-  Mottola Maria Rita  -  14/02/2012

ETERNIT, DISASTRO AMBIENTALE: PREVENZIONE O PRECAUZIONE? – Maria Rita MOTTOLA

Il Tribunale di Torino ha emesso nella giornata di ieri una sentenza di condanna per i responsabili della società svizzera che a Casale Monferrato aveva uno dei suoi più importanti stabilimenti.

Le produzioni chimiche sono potenzialmente pericolose per gli addetti e per l'ambiente circostante. L'Eternit è sostanza insidiosa perché lavora lentamente e i danni al sistema respiratorio si manifestano anche molto tempo dopo l'esposizione. Purtroppo l'Eternit è diffuso su tutto il territorio dello Stato come manto di copertura di immobili privati e pubblici e come coimbente. Il rischio per la salute è immane. ... urge una bonifica diffusa e capillare.

A nostro giudizio questo è il risarcimento che gli imputati dovrebbero pagare: a loro spese e cura,  eliminare e smaltire tutto il materiale tossico presente sul territorio della Nazione.

Ci è sembrato utile alla discussione sul tema la pubblicazione di un estratto del capitolo "incidenti, calamità, sistemi di prevenzione e indennizzo", apparso nel Trattato Utet "Quando il danno non patrimoniale è risarcibile":

 

 "Per molto tempo, le società industriali hanno ritenuto opportuno credere che la natura fosse insieme un gigantesco serbatoio di risorse e un deposito di rifiuti derivanti dal loro sfruttamento. In perenne rinnovamento - "nulla si perde", per la legge di Lavoisier - le risorse naturali apparivano illimitate. La natura sembrava dotata di una capacità di assimilazione e depurazione dei rifiuti prodotti dalla società umana praticamente inesauribile, come del resto si compiacevano di ripetere gli economisti anglosassoni: "the solution to pollution is diluition" (la soluzione all'inquinamento è la diluizione). In effetti, era sufficiente lasciar agire i fenomeni naturali perché venissero eliminati i residui della produzione e dei consumi. La natura forniva non solo tutto ciò di cui l'umanità aveva bisogno, ma riusciva anche a smaltire gli eccessi compiuti in nome della sua valorizzazione. Rinnovando continuamente le sue risorse, non presentava infatti l'immagine rassicurante della perpetuità? Imperturbabile, poteva contrastare le conseguenze negative dell'attività umana: una foresta abbattuta prima o poi faceva spuntare nuovi germogli, le sostanze inquinanti si disperdevano in masse d'acqua e di aria così immense da farle diluire. Anche se l'inquinamento non poteva immediatamente essere assorbito, la natura conservava comunque le sue potenzialità di auto-rigenerazione o di bonifica. In caso di risanamento, anche se i danni non potevano essere immediatamente riparati, essi lo sarebbero stati in futuro, grazie alle maggiori possibilità economiche e ai migliorati mezzi tecnici. Gli errori del presente potevano essere cancellati grazie alle potenzialità del futuro. Il degrado dell'ambiente, come conseguenza del progresso, sembrava non solo un male necessario, ma anche un male" (de Sadeleer 2001, 589). L'inquinamento, ad esempio, può avvenire come effetto d'attività diretta a smaltire sostanze tossiche, dolosamente o come evitabile ma non evitata conseguenza dell'attività industriale, come conseguenza inevitabile del processo produttivo, (immissioni gassose) o, infine, come conseguenza indotta da un evento naturale (danni per inondazioni a stabilimenti chimici posti in zone d'esondazioni).Il danno conseguente ad incidenti e calamità naturali è sempre danno collettivo perché è danno all'ambiente e alle modalità di vita di un'intera comunità. Ed è danno alla salute, diretto (malattie degenerative) o indiretto (sindrome post-traumatica) e infine può essere qualificato come danno esistenziale. Così stabilisce la l. 8.7.1986 n. 349, sull'istituzione del Ministero dell'ambiente e sull'impatto ambientale: qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato. Per la materia di cui al precedente comma 1 la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, ferma quella della Corte dei conti, di cui all'art. 22 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3. L'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo. Le associazioni di cui al precedente art. 13 e i cittadini, al fine di sollecitare l'esercizio dell'azione da parte dei soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza. Le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi. Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino, e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale. Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile. Per la riscossione dei crediti in favore dello Stato risultanti dalle sentenze di condanna si applicano le norme di cui al testo unico delle disposizioni di legge relative alla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, approvato con regio decreto 14 aprile 1910, n. 639 (l. 8.7.1986 n. 349, art. 18), e la legge 23 dicembre 1986, n. 909 che ratifica e dà esecuzione all'atto unico europeo, aperto alla firma a Lussemburgo il 17 febbraio 1986, aggiunge alla parte terza del trattato CEE il titolo VII così redatto 1. L'azione della Comunità in materia ambientale ha l'obiettivo: - di salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell'ambiente; - di contribuire alla protezione della salute umana; - di garantire un'utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. 2. L'azione della Comunità in materia ambientale è fondata sui principi dell'azione preventiva e della correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga". Le esigenze connesse con la salvaguardia dell'ambiente costituiscono una componente delle altre politiche della Comunità. 3. Nel predisporre l'azione in materia ambientale la Comunità terrà conto: - dei dati scientifici e tecnici disponibili; - delle condizioni dell'ambiente nelle varie regioni della Comunità; - dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall'azione o dall'assenza di azione - dello sviluppo socio-economico della Comunità nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni. (l. 23.12.1986 n. 909). (...) I rischi ecologici sono d'incerta determinazione. E' quanto meno difficile immaginare le conseguenze di un incidente industriale anche se il modello teorico è di facile realizzazione. Per esempio, le conseguenze dell'esplosione di un reattore nucleare a Chernobyl non erano state previste, perlomeno nella gravità oggi documentata. Alcune conseguenze sono complicate da fattori concomitanti, (per esempio piogge eccessive - strade in costruzione, incidente in un'industria chimica - correnti d'aria anomala). Il principio della Carta Europea "chi inquina paga" è pienamente condivisibile ma non deve divenire l'unico sistema di risoluzione del problema. Non sempre il risarcimento è sufficiente a risolvere ogni problema e non sempre è possibile ripristinare lo stato dei luoghi. Non si paga la possibilità di vivere nel proprio ambiente e nella propria casa. Nei casi d'inquinamento poi prevenzione dovrebbe essere la parola d'ordine perché la bonifica è aleatoria, non essendo possibile eliminare tutte le conseguenze prodotte. Come, già detto, la scienza non è sempre in grado di determinare con certezza gli effetti di una certa condotta umana o di una determinata attività produttiva o di un evento naturale. La scienza è, viceversa, in grado di determinare la misura di prevenzione nelle ipotesi certe e documentate, per così dire prevedibili, ma non in ipotesi d'incertezza, più pericolose perché non valutabili. Se dunque, la prevenzione risolve a monte i problemi valutati, la previsione e l'anticipazione di minacce potenziali ed ipotetiche, potrebbe essere la soluzione per neutralizzare i danni ecologici non prevedibili. "La precauzione è quindi la prima tra le possibili misure pubbliche destinate a neutralizzare i danni ecologici. Non solo il danno non viene ancora causato, ma anche l'eventualità della sua sopravvenienza non è dimostrata in modo irrefutabile. Di fatto, avviene un vero e proprio cambiamento di paradigmi. Quando la nozione di rischio certo è sufficiente per parlare di prevenzione, il nuovo paradigma è speciale in quanto introduce il fattore incertezza. In effetti, la precauzione non presuppone più la conoscenza perfetta del rischio: è sufficiente averne sentore, sospettare che possa accadere, presumerlo. Non si tratta più, quindi, solo di prevenire rischi quasi