-  Di Marzio Mauro  -  13/07/2015

I DANNI PUNITIVI, L'ELEMENTO PSICOLOGICO E LE IMPUGNAZIONI - Mauro DI MARZIO

Lerici, 26 giugno 2015

 

Sommario: 1. Colpi di testa. — 2. Danni punitivi e punitive damages. — 3. L'impossibile trapianto. — 4. Si fa ma non si dice. — 5. Equivalenza dolo-copla? — 6. Νόμος πάντων βασιλεύς. — 7. La rivincita delle pene private. — 8. Il danno da lite temeraria: illecito di dolo (o colpa grave) o pena privata? — 9. L'isola travolta dallo tsunami del diritto ed altro. — 10. La funzione sanzionatoria rivisitata. — 11. Testate contro il muro.

 

1. Colpi di testa.

 Partirò da un caso che la corte d'appello di Roma ha deciso la settimana scorsa.

Siamo a Roma, nel popoloso e congestionato quartiere S. Giovanni. Un uomo ha parcheggiato l'automobile in sosta vietata, sicché un vigile urbano gli sta facendo la contravvenzione. L'uomo torna proprio in quel momento: ne nasce una discussione all'esito della quale egli assesta una violenta testata in faccia al vigile e gli spacca il naso. A Roma si dice: «Je parte de capoccia».

Segue un processo penale: faccio questa notazione non solo per dare colore al racconto, ma anche per porre l'accento su quanto debole sia l'opinione di chi nega alla responsabilità civile una qualche funzione deterrente-sanzionatoria, sia pure ancillare, dal momento che di ciò si occuperebbe il diritto penale. Ebbene, il processo penale si conclude in questo caso con un patteggiamento: ed a quanto par di capire il reo non intravede, neppure da lontano, i celebri tre scalini del civico 29 di via della Lungara, quelli che danno ingresso al carcere di Regina Coeli e che — come diceva un vecchio stornello — ogni autentico romano dovrebbe aver salito almeno una volta: «A via de la Lungara ce sta 'n gradino / chi nun salisce quelo nun è romano, /nun è romano e né trasteverino» (da «Gira e fai la rota», o «Canto della malavita»). La lezione che il condannato ne ricava non può essere che una: se do una capocciata a un vigile urbano, la cosa non lascia altra traccia (a parte le cicatrici in faccia alla vittima) se non un'annotazione su un pezzo di carta che si chiama certificato penale. Detto in altri termini, affidare la funzione di deterrence, in Italia, alla sanzione penale è semplicemente una favoletta, almeno fin quando i posti in carcere non saranno sufficienti ad ospitare in misura adeguata almeno i rei di delitti gravi, quale a me sembra prendere a testate il prossimo.

Al processo penale segue poi una causa civile nella quale il vigile urbano chiede il risarcimento del danno non patrimoniale subito, rapportato non solo alla frattura del naso, ma anche a lesioni del rachide cervicale e dell'articolazione temporo-mandibolare nonché ad un insorto disturbo post-traumatico da stress. Il giudice fa fare una consulenza medico-legale all'esito della quale il consulente stima il danno biologico da invalidità permanente nella misura del 25%, ritenendo sussistenti e riconducibili alla testata tutte le patologie denunciate dal vigile.

Che fa allora il giudice? Dice che le lesioni del rachide cervicale e della mandibola non sono state refertate al momento del ricovero presso il pronto soccorso, subito dopo il fatto, ma sono emerse soltanto un mese dopo circa: dunque, secondo lui, manca la prova del nesso di causalità (che va provato dal danneggiato, ça va sans dire) tra la testata e le lesioni. Ed infatti, ognuno di noi intende che — tanto per fare un esempio — il danneggiato bene avrebbe potuto darsi delle randellate da solo ovvero farsi dare da un amico delle ulteriori capocciate al punto giusto al fine di rendere più gravosa la posizione del danneggiante …

Quanto al disturbo post-traumatico da stress il tribunale ragiona pressappoco così: un simile disturbo non insorgerebbe mai (non sappiamo quali siano stati gli studi di psichiatria compiuti dal giudice) se non quando «il traumatizzato non fosse già portatore di una personalità fragile, emozionalmente labile, facile alla conflittualità intrapsichica», debolezza in questo caso non provata, con conseguente mancanza di prova del nesso di causalità, ancora una volta, tra il fatto e la malattia.

Alla fine, l'invalidità è ridotta dal giudice dal 25% all'8% ed il risarcimento riconosciuto è di circa € 17.000. Somma — devo dire — dietro il pagamento della quale qualche capocciata a qualcuno, ogni tanto, la darei volentieri anch'io.

Il vigile urbano impugna. Ma vi dirò solo alla fine cosa decide la corte d'appello. Ed il ragionamento che mi appresto a svolgere dovrebbe spiegare il perché.

 

2. Danni punitivi e punitive damages.

 Diffido, come molte autorevoli voci, dall'impiego dell'espressione «danni punitivi» quale equivalente di «punitive damages». Se usate il traduttore di Google, vi dirà che «punitive damages» corrisponde effettivamente in italiano a «danni punitivi». E vi spiegherà anche che tali sono i «damages exceeding simple compensation and awarded to punish the defendant». Ma, se provate a tradurre, sempre con il traduttore di Google, la sola parola «damages», vi dirà che significa «indennizzo», «risarcimento». Ed in effetti «damage» nei sistemi di common law non indica il «danno», il pregiudizio sofferto dalla vittima di un illecito, bensì la somma di denaro al cui pagamento l'autore dell'illecito è tenuto nei confronti della vittima: the sum of money the law imposes for a breach of some duty or violation of some right. Diremmo insomma che «danni punitivi» è una traduzione in certo qual modo ingannevole di «punitive damages» e che una traduzione più corretta sarebbe semmai «risarcimento punitivo».

E, come vedremo, questo equivoco non è privo di conseguenze.

I punitive o exemplary damages consistono nel riconoscimento al danneggiato, prevalentemente in ipotesi di tort, ossia di responsabilità extracontrattuale, di una somma ulteriore rispetto a quella necessaria a compensare il danno subito (compensatory damages), qualora il danneggiante abbia agito con malice (più o meno dolo) o gross negligence (colpa grave).

Il danneggiato, in definitiva, non soltanto riceve una compensazione pari alla perdita subita per effetto del danno inferto, ma si arricchisce conseguendo una somma che va al di là, e spesso ben al di là, del pregiudizio effettivamente patito. A fronte di una condotta particolarmente riprovevole, perché soggettivamente caratterizzata da mala fede o colpa grave, l'ordinamento reagisce dunque in modo più severo di quanto non farebbe dinanzi alla semplice colpa lieve, e ciò ad un duplice scopo di prevenzione generale e speciale (deterrence) nonché di adeguata punizione del responsabile: in ossequio cioè ad una specifica funzione punitivo-afflittiva del congegno risarcitorio così intenso.

