-  Mazzon Riccardo  -  08/10/2012

DISCIPLINA DELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE IN AMBITO CIVILE - PRIMA PARTE - - Riccardo MAZZON

Quanto ai principi generali disciplinanti le cause di giustificazione, il codice civile non ne menziona alcuno.

Ciononostante, l"interprete (civilista) non potrà non chiedersi, pena un applicazione scorretta e parziale della disciplina in esame:

  • quale sia la matrice della teoretica dell"antigiuridicità obiettiva (teoria tripartita);
  • quali siano le categorie, affini alle c.d. scriminanti, suscettibili di eventualmente confondersi con esse;
  • quale sia la ratio sottesa alle cause di giustificazione;
  • soprattutto, quali siano i principi generali sottesi all"applicazione pratica dell"istituto: rilevanza oggettiva, putatività, errore/dolo.

Soccorre, a questo punto, il più volte notato parallelismo illecito civile/illecito penale, il quale consente (e, probabilmente, impone) di rinviare a quanto di seguito si dirà, con principi, pur attinti dalla dottrina penalistica, certamente validi ed utilizzabili anche in ambito civile - cfr. amplius, da ultimo, "Responsabilita' oggettiva e semioggettiva", Riccardo Mazzon, Utet, Torino 2012.

Si definiscono cause di giustificazione quelle speciali situazioni nelle quali un fatto, che di regola è vietato dalla legge, non costituisce illecito per l"esistenza di una norma che lo autorizza o lo impone: pertanto il fatto, in tali condizioni, diviene giuridicamente lecito nonostante la sua conformità alla figura astratta di un illecito.

Né il codice penale, né tantomeno il codice civile, utilizzano mai la locuzione "cause di giustificazione": il legislatore si limita semplicemente a parlare di "fatti non punibili" se commessi in una data situazione (vedi ad es. artt. 50, 51, 52, 53, 54 c.p.), di circostanze "che escludono la pena" (vedi art. 59, 1° comma, c.p.), di "circostanze oggettive che escludono la pena" (vedi art. 119, 2°comma, c.p.), di "non responsabilità" (art. 2044 c.c.) o "indennità" sostitutiva del risarcimento (art. 2045 c.c.).

All"interprete spetta pertanto un compito delicato, ossia individuare quali, tra le numerose ipotesi previste dalla legge, siano da ricondurre nell"ambito delle cause di giustificazione, altresì dette "fattispecie scriminanti", e quali invece ricadano sotto l"egida di altri istituti giuridici (dal momento che la legge prevede, ad esempio, l"esclusione della punibilità di un soggetto anche in molte altre situazioni che nulla hanno a che vedere con la ratio delle cause di giustificazione: basti pensare, in ambito penale, all"ipotesi del difetto di imputabilità (art. 85, 1° comma, c.p.), all"errore sul fatto (art. 47 c.p.)…etc..

E" doveroso, inoltre, chiedersi quale collocazione trovino le cd. cause di giustificazione all"interno della struttura dell"illecito: non v"è risposta univoca a tale quesito, tutto dipendendo dal tipo di teoria alla quale si intende aderire.

E" la dottrina penalistica ad aver affrontato in modo compiuto il problema, nei termini che seguono, due essendo le principali teorie formulate dalla dottrina, in merito alla sistemazione razionale degli elementi del reato: la teoria tripartita e la teoria bipartita.

Secondo i seguaci di tale teoria (tra i quali Mantovani, Fiandaca-Musco, Padovani), tre sono gli elementi essenziali del reato: il fatto (elemento materiale), la colpevolezza (elemento psicologico) e l"antigiuridicità, la quale viene desunta dalla conformità del fatto concreto al modello astratto di reato configurato dal legislatore e dalla mancanza di cause di giustificazione.

Tale dottrina consente una razionale sistemazione degli aspetti del reato sicché la si trova, seppur incidentalmente, efficacemente utilizzata dalla giurisprudenza:

"l'imputato che deduca una determinata situazione di fatto a sostegno dell'applicazione di un'esimente, reale o putativa, deve provarne la sussistenza, non essendo sufficiente una mera asserzione sfornita di qualsiasi sussidio probatorio. Invero, posto che le cause di giustificazione si configurano come elementi negativi di un reato perfetto in tutti i suoi aspetti (tipicità, antigiuridicità e colpevolezza), in tanto esse possono operare in quanto siano effettivamente sussistenti in tutti gli estremi di fatto e di diritto. Pertanto, nel caso di esimente putativa debbono risultare provate le circostanze di fatto sulle quali l'imputato fonda l'errore in cui afferma di essere incorso" (Cass. Pen., sez. I, 30 marzo 1978, Fiore, RP, 1979, 64; GP, 1979, III, 328).

