Pubblica amministrazione  -  Federico Basso  -  26/05/2022

Gli accordi ex art. 11, l. n. 241 del 1990. Limiti di ammissibilità ed esercizio di poteri in autotutela.

Gli accordi tra P.A. e cittadino sono disciplinati nel nostro ordinamento dall’art. 11 della l. 241/1990 e costituiscono un’ipotesi di esercizio consensuale del potere amministrativo.

È noto, come, fino a pochi decenni fa, fosse inconcepibile per la dottrina amministrativistica una qualunque forma di esercizio consensuale del potere pubblico, il quale doveva necessariamente esprimersi mediante l’utilizzo unilaterale di poteri autoritativi, senza spazio alcuno per l’ammissibilità di accordi con i privati.

Tuttavia, sotto l’influenza delle spinte comunitarie, nonché di una nuova e più moderna concezione dei rapporti tra cittadini e P.A. improntati non più ad un mero esercizio unilaterale del potere, bensì ad un’ottica di leale collaborazione per il perseguimento dell’interesse comune, la dottrina amministrativistica più recente ha ammesso la possibilità di ricorre a modalità consensuali per lo svolgimento di attività di pubblico interesse; il tutto, ovviamente, nell’ulteriore prospettiva di una maggiore efficienza, celerità ed economicità dell’agire pubblico.

Di tali concezioni è espressione la l. 241/1990, caratterizzata da una nuova dimensione partecipativa del cittadino al procedimento, nonché da una rinnovata visione degli strumenti a disposizione delle Pubbliche Amministrazioni per l’esercizio delle loro funzioni, tra i quali vanno annoverati, appunto, gli accordi tra P.A. e cittadino e, seppur in ambito diverso, gli accordi tra Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 15.

Nell’analisi della disciplina dei predetti accordi è opportuno, innanzitutto, distinguere tra accordi integrativi, volti a determinare in via consensuale il contenuto di un successivo provvedimento, e accordi sostitutivi, volti, invece, a sostituirsi al provvedimento finale: nel primo caso la P.A. si vincola solamente circa le modalità di esercizio discrezionale del proprio potere, senza che, dunque, venga meno l’esistenza del provvedimento conclusivo, nel secondo, addirittura, lo strumento consensuale surroga il provvedimento amministrativo.

Stante il disposto dell’art. 11, la conclusione di accordi con i privati è subordinata alla sussistenza di tre condizioni: l’accordo deve, invero, essere concluso a) in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’art. 10 dai soggetti intervenuti al procedimento; b) nel perseguimento del pubblico interesse (con tale previsione avendo voluto il legislatore ribadire il necessario vincolo pubblicistico cui costantemente deve informarsi l’agire della P.A.); c) necessariamente a seguito di una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento.

In aggiunta – e seppur non esplicitati dalla norma - la dottrina amministrativistica ha, tuttavia, individuato ulteriori limiti di ammissibilità degli accordi in questione.

Invero, secondo alcuni Autori, seguiti da una parte della giurisprudenza, gli accordi tra P.A. e privati non sarebbero configurabili in caso di attività vincolata o caratterizzata da discrezionalità tecnica, stante il dato letterale dell’art. 11, nonché la considerazione per la quale in tali ambiti non sarebbe rinvenibile alcun profilo di discrezionalità nell’esercizio del potere pubblico suscettibile di negoziazione con il privato.

Secondo altra parte della dottrina e della giurisprudenza, invece, tali osservazioni non sarebbero di ostacolo all’ammissibilità di accordi tra P.A. e privati anche in caso di attività vincolata o caratterizzata da discrezionalità tecnica, mercé la ravvisabilità anche in tali ipotesi di profili, seppur secondari, di discrezionalità nell’esercizio del potere. In altri termini, in ossequio ai principi generali, non sarebbe negoziabile in tali fattispecie l’interesse primario perseguito dalla singola P.A, bensì solamente alcuni aspetti attinenti agli interessi pubblici secondari emersi nello svolgimento del procedimento.

Tale visione, ad esempio, è stata accolta dal Consiglio di Stato in una fattispecie in tema di abusi edilizi, nella quale è stato qualificato come accordo ex art. 11 il verbale di audizione relativo ad un procedimento per il rilascio di un’autorizzazione in sanatoria, nel quale il richiedente, destinatario di un ordine di demolizione, si impegnava a porre in essere alcuni interventi demolitori, subordinatamente ai quali il Comune avrebbe rilasciato la predetta autorizzazione.

La giurisprudenza e la dottrina maggioritarie sembrano orientate in tale ultimo senso; peraltro, risulta evidente come tale soluzione sia auspicabile anche nell’ottica di una maggiore estensione dell’ambito di applicazione degli istituti di amministrazione consensuale in ossequio al principio del minimo mezzo e di leale collaborazione tra P.A. e cittadino.