Ora, il modello dei punitive o exemplary damages non è nato in Inghilterra, e neppure negli Stati Uniti, ma affonda le sue radici — com'è stato osservato — già nel diritto romano delle origini, nel quale «la responsabilità civile era concepita in primo luogo come strumento sanzionatorio per la tutela di situazioni giuridiche rilevanti». L'actio furti, l'iniuria, il damnum iniuria datum davano luogo all'irrogazione di sanzioni civili sostitutive di quelle penali, all'origine circoscritte al solo campo degli illeciti contro lo Stato e contro la pace del Regno: non ne discendeva il semplice risarcimento del danno ma l'attribuzione di una somma calcolata come multiplo, fino al quadruplo, dell'importo necessario a compensare la lesione.

Di qui, nel corso dei secoli, il sistema della responsabilità civile si è evoluto secondo direttrici diverse nei paesi che oggi definiamo di common law ed in quelli di civil law. In questi ultimi, e dunque anche in Italia, si manifesta una tendenza — riassunta nella formula «secolarizzazione» della responsabilità civile — alla sempre più netta separazione tra il mondo del diritto penale e quello del diritto civile, separazione che, in Italia, è incontrovertibilmente testimoniata in tempi recenti dalla definitiva scomparsa della pregiudizialità penale e, da ultimo, dall'affermarsi, nel campo civile, di una regola concernente il nesso di causalità materiale — quella del «più probabile che non» — radicalmente difforme dalla analoga regola operante in materia penale.

Insomma, è ampia e radicata, negli ordinamenti di civil law, la tendenza, che nel corso del tempo ha accompagnato l"evoluzione del sistema della responsabilità civile, a risolvere «il dilemma risarcimento-punizione» nel senso del primo indirizzo.

La situazione degli ordinamenti di common law è totalmente diversa. In Inghilterra sono documentate già dal 13º secolo condanne in duplum, ad esempio per il tort di trespass, volto a tutelare l'inviolabilità della persona e delle cose da questo possedute contro ogni offesa ed interferenza fisica da parte di terzi.

Dopodiché, nel Regno Unito, risale al 1763 la prima applicazione dei punitive damages nel caso Hukle v. Money: un tipografo era stato arrestato senza motivo e trattenuto per circa sei ore, sicché, sebbene fosse stato per il resto trattato in modo civile e rispettoso, ottenne una condanna al pagamento di £ 300, di gran lunga superiore all'entità del danno effettivamente subito. Dello stesso anno è il caso Wilkes v. Wood: la casa dell'editore di un giornale era stata perquisita ingiustamente, questi agì in trespass ed ottenne parimenti il riconoscimento di punitive damages.

Nella stessa area, tuttavia, lo spazio dei punitive damages si è in seguito sensibilmente contratto a causa dei limiti imposti dalla House of Lords nel caso Rookes v. Barnard, del 1964, con cui è stato chiarito che i danni punitivi possono essere riconosciuti solo:

a) nel caso di violazione grave di diritti fondamentali da parte dell"amministrazione dello Stato;

b) nel caso in cui il danneggiante abbia agito intenzionalmente al fine di conseguire un guadagno ingiusto, sempre che l"applicazione dei compensatory damages non sia sufficiente a riequilibrare la situazione;

c) nei casi previsti dalla legge.

Negli Stati Uniti il principio dei punitive damages fu assunto a precedente giudiziario nel 1791, nel caso Coryell v. Colbought.

Io credo che tutti noi abbiamo una percezione del fenomeno dei punitive damages se non altro attraverso un ampio numero di celebri legal movies. Immagino che tutti ricordino ad esempio John Travolta in A civil action, in cui un piccolo studio legale si indebita fino al collo per far causa a due potenti industrie del Massachusetts, colpevoli di aver inquinato le acque di Woburn, provocando la morte di 12 bambini. Oppure Julia Roberts in Erin Brockovich che indaga sulla Pacific and Gas Company che ha contaminato le falde acquifere di una cittadina californiana, provocando tumori ai residenti; sostenuta dall'avvocato dello studio legale in cui lavora, Erin Brockovich vince la battaglia, ottenendo per i 260 querelanti indennizzi per 330 milioni di dollari. O ancora L'uomo della pioggia, in cui Matt Damon, affiancato da Danny De Vito, ingaggia una difficile battaglia contro una compagnia di assicurazioni che non ha corrisposto il premio ad un giovane malato di leucemia, morto poi per mancanza di cure.

Per un verso, guardando questi film, si prova, a mio parere, la sensazione di un sistema giuridico in cui mancano regole nette, sebbene flessibili, e largo spazio è dato ad una combinazione di emotività della giuria, attitudine istrionica degli avvocati ed arbitrarietà dei giudici; per altro verso percepiamo i punitive damages come una sorta di giustizia popolare dei più deboli contro i ricchi e potenti, tendenzialmente cattivi, le cui malefatte vengono perciò duramente colpite.

Talora i risultati dell'applicazione degli punitive damages sono eufemisticamente discutibili, in particolare nelle controversie etichettate come frivolous lawsuit. Nel caso Liebeck v. McDonald's Restaurants del 1994, ad esempio, una anziana donna ottiene un risarcimento del danno prossimo ai 3 milioni di dollari perché il caffè che le era stato servito era troppo caldo. In effetti, il caso non è così ridicolo come potrebbe apparire sulla base del sommario riassunto che ne ho fatto: il caffè aveva una temperatura di quasi 90°, e la donna, che era in macchina, aveva poggiato il bicchiere tra le ginocchia e lo aveva aperto per aggiungere dello zucchero, sicché il caffè si era rovesciato e le aveva provocato ustioni di terzo grado con conseguente — diremmo noi — danno biologico tutt'altro che trascurabile. Ma, certo è che la somma riconosciuta dalla giuria, pur ridotta poi dal giudice a «soli» $ 640.000, era enormemente sproporzionata rispetto al pregiudizio (ed infatti la donna aveva chiesto $ 20.000), tanto più che, secondo la stessa giuria, il fatto si era verificato in concorso di colpa della danneggiata, che si era rovesciata il caffè addosso.

Sta di fatto che negli ultimi 20 anni la Corte Suprema degli Stati Uniti è intervenuta più volte sui punitive damages, fissando argini sempre più stringenti alla loro applicazione.

Nel caso BMW of North America, Inc. v. Gore, del 1996 (era emerso che la Bmw vendeva come intatte autovetture che durante il trasporto avevano subito modesti danni alla carrozzeria, dietro riparazioni approssimative, senza informare gli acquirenti), la Corte Suprema ha affermato l'incostituzionalità del riconoscimento di punitive damages che siano «grossly excessive».