Secondo i seguaci di tale teoria, in primis Antolisei, il reato si scompone semplicemente in elemento oggettivo (fatto materiale –comportamento esteriore dell"uomo-) ed elemento soggettivo (elemento psichico –atteggiamento della volontà-).

Da quanto esposto discende che:

  • se si aderisce alla teoria tripartita le cause di giustificazione, sulla base di quanto appena evidenziato, trovano autonoma collocazione all"interno dell"elemento della antigiuridicità;
  • aderendo, al contrario, alle teorie che accolgono il sistema bipartito, vi è senz"altro da notare come l"argomento "cause di giustificazione" perda la propria autonomia, per essere conglobato all"interno dell"elemento oggettivo del reato.

La preferenza espressa dai più per il cd. sistema tripartito si giustifica senz"altro, pragmaticamente, con la possibilità che la teoria in oggetto dà all"interprete di localizzare in modo compiuto la cause di giustificazione e di diffusamente soffermarsi su regole e principi comuni all"antigiuridicità.

Simpatica l"affermazione di Padovani, a supporto della preferenza accordata alla teoria tripartita, affermazione che si riporta integralmente, per la sua capacità comunicativa:

"questa concezione (n.d.r. quella bipartita) non può essere seguita: come si vedrà in sede di analisi dell"antigiuridicità obiettiva, essa si risolve in una profonda alterazione dei piani di rilevanza, confondendo fenomeni sostanzialmente eterogenei; il fatto atipico per il difetto di un elemento positivo è essenzialmente un fatto inoffensivo; il fatto realizzato in presenza di una causa di giustificazione è un atto pur sempre lesivo di un interesse, ma lecito in forza di una particolare valutazione espressa sulla sua realizzazione. Livellarli su un medesimo piano sarebbe come equiparare l"uccisione di una mosca (atipica per il difetto di requisiti positivi) all"uccisione di un uomo in istato di difesa legittima (che risulterebbe parimenti atipica per le presenza di un requisito positivo)" (Padovani 2008).

Le cause di giustificazione, specie in ambito penale, potrebbero confondersi con le (similari) figure delle c.d. cause di esclusione della colpevolezza e delle c.d. cause di esenzione da pena.

Le cause di giustificazione sono cause oggettive di esclusione dell"illecito in quanto rendono, ab origine, lecito un fatto che normalmente costituirebbe illecito, impedendo l"applicazione di qualsiasi tipo di sanzione (penale, civile, amministrativa).

Tali cause operano in virtù della loro obiettiva esistenza, indipendentemente dal fatto di essere state conosciute o meno, risultando pertanto applicabili non solo all"agente ma anche a tutti i soggetti che hanno eventualmente partecipato alla commissione del fatto.

Ciononostante, secondo la Suprema Corte Penale, la loro portata scriminante generale in ambito penale potrebbe lasciar sussistere residue antigiuridicità in diversi settori dell"ordinamento giuridico:

"i beni giuridici offesi dal delitto di diffamazione a mezzo stampa (nella specie: nota a provvedimento giurisdizionale), riguardante la reputazione di altra persona querelante (nella specie: altro magistrato), e dall'illecito disciplinare per violazione di norme deontologiche ravvisabili nello stesso episodio di vita (prestigio dell'ordine giudiziario per un comportamento "non ortodosso" di uno dei suoi appartenenti), hanno contorni fattuali e giuridici non coincidenti e, pertanto, la sentenza del giudice dell'udienza preliminare che ha prosciolto il magistrato in sede penale per la ravvisata esistenza di una causa di non punibilità (nella specie: ex art. 51 c.p.) non vincola il giudice disciplinare. (Nell'enunciare il principio, la Corte ha anche motivato richiamando l'opinione dottrinale secondo la quale le cause di non punibilità previste dal codice penale, pur dotate di generalizzata portata scriminante nell'ambito del diritto penale, potrebbero lasciar sussistere una residua antigiuridicità del fatto materiale in relazione ad altri rami dell'ordinamento giuridico, come quello civile, amministrativo o disciplinare)" (Cass. Civ., sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19659, GCM, 2003, 12).

