritto all"oblio, tuteli anche un ulteriore aspetto: ossia «l"esigenza del soggetto di essere tutelato dalla divulgazione di informazioni (potenzialmente) lesive in ragione della perdita (stante il lasso di tempo intercorso dall"accadimento del fatto che costituisce l"oggetto) di attualità delle stesse, sicché il relativo trattamento viene a risultare non più giustificato ed anzi suscettibile di ostacolare il soggetto nell"esplicazione e nel godimento della propria personalità» (Cass. 5525/2012, cit.). Il connotato essenziale del diritto all"oblio è dunque legato al fattore tempo, ne segue che il «trascorrere del tempo e il ruolo ricoperto nella vita pubblica dall'interessato sono presupposti imprescindibili di giudizio. Nell'ottica del bilanciamento tra i diritti di pari rango, appurato il non apprezzabile lasso di tempo trascorso e il carattere di persona pubblica rivestito dal ricorrente, l'interesse pubblico a essere informati deve prevalere sul diritto all'oblio» (T. Roma, 03.12.2015, in Ius Explorer Giuffrè). Recentemente la Corte di Giustizia (con una decisione che ha suscitato scalpore) non solo ha riconosciuto il diritto dell"interessato a richiedere la cancellazione dei propri dati personali che si trovavano nella titolarità di Google, ma – per la prima volta - ha sancito il principio che le richieste di cancellazione possono essere avanzate anche direttamente al gestore del motore di ricerca, ancorché le relative informazioni siano state originariamente pubblicate su altri siti e successivamente indicizzate da Google (C. Giustizia, 131/2014 n. 131, in RCP, 2014, 1177). Secondo la Corte, difatti, l"attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su internet, nell"indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come trattamento di dati personali», qualora tali informazioni contengano dati personali, mentre il gestore del «motore di ricerca deve essere considerato come il responsabile del trattamento». Ne segue che  il «gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall"elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita».

Quanto infine ai danni, a chi scrive desta qualche perplessità quanto statuito dal Tribunale – richiamandosi a Cass. 23314/2007 - ossia che «una volta accertatala lesività della pubblicazione e la sua potenziale attitudine diffamatoria (non la responsabilità ma) il danno non patrimoniale è in re ipsa». Difatti a partire dalle note SSUU 25972/2008, anche in tema di diffamazione l"orientamento giurisprudenziale è quello di ritenere che il danno non patrimoniale, non possa «mai essere considerato sussistente in re ipsa, incombendo sul richiedente l'onere di dedurre e provare gli elementi che attestino la effettiva esistenza di un pregiudizio, anche soltanto di natura non patrimoniale» (così da ultimo Cass., 16055/2015, in Ius Explorer).  Difatti, orientamento consolidato ritiene che il «danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel caso di lesione al diritto alla reputazione, non è in re ipsa, ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento» (Cass., 12225/2015, in Ius Explorer).

 Con riferimento invece ai criteri per addivenire ad una liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, il Tribunale è pervenuto a quantificarlo in complessivi € 70.000,00, facendo ricorso ai seguenti parametri: a) ruolo e immagine professionale del danneggiato in riferimento al contesto in cui vive. Nel caso di specie il tribunale ha osservato che si trattava di un "noto imprenditore, molto conosciuto (…) ed impegnato anche in nuove iniziative imprenditoriali"; b) diffusione del quotidiano a livello nazionale e la sua indiscussa autorevolezza; c) la circostanza che gli articoli sono stati reperibili e consultabili on-line per un decennio, nonostante le diffide inviate dall"attore.




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