Nel caso State Farm Mutual v. Campbell, del 2003 (si trattava, diremmo noi, di una condotta di mala gestio da parte di un assicuratore, a seguito di un sinistro stradale), la Corte Suprema ha «riformato» la decisione che aveva quantificato i punitive damages in 145 milioni di dollari, ossia in 145 volte i compensatory damages, intervenendo a perimetrare in modo chiaro e restrittivo i criteri necessari a rendere costituzionalmente compatibile la loro applicazione: la decisione conferma, in particolare, la funzione deterrente dei danni punitivi, ma allo stesso tempo privilegia il collegamento della liquidazione ai fatti di causa ed ai danni realmente patiti dall'attore.

Nel caso Philip Morris USA v. Mayola Williams, del 2007 (si trattava di 79,5 milioni di dollari dovuti a titolo di danni punitivi per aver negligentemente e con inganno causato la morte del marito della ricorrente, in seguito alla produzione e commercializzazione di sigarette) la Corte Suprema ha richiamato la propria precedente giurisprudenza secondo cui «i danni punitivi possono essere propriamente imposti per realizzare un legittimo interesse dello stato a punire una condotta illegittima e disincentivare la sua ripetizione», precisando allo stesso tempo che si deve «evitare una determinazione arbitraria del loro ammontare». La due process clause (XIV emendamento) impone — secondo tale indirizzo — alcuni limiti alla comminazione dei danni punitivi. Dal punto di vista sostanziale, sono incostituzionali i danni punitivi «largamente eccessivi», e cioè quelli non congruenti rispetto ai criteri della riprovevolezza della condotta, del rapporto tra il danno reale e potenziale causato al ricorrente, dell"ammontare delle somme corrisposte in casi analoghi. Dal punto di vista procedurale, quello immediatamente rilevante nel caso esaminato, «la due process clause vieta ad uno stato di usare una condanna al pagamento di danni punitivi per punire il convenuto con riferimento ad un danno cagionato a chi non è parte nel processo o a chi non è direttamente rappresentato dalla parte … cioè a chi è, essenzialmente, estraneo alla controversia processuale».

 

3. L'impossibile trapianto.

 A me pare che un trapianto dei punitive damages, sic et simpliciter, in Italia sia all'evidenza impraticabile. E ciò non soltanto perché, a differenza di quanto accade da noi, la decisione è presa negli Stati Uniti dalla giuria, ossia da una personificazione del popolo, che può come tale irrogare la sanzione che ritiene, senza neppure dover motivare.

Ho detto poc'anzi che una traduzione corretta della formula punitive damages, più che «danni punitivi», può essere «risarcimento punitivo». Ma «risarcimento punitivo», se inteso nel senso di risarcimento ultracompensativo, è un ossimoro, perché il danno da risarcire è per noi nient'altro che la «perdita» alla quale si riferisce, unitamente al «mancato guadagno», l'articolo 1223 c.c., applicabile nel campo aquiliano per il tramite dell'articolo 2056 c.c.. Il nostro modello risarcitorio, cioè, si colloca in pieno nella tradizione «differenzialista», alla luce della quale il danno altro non è — lo dico ora in maniera molto rudimentale, ma qui non sarebbe utile sottilizzare — che la differenza tra il prima e il dopo l'illecito. D'altro canto, se pensiamo all'articolo 2058 c.c., secondo cui il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, ma il giudice può negarla, e disporre che il risarcimento avvenga per equivalente, se la reintegrazione risulta eccessivamente onerosa, credo possiamo arguire che la reintegrazione in forma specifica costituisca un limite del risarcibile aquiliano.

In definitiva i punitive damages sono veri e propri «alieni», insuscettibili «di essere trasposti nell'esperienza italiana».

Questo non vuol dire che possano essere condivise le decisioni della S.C. in materia di danni punitivi, dalle quali dissento integralmente.

I casi sono noti.

Nel 2007 la S.C. è chiamata ad esaminare una decisione della corte d'appello di Venezia che aveva respinto una domanda di delibazione di una sentenza statunitense che recava il riconoscimento di punitive damages per un milione di dollari. Si trattava di una controversia in materia di products liability introdotta dalla madre di un motociclista deceduto a causa di un sinistro stradale reso letale per il fatto che, a seguito della caduta, egli aveva perduto il casco a causa della rottura della fibbia di chiusura, prodotta da una società italiana.

Dice in proposito la Corte di cassazione, in una sentenza che un chiaro autore ha definito «sciattamente perentoria e supponentemente apodittica»: «Nel vigente ordinamento l'idea della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tende ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato, ma occorre altresì la prova dell'esistenza della sofferenza determinata dall'illecito» (Cass. 19 gennaio 2007, n. 1183).

Il successivo caso è del 2012. Si tratta nuovamente di products liability: una lavoratrice che aveva subito gravi lesioni fisiche a causa del mal funzionamento di un macchinario prodotto in Italia si era vista riconoscere un risarcimento di 5 milioni di dollari, senza, tuttavia, che la decisione facesse riferimento alcuno ai punitive damages. In questo caso la corte d'appello di Torino aveva accolto la domanda di riconoscimento della sentenza, ma la pronuncia è stata cassata con l'affermazione del principio: «Nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non é riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive — restando estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta — ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l'arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro. E quindi incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto dei danni punitivi» (Cass. 8 febbraio 2012, n. 1781).

Ora, dire che il risarcimento del danno, ed ancor più la responsabilità civile nel suo complesso, si muove esclusivamente sul binario della compensazione, restando estranea al sistema l'idea della punizione, è, per dirla con Talleyrand, peggio che un crimine, è un errore.

Come cercherò di spiegare.

 

4. Si fa ma non si dice.

 Visto che la Cassazione dice che «l'idea della sanzione è estranea al risarcimento del danno», come si comportano i giudici?

A volte il loro atteggiamento è di apparente sottomissione al principio così enunciato. Ma poi, cionondimeno, fanno per così dire a modo loro. Citerò due casi, molto diversi, in cui tale atteggiamento mi sembra evidente.

Il primo caso ha a che fare con la vicenda dei cosiddetti «ecomostri» di Punta Perotti, a Bari. Si sa che la costruzione fu ad un dato momento ritenuta urbanisticamente illegittima, e che gli immobili furono confiscati (in forza di una decisione della Cassazione penale) e conseguentemente abbattuti in diretta televisiva; e si sa anche che la CEDU ritenne in seguito illegittima la confisca degli immobili medesimi poi abbattuti, condannando lo Stato a pagare agli ex proprietari degli ecomostri la non indifferente sommetta di 49 milioni di euro. Non è questo però che ci interessa.

Quello che ci interessa è un"azione civile promossa dalla figlia di Antonio de Curtis, Totò, contro l"associazione «Il Popolo della Libertà», per ottenere il risarcimento dei danni subiti in seguito all"affissione per circa un mese nella città di Bari di manifesti politici che riproducevano l"immagine addolorata dell"attore con la sua famosa esclamazione «… e io pago!», insieme al simbolo del partito politico «Il Popolo della Libertà – Berlusconi Presidente» e la fotografia dei palazzi di Punta Perotti mentre venivano abbattuti al suolo. Il giudice ritiene che l'immagine di Totò sia stata illegittimamente impiegata e condanna il partito al risarcimento del danno non patrimoniale subito da Liliana de Curtis.