Pur lasciando sussistere l"illiceità del fatto, le cause di esclusione della colpevolezza escludono che possa muoversi un rimprovero personale al suo autore per la commissione del fatto, in quanto trattasi di circostanze psicologicamente coartanti, che rendono difficile richiedere al soggetto un comportamento conforme al diritto.

Poiché sono circostanze che attengono all"elemento soggettivo, ne consegue la loro applicabilità in quanto e se conosciute dall"agente, escludendo qualsiasi estensibilità ad altri eventuali concorrenti.

"il principio di colpevolezza implica che la persona è penalmente responsabile solo per azioni da lei controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze parzialmente vietate e comunque mai per comportamenti realizzati nella inevitabile ignoranza del precetto" (Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, FA, 89, 3).

Così, ad esempio, la causa di non punibilità prevista dall"art. 384 c.p. (necessità di salvare da grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell"onore) è fondata, per taluni, sul principio dell"inesigibilità che esclude la colpevolezza:

"la causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p. postula come condizione che ne costituisce anche la ragione giustificatrice lo stato di necessità, ossia una situazione di pericolo non determinata dal soggetto attivo. Essa, inoltre, è basata sul principio della inesigibilità di un comportamento diverso, come tale escludente la colpevolezza, a differenza dell'esimente di cui all'art. 54 c.p. avente natura di causa oggettiva di esclusione della antigiuridicità. Invero, non agisce per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se stesso colui che compie un atto superfluo e non producente ai fini dell'autofavoreggiamento, per la libertà scelta di aiutare altri ad eludere le investigazioni dell'autorità" (Cass. Pen., sez. I, 3 luglio 1980, CP, 1982, 463; GP, 1981, II, 343).

 Le cause di esenzione da pena sono circostanze esterne al fatto umano che lasciano integre tanto l"antigiuridicità quanto la colpevolezza (pertanto ci troviamo di fronte ad un fatto tipico, antigiuridico e colpevole), ma che escludono la punibilità a seguito di valutazioni attinenti alla necessità, nonché alla meritevolezza, della pena (per esempio, il legislatore ritiene che non si debba applicare la sanzione penale, per ragioni di mera opportunità, quando prevede determinate ipotesi di immunità), non potendo di conseguenza venir estese ad eventuali concorrenti nel reato.

Ne consegue, per costante giurisprudenza, l"inapplicabilità alle stesse dei principi generali valevoli per le cause di giustificazione, primo fra tutti il principio di putatività e ciò nonostante qualche isolata pronuncia di merito di contrario avviso:

"circostanze di esclusione della pena ai sensi dell'art. 59 c.p. sono le situazioni di non punibilità disciplinate dalla legge, preesistenti o concomitanti al fatto descritto dal modello legale di reato, che rilevano quando questo sia stato compiutamente realizzato e che non riguardano la capacità di diritto penale (c.d. cause di giustificazione, o di liceità, o di esclusione della punibilità), nonché quelle altre situazioni di non punibilità, successive al fatto descritto nel modello legale di reato, al di fuori delle cause estintive del reato (c.d. cause di esenzione dalla pena)" (Trib. Napoli 1 aprile 1976, GM, 1979, 697).

Per spiegare il fondamento sostanziale delle cause di giustificazione, la dottrina adotta un modello esplicativo ora di tipo monistico ora di tipo pluralistico.

Secondo il modello monistico, tutte le scriminanti andrebbero ricondotte ad uno stesso principio: principio ravvisato, di volta in volta, nel criterio del "mezzo adeguato per il raggiungimento di uno scopo approvato dall"ordinamento giuridico"; ovvero della "prevalenza del vantaggio sul danno"; o ancora del "bilanciamento tra beni in conflitto"; oppure di un "giusto contemperamento tra interesse e controinteresse".

Sia rinvenibile o meno un fondamento comune a tutte le scriminanti, rimane tuttavia il dato incontestabile che ciascuna causa di giustificazione presenta elementi ad essa propri: sicchè, nell"individuare portata e limiti di ogni scriminante, decisivo appare un approccio che tenga conto delle peculiarità contenutistiche di ciascuna di esse:

"così si comprende perché la dottrina dominante propenda per un modello di tipo pluralistico, tendente a ricondurre le esimenti a principi diversi. Tra i criteri solitamente più invocati, rientrano i due principi dell"interesse prevalente e dell"interesse mancante: il primo spiega le scriminante dell"esercizio del diritto, dell"adempimento del dovere, della difesa legittima e dell"uso legittimo delle armi; il secondo spiega, invece, le altre due scriminante generali del consenso dell"avente diritto e dello stato di necessità" (Fiandaca - Musco 2009).