sicuri, valutabili, calcolabili, ma piuttosto di anticipare quelli che derivano dalla possibilità, dall'eventualità, dalla plausibilità, dalla probabilità. Si tratta non tanto di adottare "un insieme di misure destinate a evitare un avvenimento che è possibile prevedere" quanto di osservare "una previsione minuziosa... per evitare o attenuare mali, inconvenienti, dispiaceri ulteriori solo prefigurati". A coronamento dell'evoluzione degli interventi possibili, il principio di precauzione invita le autorità pubbliche ad agire oppure ad astenersi in caso d'incertezza. Porta a ritardare, o anche ad abbandonare, quelle attività che si suppone abbiano conseguenze gravi per la protezione dell'ambiente, anche nel caso in cui i sospetti non siano completamente comprovati sul piano scientifico. Il nesso di causalità tra il rischio e il danno previsto non deve essere assoluto in tutte le circostanze. Al contrario, accelera l'adozione di decisioni destinate ad assicurare una migliore protezione dell'ambiente anche in mancanza di un parere unanime da parte degli esperti del settore. Rimodellando l'essenza stessa della norma, la sua applicazione va ben al di là di una semplice procedura decisionale, ancorché vengano comunque esaminati i differenti interessi e punti di vista. (de Sadeleer 2001, 591). (...) Gli incidenti di gran rilevanza provocano conseguenze complesse e, come già sottolineato, il danno è essenzialmente collettivo - danno ambientale, danno al patrimonio artistico, danno all'industria e alle attività economiche - ma è anche e in primo luogo danno alla persona, perché è danno alla vita quotidiana, alla vita di relazione. Perché sia riconosciuto il danno ai soggetti direttamente coinvolti nell'incidente è indispensabile determinare il nesso tra l'evento e la condotta che ha determinato l'incidente stesso. Per esempio nel caso dello stabilimento petrolchimico del Porto di Marghera è stato escluso un nesso di causalità, penalmente rilevante, tra i tumori insorti in alcuni lavoratori dipendenti e la loro esposizione a cloruro di vinile e a polivinile. "La causalità, essendo necessaria una spiegazione oggettiva dell'evento, non può che essere affidata, oltre che a leggi universali, a leggi scientifiche di copertura anche statistiche, ma in grado di spiegare un rapporto di regolarità tra determinati eventi con un elevato grado di frequenza;. in via di principio, la causalità generale, intesa come idoneità di una sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l'idoneità della sostanza a causarla (Trib. Venezia 22.10.2001, FI. 2003, II, 151). La difficoltà primaria è la correlazione causa-effetto nell'ambito delle conseguenze più squisitamente esistenzialistiche. Nei reati colposi di disastro "il problema di tassatività è evidente quando, orientando tutta la propria attenzione sul bene giuridico, si finisce con il ritenere "paradossale" una norma che incrimini casi limite di offesa al suddetto bene giuridico e ometta di punire i casi più frequenti e con il ritenere che "la norma penale deve essere certamente applicata" nel caso in cui il bene giuridico protetto è vistosamente compromesso. Il principio di legalità impone, invece, rigorosi ancoraggi al dato testuale, non essendo sufficiente il richiamo all'inevitabile e sempre più marcata perdita di contatto fra concetti naturalistici e linguaggio giuridico per svilire la portata dei principi di legalità e tassatività. In campo penale, sotto questi delicati profili, è opportuno richiamarsi alla pragmatica definizione che del principio nullum crimen sine lege dà la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che, costantemente, afferma come l'article 7 (della CEDU ndr.) consacre notamment le principe de la légalité des délits et des peines (nullum crimen, nulla poena sine lege) et celui qui commande de ne pas appliquer la loi pénale de manière extensive au détriment de l'accusé, par exemple par analogie. Il s'ensuit que la loi doit définir clairement les infractions et les sanctions qui les répriment. Cette condition se trouve remplie lorsque le justiciable peut savoir, à partir du libellé de la disposition pertinente et, au besoin, à l'aide de son