Il giudice prende atto che «la nostra giurisprudenza di legittimità è saldamente attestata nel senso di ritenere che, nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive – restando estranea al sistema l"idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta – ma in relazione all"effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l"arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all"altro, onde è incompatibile con l"ordinamento italiano l"istituto dei danni punitivi».

Dopodiché condanna il partito a risarcire il danno mediante le tabelle milanesi per il danno da morte: come, cioè, se Liliana de Curtis avesse subito per effetto dell'illecito un danno paragonabile alla perdita del rapporto parentale con il padre.

Ora, se non è sanzionatoria una condanna del genere…

Un altro caso. La sentenza della Cassazione sul caso CIR-Fininvest. La vicenda è nota. La famiglia Formenton, proprietaria di un cospicuo pacchetto azionario di Mondadori, stipula con la CIR di Carlo De Benedetti un accordo concernente la permuta di proprie azioni. Poi, però, i Formenton si risolvono a trasferire alla Fininvest di Silvio Berlusconi il pacchetto promesso precedentemente in permuta alla CIR. Ne nasce un giudizio arbitrale vertente su una questione classica: se, cioè, l'accordo iniziale Formenton-CIR fosse o no, in buona sostanza, un preliminare di contratto. Il collegio arbitrale da ragione a CIR. Il lodo è impugnato dinanzi alla corte di appello di Roma che lo annulla, capovolge il verdetto e dà ragione a Fininvest. La sentenza è impugnata per cassazione, ma il ricorso viene abbandonato perché CIR e Fininvest raggiungono nel frattempo un accordo transattivo. In seguito emerge che il giudice estensore della sentenza d'appello che ha annullato il lodo è stato corrotto. Tale sentenza, però, non è impugnata per revocazione per dolo del giudice. Viene invece introdotta da CIR dinanzi al tribunale di Milano una causa ordinaria di risarcimento del danno nei confronti di Fininvest, causa che, come tutti sanno, si conclude, all'esito della pronuncia d'appello, con una condanna di Fininvest a pagare a CIR € 540.141.059. Condanna che, dunque, travolge indirettamente la sentenza della corte d'appello di Roma, sebbene forte dell'autorità del giudicato, non essendo stata impugnata né illo tempore per cassazione, né, successivamente, per revocazione straordinaria. La sentenza della corte d'appello di Milano che condanna Fininvest a pagare a CIR € 540.141.059 è infine confermata dalla Corte di cassazione (Cass. 17 settembre 2013, n. 21255).

Quest'ultima decisione prende, in particolare, espressamente posizione sulla natura dell'azione aquiliana che, per la corte di cassazione, resta «tutta iscritta nella tradizionale orbita riparatoria/compensativa della responsabilità civile, nella quale l'intensità del dolo e la gravità della colpa non sono (ancora) destinati a giocare un ruolo decisivo ai fini della pronuncia risarcitoria».

Ora, l'avverbio «ancora», collocato tra parentesi, pesa in questo caso più di un macigno ed autorizza a supporre che, al di là delle stringenti argomentazioni tecniche che sorreggono tale pregevole pronuncia, ciò che sta veramente alla base della decisione adottata (soprattutto, secondo me, per quanto riguarda il superamento dell"eccezione di giudicato derivante dalla mancata impugnazione per revocazione) altro non è che il principio assolutamente incoercibile secondo cui il delitto — in questo caso la corruzione del giudice — non può pagare mai e in nessun caso.

Con questi esempi potrei andare avanti a lungo.

 

5. Equivalenza dolo-colpa?

 Ma è poi vero, come dice la sentenza resa sul caso Fininvest-CIR, che nella responsabilità civile «l'intensità del dolo e la gravità della colpa non sono … destinati a giocare un ruolo decisivo»? Ed è vero, come recita la sentenza del 2007 poc'anzi citata, che ha negato il riconoscimento della sentenza statunitense che aveva riconosciuto punitive damages, che «l'idea della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante»?

In effetti il tema si collega a quello del dogma dell'equivalenza dolo-colpa, il quale si fonda sulla lettera dell'articolo 2043 c.c., che richiede indifferentemente per la sussistenza dell'illecito l'uno o l'altro requisito, senza apparentemente riconnettere alla coloritura soggettiva della condotta alcun rilievo. Il dogma dell'equivalenza dolo-colpa si interseca con quello dei punitive damages: se il nostro ordinamento non distingue tra l'uno e l'altro elemento soggettivo, neppure ha senso immaginare trattamenti differenziati a seconda che la condotta dell'agente sia o no particolarmente riprovevole.

Per la verità, almeno fino a qualche anno fa, mi pare che la funzione sanzionatoria della responsabilità civile — naturalmente non esclusiva, ma concorrente con quella risarcitoria: nulla infatti impedisce che la responsabilità civile risponda ad una pluralità di funzioni — fosse testimoniata ampiamente dall'ormai defunto articolo 2059 c.c., il quale contemplava il risarcimento del danno non patrimoniale, eventualmente in aggiunta a quello patrimoniale, soltanto in caso di condotte sensibilmente gravi e riprovevoli, quali quelle che integravano gli estremi del reato.

Ed ancora, nello stesso senso del riconoscimento di una concorrente funzione sanzionatoria della responsabilità civile, mi sembra potesse richiamarsi l'indirizzo ampiamente diffuso che, in caso di lesione di diritti della personalità, discorreva di danno in re ipsa.

La svolta del 2003-2008 (mi riferisco ovviamente a Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827-8828 ed a Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972) ha sotto quest'aspetto segnato un punto contro la funzione sanzionatoria, per un verso «abrogando» di fatto l'articolo 2059 c.c., per altro verso aderendo, peraltro condivisibilmente, ad una prospettiva strettamente consequenzialialista, in forza della quale il danno risarcibile non è mai in re ipsa, giacché esso consiste nelle ricadute, patrimoniali o non patrimoniali, che si verificano a valle della lesione dell'interesse protetto.

 

6. Νόμος πάντων βασιλεύς. 

 E tuttavia vi è indubbiamente una vasta area di illeciti in cui la colpa (levis) non basta, ma occorre il dolo o la colpa grave. Questo punto non può essere posto in dubbio, è la legge che lo stabilisce.

