Giustizia civile  -  Anna Berghella  -  28/02/2023

Due parole per il fallimento della Cartabia

È senza dubbio la riforma della giustizia che mette più in contrapposizione avvocati e magistrati. E non poteva essere altrimenti visto lo sbilanciamento di numeri, pochi avvocati e molti magistrati, nella composizione della commissione che ha varato le linee guida della norma. Come nelle nostre quotidianità tanti avvocati, pochi magistrati ma sono loro che decidono. Sempre.

Come se non fossero ambedue le categorie parte dello stesso problema, attori della medesima pièce, con visuali opposte ma entrambe costituzionalmente necessarie. 

Come se, per perfezionare la performance di una gara di nuoto, si desse retta solo all'allenatore e non anche al nuotatore. È l'atleta che ha la percezione dell'acqua in cui dovrà lavorare, della comodità o meno del costume che andrà ad indossare, della pressione del pubblico, dei limiti della sua resistenza. L'allenatore resta all'asciutto, fuori vasca, osserva ma non scende nell'arena. Ha un'altra visuale, privilegiata ma limitata. 

È da questa visuale privilegiata e non completa che è nata la riforma. Una riforma di sanzioni economiche alle parti che depositano atti che non rispettano i criteri di "chiarezza e sinteticità", pericolosi termini generici e soggettivi, di termini strettissimi per la redazione degli atti, tempi che influiranno ancora più pesantemente sulle scelte di vita di noi avvocati, di intollerabili preclusioni unilaterali.

La riforma infatti non nasce dalla collaborazione tra giudici e avvocati per tutelare la richiesta di giustizia delle persone ma dalla cecità di chi accusa solo l'avvocatura di rallentare i processi senza guardare la trave nell'occhio, ovvero la carenza di organici di magistratura e personale giudiziario. 

Una riforma nata per fallire il suo obiettivo “economico efficientista europeista” soprattutto perché basata su due pesanti termini opposti tra loro: ordinatorio e perentorio. 

Il procedimento civile diventa, grazie a Cartabia, una ansiogena corsa contro il tempo per le parti, i cui termini sono tutti brevi e perentori, non si sgarra, oltre quello giorno niente più è modificabile, devi mettere tutto sul tavolo, nonostante i tempi biblici della pubblica amministrazione per avere un documento, nonostante le persone che chiedono giustizia hanno necessità di tempo per strutturare, in un atto giuridicamente valido, le proprie istanze. Mentre per il giudicante i termini sono presenti ma sono ordinatori, una indicazione di massima che può essere disattesa e che principalmente non prevede sanzioni. 

Ho già sentito dire da alcuni magistrati, nei convegni che si alternano a fiumi in questi giorni: "Scordatevi che in 30 giorni potrà essere depositata la sentenza (art. 281 quinquies)"; "Non capisco perché devo interrogare la parti (art. 185)” ; e anche "la legge vuole scoraggiare il ricorso alla giustizia e ha posto pesanti sanzioni: non appellate e non ricorrete in  cassazione".

La giustizia ce la dobbiamo fare da soli, pare proprio di sì. 




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