interprétation par les tribunaux, quels actes et omissions engagent sa responsabilité pénale". Nel nostro caso la struttura del reato quale intesa costantemente dalla giurisprudenza è nel senso di valutare l'entità del fenomeno in relazione alla sua pericolosità e di escludere la rilevanza, per il perfezionamento della fattispecie, dei danni a persone o cose, significativi solo in via indiretta quale prova in ordine all'esistenza dell'effettiva potenzialità offensiva e ai fini di valutare la gravità delle conseguenze ai fini, ad es., della quantificazione della pena (Milocco 2001 1091). Il danno a persone e cose, causato dai reati in esame, diviene parametro di valutazione della potenzialità offensiva mentre le conseguenze del reato sono il parametro di valutazione della gravità del fatto, allo scopo di verificarne la rilevanza giuridica quale reato. Secondo questa interpretazione "concorre alla realizzazione del reato chiunque intervenga nella dinamica del fenomeno e cooperi a che l'invasione delle acque assuma le dimensioni di un'inondazione e, quindi, i connotati di pericolosità che il concetto di inondazione implica; non anche chi concorra a favorirne la dannosità. L'ulteriore esempio offerto nel decreto che dispone il giudizio, secondo cui risponde del crollo avvenuto a causa di terremoto anche il progettista della costruzione che non ha adottato i necessari accorgimenti antisismici conferma questa distinzione: il disastro imputato in questo esempio sarà infatti il "crollo" rispetto al quale la negligenza del progettista si pone come antecedente causale, ma non risponderà del "crollo" chi non abbia fatto sgomberare tempestivamente l'immobile.In linea con questa impostazione anche la vicenda giudiziaria del Vajont dove le condotte di inondazione e omicidio plurimo sono costantemente distinte riconducendosi l'omessa diffusione dell'allarme e l'omesso sgombero di cantieri e centri abitati al reato di cui all'art. 589 c.p. e le deficienze in materia di progetto, realizzazione e gestione dell'invaso all'art. 426 c.p.. La mancata predisposizione di strumenti di difesa e protezione delle persone e dei beni che permetta che l'invasione di acque causi danni a persone, mezzi di trasporto, aziende industriali ed agricole, la morte di capi di bestiame l'interruzione delle linee elettriche, telefoniche, stradali e ferroviarie, crolli di edifici non significa, quindi, "cagionare l'inondazione"" (Milocco 2001 1091). E' necessario, in altri termini, riferirsi a concetti giuridici e non meramente scientifici, riportando l'attenzione sull'attività umana posta in essere per favorire il disastro e non meramente sulle conseguenze dello stesso. Più aderente alla necessità di riconoscere i diritti della collettività alla sicurezza sarebbe un'interpretazione della norma penale che consentisse di espandere le condotte punibili, ma contrasterebbe con i principi di legalità e di difesa e dovrebbe perciò essere introdotta dal sistema legislativo. La dichiarazione di Rio de Janeiro, come già in precedenza la dichiarazione di Stoccolma sullo sviluppo sostenibile, conferma il diritto dei singoli Stati a gestire e sfruttare le risorse del territorio e propone uno sfruttamento adeguato a non recare danni ai paesi confinanti o all'ambiente esterno. Esiste nel diritto internazionale un principio, ormai ampiamente riconosciuto, che impone il dovere di adottare misure dirette a prevenire danni ambientali, con particolare attenzione alle attività ad elevato rischio. In particolare, alcune convenzioni internazionali prevedono un obbligo di controllo preventivo per le attività a rischio d'impatto ambientale (Convenzione ESPOO del 1991 e Convenzione di Helsinki 1992). La Comunità Europea si è preoccupata di stabilire misure sul principio dello sviluppo sostenibile, in "una nuova e più ambiziosa prospettiva, accanto a quella già collaudata espressa dal principio "chi inquina paga" e quindi proiettata nella dimensione risarcitoria. Si introduce infatti un obbligo generale di prevenzione dei "gravi danni ambientali". Occorre innanzitutto comprendere se questo obbligo legislativo di portata generale abbia la funzione di introdurre un principio-guida, come