Basti pensare:

-) alla responsabilità del giudice: «Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali» (articolo 2, primo comma, legge 13 aprile 1988, n. 117, recentemente novellata);

-) alla responsabilità degli arbitri, che parimenti rispondono dei danni cagionati alle parti con dolo o colpa grave (articolo 813 ter c.p.c.);

-) alla responsabilità del cancelliere e dell'ufficiale giudiziario, che «sono civilmente responsabili quando hanno compiuto un atto nullo con dolo o colpa grave» (articolo 60, n. 1, c.p.c.);

-) alla responsabilità del consulente di cui all'articolo 64 c.p.c., prevalentemente interpretato nel senso che anche il consulente risponde solo per colpa grave (v. p. es. in motivazione Cass. 20 ottobre 2003, n. 15646)

-) alla responsabilità dei pubblici dipendenti, riguardo ai quali occorre ricordare che : «È danno ingiusto … quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave» (articolo 23 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3);

-) alla responsabilità del proprietario del suolo in caso di accessione, ai sensi dell'articolo 935 c.c.: egli, in ipotesi di opere fatte con materiali altrui, deve il risarcimento dei danni solo se è in colpa grave;

-) alla responsabilità per il caso di unione e commistione, ai sensi del terzo comma dell'articolo 939 c.c.;

-) alla responsabilità processuale aggravata prevista dall'articolo 96 c.p.c., di cui parlerò tra breve;

-) alla responsabilità del querelante prevista dall'articolo 427 c.p.p., secondo il quale: «Se vi è colpa grave, il giudice può condannare il querelante a risarcire i danni all'imputato e al responsabile civile che ne abbiano fatto domanda».

D'altronde, il dogma dell'equivalenza di dolo e colpa trova precise smentite già sul piano generale. Traccia fondamentale di ciò si rinviene, anzitutto, nell"articolo 1227, primo comma, c.c., ossia in una disposizione che chiama in causa la gravità della colpa ascrivibile al danneggiato come criterio per la diminuzione del risarcimento dovuto: il che simmetricamente mostra che il residuo risarcimento riconosciuto è parametrato al grado della colpa ascrivibile al danneggiante.

 

7. La rivincita delle pene private.

 Vi è d'altro canto un ampio numero di casi in cui l'ordinamento — diremmo in controtendenza rispetto al movimento che vede il sistema della responsabilità civile affrancarsi dalla sua origine e discendenza sanzionatoria — pone a carico del danneggiante pene private derivanti dall'illecito civile: pene private che, cioè, si risolvano nella condanna al pagamento di una somma in favore della vittima priva di effettiva correlazione con il pregiudizio subito. Esse, a seconda dei casi, si cumulano, si integrano o si sostituiscono al risarcimento.

Ed infatti:

i) l'articolo 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (c.d. legge sulla stampa) prevede che, ove l'articolista commetta il reato di diffamazione a mezzo di stampa, la persona offesa possa richiedere, «oltre il risarcimento dei danni», anche «una somma a titolo di riparazione», alla quale viene pacificamente riconosciuta natura sanzionatoria, commisurata «alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato»;

ii) l'articolo 70 disp. att. c.c., modificato dalla riforma del condominio, stabilisce che il regolamento condominiale può prevedere, a carico del condomino che incorra nella violazione di una sua previsione ed a favore del condominio stesso, «il pagamento di una somma fino a € 200 e, in caso di recidiva, fino ad € 800», che va ad aggiungersi a quanto il condomino inottemperante è tenuto a versare al condominio e/o ad uno o più condomini e/o a terzi a titolo di risarcimento danni, secondo le regole generali;

iii) il decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259, convertito con modificazioni dalla legge 20 novembre 2006, n. 281, prevede che, in caso di pubblicazione da parte di mass media di documenti «illegittimamente formati» ovvero di «documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni», l'autore della pubblicazione, il direttore responsabile e l'editore sono tenuti, in solido fra loro ed a favore della vittima, ad una prestazione «a titolo di riparazione» (ma si tratta evidentemente di una sanzione), consistente in una «somma di denaro determinata in ragione di cinquanta centesimi per ogni copia stampata, ovvero da 50.000 a 1.000.000 di Euro secondo l'entità del bacino di utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico. In ogni caso, l'entità della riparazione non può essere inferiore a 10.000 Euro»: ciò, beninteso, anche se l'illecito non abbia cagionato un danno alla vittima, che può chiedere anche il «risarcimento del danno», nel qual caso «il giudice tiene conto, in sede di determinazione e liquidazione dello stesso, della somma corrisposta» ai sensi della precedente previsione;

iv) il Regolamento 261/2004/CE, con riguardo ai voli in partenza da o in arrivo in un Paese dell'Unione Europea, stabilisce che, in ipotesi di «negato imbarco a passeggeri non consenzienti» ovvero di «cancellazione del volo», il vettore sia tenuto a corrispondere ai passeggeri che ne siano rimasti vittima una «compensazione pecuniaria» (è chiaro però anche qui che si tratta di una sanzione) da € 250 ad € 600; anche in questo caso se il passeggero chiede il risarcimento del danno la «compensazione pecuniaria» già menzionata «può» (quindi non necessariamente deve) essere detratta dal risarcimento;

v) il titolare di un marchio, di un brevetto o di un altro diritto di «proprietà industriale» può, in caso di lesione del suo diritto, «chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante» (articolo 125, comma 3, d.lgs 10 febbraio 2005, n. 30: «Codice della proprietà industriale»); ed è ancora una volta chiaro che il disgorgement of profits o retroversione degli utili, che risponde per l'appunto al principio «l'illecito non può pagare», possiede una schietta funzione deterrente-sanzionatoria e non certo compensativa;

vi) una regola analoga si applica in caso di violazione del diritto di utilizzazione economica di opera tutelata dal diritto d'autore (articolo 158, l. 22 aprile 1941, n. 633, recante «Protezione del diritto di autore e di altri diritti connessi al suo esercizio»); difatti la vittima dell'illecito può, almeno per quanto riguarda il «lucro cessante», optare, in luogo dell'ordinaria prestazione risarcitoria, per una prestazione sganciata dal danno effettivamente sofferto dalla vittima;

vii) in un'ottica certamente non compensativa ma deterrente-sanzionatoria vanno lette talune disposizioni dettate al fine di conseguire il rispetto delle pronunce giudiziali; nel 2009, in particolare, il legislatore ha introdotto nel codice di rito l'articolo 614-bis c.p.c., in forza della quale, tutte le volte in cui pronuncia la condanna ad un facere infungibile ovvero ad un non facere, il giudice, se richiesto dall'interessato, può fissare una prestazione pecuniaria che il condannato dovrà alla controparte in caso ritardo o inosservanza della pronuncia, ovvero di ritardo nella sua esecuzione, prestazione da quantificarsi in considerazione del «valore della controversia», della «natura della prestazione», del «danno quantificato o prevedibile» e di «ogni altra circostanza utile»; anche in questo caso si tratta di previsione dall'evidente finalità deterrente-sanzionatoria, non correlata ad un preciso danno, per definizione non ancora venuto ad esistenza;

viii) l'articolo 187-undecies d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.u.f.) prevede che, in ipotesi di «abuso di informazioni privilegiate» o di «manipolazione del mercato», la Consob possa porre a carico dell'autore del reato la «riparazione del danno cagionato dal reato all'integrità del mercato», da quantificarsi in relazione all'«offensività del fatto», alle «qualità personali del colpevole», all'«entità (...) del profitto conseguito dal reato».