Secondo questo modello, tutte le cause di giustificazione presenterebbero un"unica e comune ratio legis che, di volta in volta, viene ravvisata nel "criterio del mezzo adeguato per il raggiungimento di uno scopo approvato dall"ordinamento giuridico", oppure "nella prevalenza del vantaggio sul danno", oppure nel "bilanciamento tra beni in conflitto", o ancora nel "giusto contemperamento tra interesse e controinteresse".

"Le cause di giustificazione, pertanto, possono definirsi: quelle speciali situazioni nelle quali un fatto, che di regola è vietato dalla legge penale, non costituisce reato per l"esistenza di una norma che lo autorizza o lo impone. Se si ricerca la ragione sostanziale per cui queste cause eliminano l"antigiuridicità, non è difficile ravvisarla nella mancanza di danno sociale. Allorché esse ricorrono, infatti, l"azione non contrasta con gli interessi della comunità come avviene normalmente, e ciò perché in quelle determinate situazioni è necessaria per salvare un interesse che ha un valore sociale superiore, o per lo meno uguale a quello che si sacrifica. Esulando per tal modo il danno sociale, l"intervento dello Stato con la sanzione punitiva non ha più ragion d"essere" (Antolisei 2003, 273).

Si contrappone il sottoevidenziato modello pluralistico, il quale sostiene che, se da un lato è rinvenibile nella generalità delle scriminanti un fondamento comune, dall"altro resta innegabile il fatto che ciascuna di queste cause di giustificazione presenta caratteristiche proprie e peculiari, che permettono di distinguerla da ogni altra.

Questo modello esplicativo tende ad individuare diversi criteri capaci di spiegare il fondamento sostanziale delle varie esimenti, provvedendo pertanto il più delle volte a ricondurre le scriminanti in esame nell"ambito dei seguenti principi:

  • principio dell" "interesse prevalente": a tale criterio si riconducono le scriminanti dell"esercizio del diritto, dell"adempimento del dovere, della difesa legittima e dell"uso legittimo delle armi;
  • principio dell" "interesse mancante": a tale criterio si riconducono le scriminanti del consenso dell"avente diritto e dello stato di necessità.

Naturalmente qualsiasi tentativo di sistemazione ha i suoi limiti, giacché ciascuna soluzione proposta finisce sempre per non tenere il passo dell"evoluzione dei rapporti sociali i quali sono in perenne divenire e, in quanto tali, sfuggono a qualsiasi tipo di stabile concettualizzazione.

Vi è da segnalare come Padovani, correttamente, noti come, in ogni caso, le cause di giustificazione si ispirano al principio del bilanciamento degli interessi:

le cause di giustificazione si ispirano al principio del bilanciamento degli interessi in conflitto; la prevalenza dell"uno o dell"altro è condizionata cioè ad una valutazione comparativa del loro rispettivo valore. (Padovani, Diritto penale, Giuffrè, Milano, 2008, p. 187 ss.).

Anche la giurisprudenza, seppur incidentalmente, quando necessario, tende ad utilizzare efficacemente il concetto del bilanciamento degli interessi in conflitto:

"nel caso in cui passi di un volume dedicato al tema della mafia (contenente, tra l'altro, la completa testimonianza di un ex aderente a "cosa nostra") ledano profondamente l'onore e la reputazione di una persona, nella valutazione dell'esercizio del diritto di cronaca e di critica e nel conseguente bilanciamento tra i due beni costituzionalmente protetti del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero e quello alla dignità personale, nell'attuale momento storico in cui la lotta a quel cancro sociale che è la mafia è basilare per la stessa difesa delle strutture democratiche, deve prevalere la libertà di parola; a tal fine è sufficiente che l'agente ritenga per errore involontario che i fatti narrati siano veri per configurarsi a suo favore una causa di esclusione della punibilità venendo a mancare del tutto l'elemento psicologico necessario per concretare l'esistenza del reato di diffamazione" (Trib. Trento 26 ottobre 1993, RP, 1994, 55).

 




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