quello espresso dalla normativa comunitaria in materia di sicurezza dei prodotti (le cui regole si affiancano a quelle che governano il risarcimento del danno derivante dalla diffusione di prodotti fabbricati o comunque immessi sul mercato in condizione di nuocere ai terzi) oppure se si tratti di un semplice capitolo di una normativa che sarà via via emanata per disciplinare nel dettaglio le misure richieste ai singoli operatori " Alpa 2003 614). Le norme precedenti stabilivano la disciplina sull'impatto ambientale, e le prescrizioni destinate a prevenire singoli aspetti o singoli tipi di inquinamento ma il principio fino ad ora osservato consentiva di inquinare, salvo il risarcimento, non obbligava in altri termini gli operatori a preoccuparsi di introdurre misure di prevenzione, affidate all'autorità pubblica o alla coscienza ecologica e alla prudenza dei singoli. Dunque, anche se si trattasse soltanto di un principio-guida, si sarebbe in presenza di una grande novità. La prevenzione può essere intesa in varie maniere e può avere diversa efficacia. Normalmente le aziende sostituiscono la prevenzione alla cautela economica del rischio, trasferendone il costo alle compagnie di assicurazione. "a) Prevenzione attraverso l'anticipazione delle situazioni che originano responsabilità. L'effetto preventivo della responsabilità risulta dalla "influenza indiretta del comportamento". La responsabilità è intesa a prevenire i processi produttivi rischiosi e i prodotti pericolosi o a renderli più costosi. Un effetto preventivo presuppone che la situazione generante responsabilità sia percepita in tempo. In Germania una "debolezza nell'effetto preventivo della responsabilità ambientale" è stato attribuito al fatto che "attraverso il trasferimento del rischio in capo all'assicuratore, non sono soddisfatti i presupposti economici e cognitivi per la prevenzione". Le situazioni che generano responsabilità sono spesso poco chiare e, specialmente nel caso di industrie internazionali, dovute a differenti fattori, sistemi legali e parametri culturali. Rendere chiaro e anticipare il complesso di situazioni che possono generare responsabilità è un sicuro contributo alla prevenzione. b) Prevenzione attraverso divisione del rischio e differenziazione del premio. Mentre la legge sulla responsabilità distribuisce i costi in maniera casuale, l'assicurazione sulla responsabilità può determinare, attraverso una struttura di rateazione, come debbano essere distribuiti i costi per i danni in capo a gruppi di responsabili. Rendere una attività produttiva più costosa può avere un effetto proibitivo in questo senso. Tuttavia i costi per le assicurazioni industriali sono minori rispetto ai costi che le società devono sostenere per la tutela dell'ambiente. c) Prevenzione attraverso analisi tecnica e ispezioni. Anche la legge sull'assicurazione obbligatoria serve meno a prevenire attività rischiose che ad indennizzare i danneggiati. In particolare nel campo del danno ambientale si assiste ad una sempre maggiore "deregulation" attraverso il trasferimento dei compiti di prevenzione pubblica agli assicuratori. d) Prevenzione attraverso l'assicurazione dei costi per la riduzione al minimo delle perdite. La regola che le spese per la Prevenzione delle perdite imminenti o dei danni devono essere risarcite è un principio comune sia delle norme sui danni che sul risarcimento. Il principio si applica da una parte alle spese sostenute dalla parte danneggiata e dall'altra alle spese sostenute dal potenziale responsabile titolare della polizza, incluse nella copertura come "loss minimization expenses". e) Il ruolo dell'assicurazione sulla responsabilità nel graduale incremento della legge sulla responsabilità in aree di applicazione base. Ovunque la capacità di causare danni risulta essere maggiore della capacità di risarcirli. Da una parte ci si può riferire alla situazione delle piccole imprese per le quali i danni causati ad esempio dall'emissione di aria non possono essere sistematicamente monitorati sotto le norme pubbliche o indennizzati mediante le regole sulla responsabilità. D'altra parte ci sono le grandi imprese in cui è scarsamente possibile