Ipotesi riconducibili alla categoria delle pene private, inoltre, si rinvengono già nel codice civile:

— così nella previsione dell'articolo 129 bis c.c., rubricato «Responsabilità del coniuge in mala fede e del terzo», norma che, anche a prescindere dalla prova del danno sofferto, riconosce a favore del coniuge in buona fede, una congrua indennità posta a carico del coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio;

— così nella previsione dell'articolo 1385 c.c., il quale consente che le parti stabiliscano contrattualmente che, in caso di inadempimento, la parte insoddisfatta, in alternativa all'ordinario rimedio della risoluzione del contratto, con il correlativo risarcimento del danno, possa recedere dal contratto, conseguendo una somma pari alla «caparra confirmatoria», corrisposta da una parte all'altra al momento della conclusione del contratto;

— così nell'ipotesi della clausola penale prevista dall'articolo 1382 c.c., che consente di predeterminare la prestazione che il contraente inadempiente sarà tenuto ad effettuare nei confronti dell'altra, «indipendentemente dalla prova del danno»; la già citata Cass. 19 gennaio 2007, n. 1183 afferma che la clausola penale non avrebbe carattere sanzionatorio, ma in altra occasione è stato affermato che «nel disciplinare l"istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all"autonomia delle parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l"ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest"ultimo una sanzione per l"inadempimento (aspetto sanzionatorio della penale), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private» (Cass., Sez. Un., 13 settembre 2005, n. 18128; in senso conforme Cass. 28 settembre 2006, n. 21066; Cass. 24 settembre 1999, n. 10511; Cass. 23 maggio 2003, n. 8188); è d'altronde vero che la penale può essere ridotta, anche d'ufficio, dal giudice, ove il suo ammontare risulti «manifestamente eccessivo», manifestamente eccessivo però rispetto non già al danno concretamente sofferto dal creditore insoddisfatto, bensì all'interesse che il creditore aveva all'adempimento, sicché il controllo giudiziale attiene per l'appunto alla sproporzione della sua funzione sanzionatoria, non a quella risarcitoria, che non c'è;

— così nell'ipotesi dell'articolo 1224 c.c., che rimette al creditore di una prestazione pecuniaria tardivamente eseguita la scelta fra il risarcimento del danno, eventualmente eccedente la misura degli interessi legali, ed il riconoscimento degli interessi legali, senza necessità di dimostrare di aver effettivamente sofferto un danno; essendo altresì precluso al debitore inadempiente la prova dell'inesistenza di danni ovvero dell'esistenza di danni di entità inferiore.

A quest'ultimo riguardo non può mancarsi di rammentare che la tendenza dell'ordinamento è ad aggravare il trattamento riservato al debitore inadempiente, come dimostrano:

a) l'articolo 3, terzo comma, della legge 18 giugno 1998, n. 192, recante «Disciplina della subfornitura nelle attività produttive», il quale prevede che, in caso di ritardo nel pagamento dei corrispettivi pecuniari dovuti da un'impresa committente ad un'impresa subfornitrice a fronte della fornitura di beni o servizi, quest'ultima debba corrispondere interessi rapportati ad un determinato interesse praticato dalla BCE, maggiorato di otto punti percentuali;

b) gli articolo 2 e 5 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, recante «Attuazione della Direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali», in caso di ritardo nei pagamenti dovuti da una pubblica amministrazione ad un imprenditore o ad un libero professionista, ovvero da un imprenditore o da un libero professionista ad un altro imprenditore o libero professionista, a fronte della fornitura di merci o della prestazione di servizi, prevede che il creditore ottenga interessi in misura ancora una volta pari ad un tasso BCE maggiorato di otto punti percentuali.

Segnalo infine, visto che il titolo della relazione allude anche alle impugnazioni, che in quel campo il legislatore è intervenuto a scoraggiare condotte di abuso del processo, sia con il novellato articolo 283 c.p.c., che consente di sanzionare le richieste di sospensiva palesemente infondate, sia con il raddoppio del contributo unificato a carico del perdente, sia, più in generale, con l"introduzione del «filtro», che sembra peraltro avviarsi a sparire. Qui, però, non siamo propriamente al cospetto di pene private, giacché la sanzione prevista dall"articolo 283 c.p.c., così come il raddoppio del contributo unificato, va a vantaggio dello Stato, non della controparte.

Ora, tutto questo è già più che sufficiente a constatare l"erroneità delle due decisioni della S.C. che hanno negato il riconoscimento a sentenze americane che condannavano al pagamento di punitive damages: per l"elementare ragione che, come si diceva, i punitive damages non sono danni, non hanno a che fare col risarcimento, ma sono sanzioni, e come tali appaiono tutt"altro che disomogenee rispetto all"ordinamento interno, a fronte dell"ampia previsione di prestazioni sanzionatorie che, come si è visto l"ordinamento prevede.

Com"è possibile dunque dire che, in tale ottica, i punitive damages contrastano con l"ordine pubblico?

 

8. Il danno da lite temeraria: illecito di dolo (o colpa grave) o pena privata?

 Un cenno, in particolare, merita a questo punto il tema della responsabilità per lite temeraria prevista dall'articolo 96 c.p.c., nel quale il legislatore ha inserito un terzo comma che consente al giudice di condannare d'ufficio la parte che abbia agito con mala fede o colpa grave «al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».

Ricordo inoltre l'attuale testo dell'articolo 26, primo comma, d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo), secondo cui:

— il giudice, oltre a provvedere sulle spese del giudizio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati;

— il giudice condanna d'ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio.

La lettera del primo comma dell"articolo 96 c.p.c., secondo cui il giudice condanna il soccombente «al risarcimento dei danni», sta alla base della assolutamente prevalente opinione della giurisprudenza, e così pure della dottrina, secondo cui tale norma si pone in rapporto di specialità rispetto alla regola generale dettata dall'articolo 2043 c.c.. L"articolo 96 c.p.c. — viene cioè ripetuto in massima — contiene la disciplina integrale e completa della responsabilità processuale aggravata e si pone con carattere di specialità rispetto all'articolo 2043 c.c., di modo che la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina dell'articolo 96, né è configurabile un concorso, anche alternativo, tra i due tipi di responsabilità (tra le tante Cass. 20 luglio 2004, n. 13455).

Alcune domande, allora. Perché, occorre chiedersi, l'articolo 96 c.p.c? Non sarebbe bastato l"articolo 2043 c.c.? Quale, insomma, l'esigenza che ha indotto il legislatore ad introdurre, accanto alla norma fondamentale dettata in tema di responsabilità civile, una specifica disposizione volta a disciplinare il risarcimento del danno processuale da lite temeraria? E se non vi fosse stato l"articolo 96 c.p.c., le condotte che esso colpisce sarebbero rientrate nell"ambito di applicazione dell"articolo 2043 c.c.?

Le risposte sembrano abbastanza agevoli.