Ulteriori limiti all’applicabilità degli accordi tra privati e P.A. sono poi rinvenibili all’art. 13 l. 241/1990, il quale, in combinato disposto con l’art. 11, esclude l’ammissibilità dei medesimi in caso di attività della P.A. volta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le speciali norme che ne regolano la formazione; in via di eccezione, la giurisprudenza ha, tuttavia, ritenuto ammissibili convenzioni tra privati e P.A. in ambito sanitario e in ambito urbanistico.

Proseguendo nell’analisi della disciplina, occorre evidenziare come l’art. 11 preveda specifici vincoli formali per la stipula degli accordi in questione: essi, infatti, salvo diversa disposizione di legge, devono rivestire, a pena di nullità, forma scritta rafforzata dall’obbligo di motivazione secondo i canoni sanciti dall’art. 3.

Assai problematico e oggetto di numerosi dibattiti dottrinali è stato, invece, il secondo periodo del comma 2 del citato art. 11, a mente del quale, ove non diversamente previsto, sono applicabili agli accordi in questione i principi generali del Codice civile in materia di obbligazioni e contratti. Tralasciando il dibattito dottrinale circa la corretta individuazione delle norme civilistiche applicabili, tale disposizione ha suscitato non poche incertezze riguardo all’effettiva natura degli accordi ex art. 11, incertezze necessariamente destinate a riverberarsi anche sul possibile esercizio di poteri in autotutela ad opera dell’Amministrazione.

Orbene, sul tema sono ravvisabili in dottrina e in giurisprudenza due opposte visioni.

Secondo una prima tesi, sulla scorta del citato art. 11, comma 2, secondo periodo, nonché del dato letterale della rubrica del medesimo articolo, agli accordi tra P.A. e cittadino andrebbe riconosciuta natura privatistica, costituendo essi pur sempre contratti di diritto comune (seppur ad oggetto pubblico) e, in quanto tali, disciplinati interamente dalle norme civilistiche.

Altra parte della dottrina, invece, facendo leva sul disposto del comma 3 dell’art. 11 (il quale assoggetta gli accordi sostitutivi al medesimo regime di controlli previsto per i provvedimenti) e sull’attribuzione dell’intera materia degli accordi alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, giunge a riconoscere agli accordi in questione natura pubblicistica, da qualificarsi nello specifico, secondo alcuni (Giannini), come contratti di diritto pubblico, secondo altri, come provvedimenti concordati, svolgendo, comunque, la normativa civilistica, in entrambe le ipotesi, un ruolo meramente sussidiario.

L’adesione all’una o all’altra tesi, oltre alle implicazioni sul piano processuale circa le azioni esperibili, importa necessariamente conseguenze anche sul piano sostanziale, in primis con riferimento al possibile esercizio di poteri in autotutela, il quale sarebbe ammissibile per i sostenitori della natura pubblicistica, inammissibile, invece, per i sostenitori della natura privatistica. In particolare, se si riconoscesse natura pubblicistica agli accordi, oltre alla possibilità di recesso sancita dal comma 4 dell’art. 11, si aprirebbe la strada anche all’ammissibilità della revoca ex art. 21- quinquies (per le ipotesi ulteriori ivi contemplate rispetto al recesso), nonché dell’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies.

In aggiunta, la diversa qualificazione degli accordi in esame avrebbe implicazioni anche in riferimento al diritto di recesso ex art. 11, comma 4 riconosciuto in capo all’Amministrazione per sopravvenuti motivi di interesse pubblico.

Invero, secondo i sostenitori della teoria privatistica, il riconoscimento in capo all’Amministrazione del potere di recedere costituirebbe un chiaro indicatore della natura privatistica degli accordi, con il logico corollario che tale potere sarebbe disciplinato dalle relative norme civilistiche.

Secondo i sostenitori della teoria pubblicistica il recesso de quo costituirebbe, invece, espressione del principio di inesauribilità del potere pubblico posto alla base del riconoscimento in capo all’Amministrazione del potere di agire in autotutela, il quale è esercitabile in via generale ogniqualvolta, appunto, sopravvengano motivi di pubblico interesse. La ricostruzione del diritto di recesso ex art. 11, comma 4 come fattispecie di esercizio di un potere di autotutela comporterebbe anche in tal caso rilevanti conseguenze in tema di disciplina, giacché da tale qualificazione discenderebbe la logica conseguenza che ad esso non dovrebbe applicarsi la normativa civilistica, bensì la disciplina dettata dal Capo IV-bis, l. 241/1990 per l’esercizio di poteri in autotutela.

In conclusione, nella rilevanza e nella complessità di tale dibattito un’adesione definitiva e totale all’una o all’altra tesi non pare possibile, posto che nella disciplina positiva sono rinvenibili valide ragioni a sostegno e dell’una e dell’altra. Certamente, una chiara e precisa presa di posizione del legislatore nell’uno o nell’altro senso sarebbe auspicabile ed opportuna, in quanto tali incertezze, come illustrato, non assumono mera rilevanza astratta e dogmatica, bensì presentano notevoli riflessi anche sul piano applicativo.




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