conformarsi con le richieste di intervento in caso di danni provocati in zone di centenaria operatività" (Alpa 2003, 910). (...) Con la recentissima riforma costituzionale (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 36) il legislatore ha espressamente demandato la tutela dell'ambiente che era fra le competenze esclusive dello Stato alle regioni, e tra queste il compito di stabilire gli standard che non possono essere derogati al minimo e al massimo. "Ha infatti testualmente affermato il T.A.R. Lazio, Sez. II, nelle rilevantissime sentenze 27 giugno 2001, n. 7020 e n. 7026:  "L'attribuzione alle Regioni ed alle Province autonome di attribuzioni relative al raggiungimento di eventuali obiettivi di qualità non appare giustificare l'introduzione di limiti (ulteriori e/o diversi) rispetto a quanto nel decreto stesso stabilito... La legge 36/2001, infatti, attribuisce esclusivamente allo Stato la funzione di fissazione dei criteri e dei limiti rilevanti al fine della protezione della popolazione dalle potenzialità nocive insite nell'esposizione a capi elettromagnetici (funzione che, significativamente, la legge quadro ricongiunge ad un'esigenza di attuazione dell'art. 32 della Costituzione). ... L'individuazione di limiti, parametri e/o requisiti "diversi" da quelli rinvenibili nella normativa di promanazione statale non può, dunque, essere considerata legittima. L'unitarietà della tutela del bene-salute giustifica la persistenza di una concentrata attribuzione statale in questa materia"" (Butti 2002, 480). La Direttiva 21.4.2004 n. 35 04/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, ha lo scopo di rendere uniforme la disciplina del risarcimento del danno ambientale tra tutti gli stati membri. Tra le altre novità qui rileva sottolineare come si introduca un concetto del tutto nuovo il cd. danno orfano: i danni che l'operatore non paga, perché non sia in grado di farvi fronte o perché non sia di fatto individuabile il soggetto che li ha causati, siano sostenuti dallo Stato nel cui territorio l'incidente è avvenuto. Esiste, infatti, un'oggettiva difficoltà al risarcimento di tutte le forme di danno ambientale "attraverso la responsabilità civile (la quale presuppone necessariamente la presenza di uno o più soggetti individuabili (gli inquinatori), la realizzazione di un danno concreto e quantificabile, ed al contempo il nesso di causalità tra quest'ultimo ed i predetti inquinatori individuati) l a proposta di direttiva afferma che la responsabilità civile non è lo strumento adatto per trattare l'inquinamento a carattere diffuso e generale, in tutti quei casi in cui non sia possibile collegare gli effetti ambientali negativi, alle attività svolte da taluni soggetti individuati. Essa pertanto fornisce la nozione di danno ambientale come fattispecie autonoma e distinta, prevedendo un regime anche di responsabilità indiretta/oggettiva dello Stato nel caso in cui uno specifico operatore non possa essere individuato come soggetto responsabile (c.d. danno orfano) o risulti incapiente" (Stampo 2002, 3). Lo svolgimento d'ogni attività connessa all'uso di sostanze chimiche è potenzialmente un'attività ad alto rischio intrinseco, così, lo sono gli impianti che utilizzano sostanze radioattive (non solo impianti nucleari ma anche i siti di stoccaggio del materiale esausto derivante da lavorazioni di prodotti medici e farmaceutici). E' vero che gli impianti adottati sono ad alta tecnologia ma il materiale utilizzato è per natura o instabile o potenzialmente pericoloso. Poiché le attività industriali sono potenzialmente attività a rischio, la presunzione posta dall'art. 2050 c.c. consente di invertire l'onere probatorio e di considerare esistente il nesso causale anche in presenza di concause, purché non esista un fattore autonomo in grado di interrompere il nesso eziologico tra attività pericolosa ed evento di danno. In tal caso "il danno provocato nel corso del sinistro, ed a causa di esso, si pone in un rapporto di consequenzialità necessaria rispetto all'attività pericolosa. Il danneggiato che possa avvalersi della previsione di responsabilità disciplinata dalla norma in esame, è qualsiasi terzo rispetto al