La disciplina aquiliana non comporta il risarcimento di qualunque danno, ma soltanto, secondo l'articolo 2043 c.c., del danno «ingiusto»: e tale non è, di regola, quello inferto nell'esercizio di un diritto. Ma l"agire ed il resistere in giudizio sono appunto diritti fondamentali tutelati dall'articolo 24 Cost., e l"esercizio di un diritto costituzionale non può, in linea di principio, arrecare danni ingiusti. Ecco, allora, che il principio qui iure suo utitur neminem laedit trova in questo caso un limite, per volere del legislatore, nella connotazione soggettiva dell'iniziativa giudiziaria: e ciò, intuitivamente, per ragioni non distanti da quelle sottese alla soluzione già adottata illo tempore dalle Istituzioni di Giustiniano, nel «De poena temere litigantium». Mutati i tempi, le ragioni che inducono a scoraggiare le liti temerarie attengono tuttora all'attitudine lesiva delle iniziative giudiziarie — le quali possono incidere anche pesantemente sulla vita e sugli affari degli uomini — insieme con il pregiudizio complessivamente arrecato all"efficiente funzionamento del sistema giudiziario, indispensabile tassello dell"ordine sociale.

Mala fede e colpa grave, in altri termini, rendono ingiusto un danno che, altrimenti, non lo sarebbe: e dunque l"articolo 96 c.p.c. consente di colpire condotte che, nel quadro di applicazione dell"articolo 2043 c.c., non genererebbero alcuna responsabilità risarcitoria. Perciò, se è vero che il danno processuale ex articolo 96 c.p.c. è una specie di danno aquiliano, è altrettanto vero che il requisito dell'ingiustizia, nel bilanciamento degli interessi in gioco, sussiste qui soltanto quando l'agire del danneggiante sia caratterizzato dal requisito del dolo o della colpa grave. Non potrebbe infatti ammettersi una responsabilità processuale in caso di culpa levis, giacché il diritto di agire e resistere in giudizio è diritto «che deve essere esercitato liberamente e che perciò non tollera remore eccessive; e remora eccessiva all'esercizio di tale diritto sarebbe, per la parte, la prospettiva di andare incontro alla comune responsabilità per fatti illeciti sanzionata dalla norma dell'articolo 2043 c.c. e quindi anche per colpa lieve» (Cass., Sez. Un., 6 febbraio 1984, n. 874).

Ebbene, nel settore del risarcimento del danno da lite temeraria la caratura sanzionatoria va emergendo con sempre maggiore vigore, soprattutto grazie al riconoscimento della liquidazione del danno non patrimoniale (Trib. Bologna 27 gennaio 2005, in Danno e resp., 2005, 682; in Giur. merito, 2005, 1780; Trib. Reggio Emilia 31 maggio 2005, personaedanno.it; Trib. Bologna 20 settembre 2005, in Fam. pers. succ., 2005, 565; Trib. Bologna 30 dicembre 2005, personaedanno.it; Trib. Genova 12 settembre 2006, D&G, 2006, 45, 30; Trib. Roma 18 ottobre 2006, D&G, 2006, 45, 36).

L'articolo 96 c.p.c., in definitiva, costituisce, quantomeno nel suo primo comma, esempio paradigmatico dell'indissolubile collegamento tra la funzione compensativa e quella deterrente-sanzionatoria del risarcimento del danno.

Oggi, l'inserimento del terzo comma comporta delicati problemi interpretativi; nel prevedere che il giudice possa «in ogni caso», ed «anche d'ufficio», «condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata», pone il quesito se detta disposizione preveda un'ulteriore ipotesi di pena privata (la S.C. non ha esitato a qualificare la disposizione come recante una «vera e propria pena pecuniaria, indipendente (...) dalla prova di un danno riconducibile alla condotta processuale dell'avversario» (Cass. 30 luglio 2010, n. 17902), o addirittura di veri e propri «danni punitivi», come è stato ritenuto da parte della giurisprudenza di merito (Trib. Piacenza 7 dicembre 2010, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 435; Trib. Piacenza 22 novembre 2010, in Giur. merito, 2011, 2700; Trib. Milano 4 marzo 2011, in Foro it., 2011, I, 2184; Trib. Varese 23 gennaio 2011, in Resp. civ. prev., 2010, 1828; in Foro it., 2010, I, 2229; Trib. Varese 16 dicembre 2011, www.ilcaso.it; Trib. Varese 30 ottobre 2009, in Giur. merito, 2001, 431; Trib. Rovigo 7 dicembre 2010, in Il Civilista, 2011, 10; Trib. Prato 6 novembre 2009, in Foro it., 2010, I, 2229; Trib. Pordenone 18 marzo 2011, www.ilcaso.it).

Qui però non ci interessa approfondire questo punto, o meglio, l'approfondimento richiederebbe troppo tempo. Mi limito a dire che secondo la mia opinione:

a) l"applicazione del terzo comma presuppone necessariamente il dolo o la colpa grave previsti dal primo comma, giacché, altrimenti, verrebbe sanzionata l"azione in giudizio anche non temeraria, il che contrasterebbe con l"articolo 24 Cost.;

b) se l"articolo 96 c.p.c. pone un"ipotesi speciale di torto aquiliano, la coerenza dell"istituto va mantenuta e, dunque, va escluso che il giudice possa condannare a pagare somme ulteriori rispetto al danno effettivamente sofferto.

 

9. L'isola travolta dallo tsunami del diritto ed altro.

 C'è un settore, quello della responsabilità endofamiliare, che veniva considerata un'«isola», diceva un tempo Jemolo, «che il mare del diritto può lambire soltanto», giacché «la sua intima essenza rimane metagiuridica».

Il settore fa oggi a pieno titolo parte della responsabilità civile. In esso — questo il punto che mi preme sottolineare — la fa da padrone proprio il dolo, se non addirittura la volontà di prevaricazione, che costituisce la regola e non l'eccezione.

Basti pensare, senza alcuna pretesa di completezza:

-) alla pronuncia della S.C. che ha affermato il principio secondo cui: «Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia ... costituisce il presupposto logico della responsabilità civile» (Cass. 10 maggio 2005, n. 9801); la caratura sanzionatorie di questa decisione è manifestamente evidente, giacché volta a censurare la «condotta illecita e contraria ai canoni di lealtà, correttezza e buona fede» posta in essere da un uomo in vista del matrimonio per non aver informato la futura moglie «prima delle nozze delle sue condizioni fisico-psichiche o della sua incapacità coeundi, e per aver omesso dopo il matrimonio, onde evitare che le sue condizioni di salute fossero conosciute da terzi, di sottoporsi alle opportune cure»;

-) alla pronuncia che ha condannato una donna che aveva maliziosamente indotto il proprio compagno a credere di essere il padre del figlio che ella aspettava (App. Milano 12 aprile 2006, www.personaedanno.it);

