-  Gasparre Annalisa  -  27/01/2015

ESAME AVVOCATO: APPROPRIAZIONE INDEBITA DI BENI IN CONTO VENDITA - Annalisa GASPARRE

Traccia esame 2011.

Il 20.01.2011 Tizio riceve da Caio della merce in conto vendita. I contraenti convengono che Tizio debba esporre la merce nel proprio negozio, al fine di venderla ad un prezzo preventivamente determinato, nel termine di quattro mesi. L'accordo negoziale prevede che, alla scadenza stabilita, Tizio debba corrispondere a Caio il prezzo concordato, ovvero restituire la merce rimasta invenduta. Nel corso dei quattro mesi, Tizio e Caio continuano ad intrattenere regolarmente rapporti commerciali nonché di personale frequentazione sicché, alla scadenza del termine pattuito per la eventuale restituzione della merce rimasta invenduta, Caio non domanda nulla in merito alla esecuzione del primitivo contratto, nè Tizio lo rende edotto del fatto che la merce è rimasta totalmente invenduta. Soltanto agli inizi del mese di luglio, a seguito di una discussione per divergenze di opinione in merito ad altri affari, Caio chiede conto dell'avvenuta esecuzione del contratto, ricevendo da Tizio risposte evasive. Alla fine del mese di luglio i rapporti tra i due si rompono definitivamente. Al rientro dalla vacanze estive, Caio fa un ulteriore tentativo di contattare Tizio per la restituzione della merce ovvero del corrispettivo e apprende dalla segretaria di Tizio che la merce è rimasta invenduta. Decide quindi di tutelare le proprie ragioni in sede penale.

Il candidato, assunte le vesti di legale di Caio, rediga motivato parere analizzando la fattispecie configurabile nel caso esposto e soffermandosi in particolare sulle problematiche correlate alla procedibilità dell'azione penale.

Merita attenzione la decisione di Caio di adire l'autorità giudiziaria penale per reagire all'illecito perpetrato in suo danno da Tizio, nei cui confronti potrà essere contestato il delitto di appropriazione indebita, per i motivi di seguito illustrati e le necessarie precisazioni.

L'art. 646 c.p. punisce chi, al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Il delitto de quo si caratterizza per essere reato contro il patrimonio, di natura appropriativa, che esige l'accertamento del dolo specifico, cioè - nella fattispecie - non solo coscienza e volontà ma fine ulteriore e mirato di procurare a sè un profitto ingiusto, mediante una condotta eccedente le facoltà o i diritti compresi nel titolo del possesso (la c.d. interversione del possesso).

Per integrare siffatto elemento soggettivo, ovvero il reato, non si esige che il profitto avuto di mira sia effettivamente conseguito. Seppure la fattispecie incriminatrice richiami concetti di natura civilistica, è bene rilevare che - secondo risalente e consolidata giurisprudenza - la nozione di possesso si estende al di là dei confini civilistici, ricomprendendo altresì la detenzione. Scopo della previsione sanzionatoria è quello di colpire con lo strumento penale chi si trovi ad avere la disponibilità di una cosa e, in ragione di (e grazie a) tale posizione di vantaggio, si comporti, rispetto ad essa, uti dominus, cioè come se ne fosse proprietario, attraverso atti di destinazione della res incompatibili con titolo e ragioni che ne giustificano la detenzione e tali da rendere oggettivamente incompatibile l'esercizio del diritto del legittimo proprietario.

Nel caso sottoposto al vaglio del difensore, Tizio disponeva di un quantitativo di merce in conto vendita; era prevista una scadenza nonché regolamentazione specifica consistente, alternativamente, nel pagamento della merce ceduta a terzi oppure nella restituzione dell'invenduto. Per vari accadimenti, dovuti anche a concomitanti rapporti commerciali basati su fiducia reciproca, alla scadenza pattuita il proprietario della merce non ne chiedeva la restituzione, tollerando la situazione di fatto, con l'auspicio (tipico del commerciante) di collocare sul mercato i prodotti de quibus. Ma anche Tizio non si offriva di restituire la merce nè comunicava lo stato degli affari. Solo alcuni mesi dopo la scadenza il proprietario reclamava la restituzione, prima ottenendo risposte evasive e, ancora dopo, scoprendo - non senza stupore - che la merce era rimasta totalmente invenduta e che, ciò malgrado, fino a quel momento, non era stata riconsegnata.

E' a partire da tale momento che va indagata la sussistenza dell'elemento soggettivo imposto dalla norma penale, consistente nella consapevolezza e volontà di trattenere le cose al fine di trarne un ingiusto profitto. Pare conforme ai principi garantistici, che informano il diritto penale, ritenere che la situazione pregressa alla richiesta di restituzione - in mancanza di indici rivelatori di segno contrario e alla luce del particolare rapporto commerciale intessuto fra Tizio e Caio - non sia penalmente rilevante, attesa la quiescenza, sino a quel momento, del legittimo proprietario. Altra questione - evidentemente - è quella della buona fede contrattuale che, però, esula dalle valutazioni richieste. Di questo avviso è anche la Cassazione che, con plurime sentenze, ha stabilito che il reato de quo si consuma nel momento e nel luogo in cui l'agente consapevolmente tiene il comportamento incompatibile con il diritto del proprietario (tra le altre, si veda Cass. pen. Sez. IV, n. 39873/2006).

Rispetto alla condotta materiale necessaria ad ascrivere a Tizio il delitto in parola, va precisato che il mero ingiustificato rifiuto di restituzione è già stato ritenuto rivelatore della volontà di affermare una (illecita) signoria sulla res, ma - come accennato - dirimente sarà il giudizio sull'elemento soggettivo che sveli "per le modalità del rapporto con la cosa, un'oggettiva interversione del possesso" (ex multis, Cass. pen., Sez. II, sent. n. 4440 del 2.12.2008 dep. 2.2.2009).

Detto ciò, non si configurano particolari problematiche in ordine alla procedibilità dell'azione per il reato in questione, ordinariamente perseguibile a querela di parte, atteso che l'art. 124 c.p. (termine per proporre querela) scolpisce in maniera netta il principio per cui il termine di tre mesi decorre dal giorno dela notizia del fatto che costituisce reato.

Nel caso in esame, peraltro, tale dies a quo coincide con quello in cui si è consumato l'illecito, cioè nel momento in cui si è verificato l'ingiustificato rifiuto alla restituzione. Ma anche a ritenere altrimenti, la fattispecie pare procedibile d'ufficio, in quanto aggravata ai sensi dell'art. 61 co. 1 n. 11 c.p., perchè circostanziata da abuso di prestazione d'opera che può manifestarsi in tutti quei rapporti giuridici comportanti un obbligo di fare e che instaurino un rapporto fiduciario "non meramente occasionale o estemporaneo, ovvero di semplice amicizia o favore", perchè quello che incide è l'idoneità di tale rapporto ad agevolare la commissione del reato (da ultimo, Cass. pen., Sez. II, sent. n. 38498/2008).

Sul punto, peraltro, la Cassazione si è espressa con specifico riguardo all'ipotesi di appropriazione di merce in conto vendita, affermando che i rapporti commerciali sottesi al negozio giuridico configurano l'aggravante de qua (Cass. pen., sent. n. 989/2010).




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