soggetto che svolga l'attività pericolosa, ancorché non sia estraneo a detta attività e ad essa prenda parte (quale per es. il lavoratore subordinato), salva espressa disposizione normativa contraria. Presupposto, infine, per l'applicabilità dell'art. 2050 C.C. è il nesso di causalità tra lo svolgimento dell'attività pericolosa e l'evento dannoso, nesso il cui onere probatorio incombe sul danneggiato"(Cass. 11.12.95, n. 12640, GC, 1995, I, 354). Ci si chiede, al fine, se il rischio connesso all'industria debba essere sopportato dalla collettività o se il costo della sicurezza debba gravare sul produttore. O meglio, è sufficiente adottare espedienti tecnici per ottenere la salvaguardia dell'ambiente e dell'uomo o è necessario porre in essere ogni salvaguardia possibile? Secondo la Corte Costituzionale la direttiva CEE 84/360, pur considerando le esigenze competitive delle imprese, tiene fermo il principio fondamentale della salute umana e dell'ambiente. "Ciò comporta che, in definitiva, essendo - come si è visto - il decreto, esecutivo di quella Direttiva e, perciò, espressamente finalizzato , il limite massimo di emissione inquinante, tenuto conto dei criteri sopra accennati, non potrà mai superare quello ultimo assoluto e indefettibile rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute umana e dell'ambiente in cui l'uomo vive: tutela affidata al principio fondamentale di cui all'art. 32 della Costituzione, cui lo stesso art. 41, secondo comma, si richiama. Ne deriva che il limite del costo eccessivo viene in causa soltanto quando quel limite ultimo sia stato rispettato: nel senso, cioè, che l'autorità non potrebbe imporre nuove tecnologie disponibili, capaci di ridurre ulteriormente il livello d'inquinamento, se queste risultino eccessivamente costose per la categoria cui l'impresa appartiene. Tuttavia, poiché le autorità devono tenere conto dell'evoluzione sia della situazione ambientale che della migliore tecnologia disponibile (art. 11), l'art. 13 prevede che all'onere economico si abbia riguardo soltanto ai fini delle prescrizioni sui tempi e modi di adeguamento. Il che significa che nemmeno i miglioramenti sono esclusi, quando la situazione ambientale lo richieda e la tecnologia si sia evoluta, e nemmeno in tal caso l'onere economico può essere d'ostacolo alla fissazione di limiti di emissione inferiori e all'obbligo di adottare tecnologie più idonee: ma se ne tiene conto ai fini di un adeguamento temporale graduale. Mentre poi il fattore costo non viene in considerazione sotto nessun riguardo, quando si tratta di , nell'ambito dei piani di risanamento del territorio (art. 4, lettere a ed e): nel qual caso i limiti delle emissioni possono essere persino più restrittivi degli stessi valori minimi definiti nelle linee guida. Appare chiaro allora a questo punto, da tutto il complesso normativo richiamato nel corso della motivazione, che la disposizione definitoria di cui al n. 7 dell'art. 2 del d.P.R. n. 203 del 1988 va interpretata nell'assoluto rispetto del principio fondamentale di cui all'art. 32 della Costituzione. Conseguentemente il condizionamento al costo non eccessivo dell'uso della migliore tecnologia disponibile va riferito al raggiungimento di livelli inferiori a quelli compatibili con la tutela della salute umana: salvo che non si tratti di piani di risanamento di zone particolarmente inquinate, nel qual caso del costo della migliore tecnologia disponibile si terrà conto soltanto ai fini delle prescrizioni sui tempi e modi dell'adeguamento a livelli di emissione più rigorosi. S'intende che il giudice presume, in linea generale, che i limiti massimi di emissione fissati dall'autorità siano rispettosi della tollerabilità per la salute dell'uomo e per l'ambiente. In ipotesi, però, che seri dubbi sorgano, particolarmente in relazione al verificarsi nella zona di manifestazioni morbose attribuibili all'inquinamento atmosferico, egli ben può disporre indagini scientifiche atte a stabilire la compatibilità del limite massimo delle emissioni con la loro tollerabilità, traendone le conseguenze giuridiche del caso. Nessuna norma ordinaria, infatti, può sottrarsi all'ossequio della legge fondamentale, sicché è in tal senso che va interpretato l'inciso di cui all'art. 674 codice penale" (C. Cost. 10.3.1990, n. 127 CP, 1990, 2061). (...)La prevenzione non è più sufficiente, sarebbe opportuno parlare di precauzione, di una valutazione dell'impatto diretta a prevedere ogni possibile scenario al fine di evitarne gli effetti, piuttosto di dover intervenire successivamente al disastro e porre rimedio ai danni causati all'uomo e all'ambiente. "Pertanto, presentandosi sotto forma di azione preventiva anticipata in un contesto ancora incerto, il principio di precauzione rappresenta un nuovo baluardo nella lotta contro i rischi all'ambiente, rendendo più agevole il tentativo di conciliare diritto e ecologia. I disastri della tecnologia, dettati da una smisurata fiducia nella tecnoscienza, ci hanno fatto capire che è ormai finito il tempo delle certezze e che la precauzione è chiamata a prendere il posto della prevenzione. Riflettendo l'adagio better safe than sorry, il principio di precauzione fa appello ad una migliore anticipazione dei rischi. Nella misura in cui esso si basa su postulati esattamente contrari al principio di prevenzione, che ha plasmato fino ad oggi il diritto ambientale, tale principio potrebbe sconvolgere il corso tranquillo del diritto positivo, inducendo un vero e proprio cambiamento di prospettiva nell'elaborazione delle norme. Con la precauzione, il diritto oscilla verso un futuro ancora incerto: non si tratta più di dire " après nous le déluge". Fin da adesso, questo principio è ormai entrato nel campo giuridico: certi legislatori lo invocano, alcuni giudici ne traggono ispirazione e importanti analisi dottrinali gli sono consacrate. Senza dubbio riuscirà a dare un senso al tempo, calmando la corsa sfrenata alla produttività, incitandoci a scegliere meglio gli obiettivi delle nostre tecnologie, obbligandoci a conservare per le generazioni future le ricchezze naturali che ci sono state tramandate. Per una volta, cerchiamo di preservare quello che può essere preservato" (de Sadeleer 2002, 593). Il criterio della precauzione è stato recepito nella direttiva 21 aprile 2004 35/2004/CE oggi adottata con decreto legge dallo Stato italiano l'art. 3 cosi recita "1. In applicazione del principio di precauzione di cui all'articolo 174, paragrafo 2, del Trattato Ce, in caso di pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l'ambiente, pur se non vi sia certezza scientifica in ordine all'effettività del rischio, deve essere assicurato un alto livello di protezione. 2. L'applicazione del principio concerne il rischio che comunque possa essere individuato a sèguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva. 3. L'operatore interessato, quando emerga il rischio suddetto, deve informarne senza indugio, indicando tutti gli aspetti pertinenti alla situazione, il Sindaco del Comune, la Regione o la Provincia autonoma nel cui territorio si prospetta l'evento lesivo, nonché il Prefetto della provincia che, nelle ventiquattro ore, informa il Ministro. 4. Il Ministro, in applicazione del principio di precauzione, ha facoltà di adottare in qualsiasi momento misure di cautela, ai sensi dell'art. 6, che risultino: a) proporzionali rispetto livello di protezione che s'intende raggiungere; b) non discriminatorie nella loro applicazione e coerenti con misure analoghe già adottate; c) basate sull'esame dei potenziali vantaggi ed oneri; d) aggiornabili alla luce di nuovi dati scientifici. 5. Il Ministro può finanziare programmi di ricerca, promuovere l'informazione del pubblico quanto agli effetti negativi di un prodotto o di un processo, disporre il ricorso a sistemi di certificazione ambientale ed assumere ogni altra iniziativa volta a ridurre i rischi di danno ambientale." (...)

Bibliografia citata

Alpa G. 2003 "L'inefficiente opera della protezione civile in caso di alluvioni quale causa dell'inondazione2, in RGAmbiente, 3-4, 611.

De Sadeleer N. 2001 "Gli effetti del tempo, la posta in gioco e il diritto ambientale", Riv. Giur. Ambiente 5, 589

Milocco P. 2001 "Progetti comunitari sulla assicurazione del danno ambientale", RCP, 6, 1089




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