-) alla pronuncia che, nel condannare al risarcimento del danno un marito resosi responsabile di una relazione extraconiugale, ha assegnato particolare rilievo alla circostanza che, al momento della scoperta dell'infedeltà, questi aveva reagito con violenza, assecondato e aiutato dall"amante, la quale aveva afferrato la sventurata per i capelli, trascinandola sull"asfalto (Trib. Venezia 3 luglio 2006, www.personaedanno.it);

-) alla pronuncia risarcitoria resa a favore della ex convivente per la condotta omissiva del compagno che aveva volontariamente ritardato ad allontanarsi dalla ex casa familiare (Trib. Bologna 12 ottobre 2005, www.personaedanno.it);

-) alla pronuncia che ha condannato un padre «cattivo» al risarcimento dei danni cagionati alla figlia tardivamente riconosciuta (Trib. Venezia 30 giugno 2004, Guida al dir., 2004, 42, 61);

-) alla pronuncia di condanna del padre, genitore affidatario, al risarcimento del danno esistenziale in favore della madre per la privazione del rapporto con il figlio (Trib. Monza 2 dicembre 2004, www.personaedanno.it);

-) alla pronuncia risarcitoria, di rilevanti proporzioni, in caso di danno da mancato mantenimento paterno (App. Bologna 10 febbraio 2004, www.personaedanno.it).

In tema di responsabilità endofamiliare occorre altresì ricordare l"introduzione nell"ordinamento dell"articolo 709-ter c.p.c., che, dopo aver fissato la competenza concernente le controversie insorte tra i genitori in ordine all'esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell'affidamento, stabilisce che, a seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni e, oltre a poter ammonire il genitore inadempiente, può:

i) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;

ii) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell'altro;

iii) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.

Secondo diverse decisioni di merito, la nuova norma manifesterebbe una evidente affinità con la figura dei punitive damages, giacché attribuisce decisivo rilievo alla gravità della condotta genitoriale (Trib. Vallo Lucania 7 marzo 2007, in La resp. civ., 2007, 472; Trib. Messina 5 aprile 2007, in Giur. merito, 2008, 1584; Trib. Novara 21 luglio 2011, in Fam. dir., 2012, 612). La questione è ampiamente discussa, e non v"è ragione che io prenda posizione, tanto più che alla responsabilità civile in famiglia è dedicata una specifica sezione di questo convegno.

Merita altresì rammentare un ulteriore intervento diretto a colpire gli illeciti endofamiliari attraverso appropriate misure di tutela nei confronti dei familiari lesi: mi riferisco agli «ordini di protezione contro gli abusi familiari» di cui agli articoli 342 bis e 342 ter c.c., previsione alla quale mi limito soltanto ad accennare.

Tornando alla giurisprudenza, un altro settore in cui il rilievo dell"elemento soggettivo è assai ampio è quello dei danni cagionati dalla pubblica amministrazione (un campo di applicazione elettiva anche dei punitive damages), in cui, la condotta del danneggiante è spesso caratterizzata da sordità e protervia. Possiamo pensare, tanto per fare un paio di esempi:

-) alle condanne pronunciate nei confronti della pubblica amministrazione che aveva rifiutato di cancellare una sanzione amministrativa per violazione del codice della strada palesemente infondata (GdP Perugia 26 aprile 2000, in Arch. giur. circ. sin. strad., 2000, 697; in Giur merito, 2001, 373; GdP Bologna 8 febbraio 2001, in Danno e resp., 2001, 981; in Giur it., 2001, 537);

-) o alla condanna per la condotta della commissione di laurea che aveva assegnato alla candidata un voto palesemente non in linea con i risultati degli esami sostenuti (Trib. Bologna 20 gennaio 2003, in Gius, 2003, 1121; in Danno e resp., 2003, 878);

-) o alla condanna pronunciata a favore di due contribuenti per la condotta persecutoria posta in essere dal fisco (Trib. Venezia 23 aprile 2007, www.personaedanno.it).

-) o alla violazione dell'immagine della P.A., a seguito della corruzione di forze del'ordine (Corte conti, Sez. Un., 23 aprile 2003, n. 10/SR/QM);

-) o alla falsificazione di un registro postale, con rinvio al mittente di un plico raccomandato (Trib. Alba 9 agosto 2004, personaedanno.it);

-) o al pestaggio da parte dei poliziotti contro i manifestanti a un corteo a Genova (Trib. Genova 9 maggio 2005, personaedanno.it; Trib. Genova 5 luglio 2007, personaedanno.it).

Un altro settore da ricordare è quello del risarcimento del danno provocato dal contraente forte il quale, incorrendo in una condotta forse quasi più grave del dolo, si disinteressa del contraente debole. Sovviene, tra le altre decisioni nelle quali non mancano talora alcuni tratti alquanto naïf:

-) la pronuncia che ha condannato le Ferrovie dello Stato per le indecorose condizioni in cui aveva lasciato i passeggeri nel corso di un viaggio conclusosi con enorme ritardo (GdP Bari 24 maggio 2006, www.dottrinaediritto.it);

-) la pronuncia che ha condannato un gestore di telefonia mobile al risarcimento del danno da spamming (Trib. Latina, sez. dist. Terracina, 19 giugno 2006, www.dottrinaediritto.it);

-) la pronuncia che ha condannato un vettore aereo per aver lasciato i propri passeggeri, in una situazione di ritardo, in balia di se stessi (GdP Catanzaro 19 settembre 2006, n. 1253, www.dottrinaediritto.it);

-) le molte pronunce che hanno condannato gestori di telefonia mobile per il ritardo nell'attivazione del servizio (GdP Roma 11 luglio 2003, personaedanno.it tra le molte).

Ed infine vale accennare al settore del risarcimento del danno da diffamazione. Si pensi, per fare un solo esempio tra i molti possibili, alla pronuncia che ha adottato, ai fini della determinazione del risarcimento, il criterio del profitto conseguito dal danneggiante, il quale consente appunto di valorizzare la funzione punitivo-deterrente (Trib. Venezia 8 marzo 2006, www.dottrinaediritto.it).

 

10. La funzione sanzionatoria rivisitata.

 Torniamo alle funzioni della responsabilità civile ed in particolare a quella deterrente-sanzionatoria. Abbiamo visto che la responsabilità civile è senz'altro animata da una indubbia funzione compensativa.

Ma abbiamo anche visto che l"ordinamento (civile) nel suo complesso assegna alla funzione deterrente-sanzionatoria un suo preciso, ampio e non marginale spazio. Come dicevo, che la responsabilità civile abbia funzione compensativa non vuol dire non possa avere anche una funzione deterrente-sanzionatoria. Il punto in dottrina è arato. Potrei fare sfoggio di citazioni menzionando Trimarchi o Guido Calabresi, secondo il quale la funzione della responsabilità civile è la minimizzazione del costo sociale degli incidenti, ossia dell"insieme degli investimenti in precauzione e dei costi patiti dalle vittime: le regole della responsabilità civile hanno una capacità di incentivazione e di dissuasione e devono essere costruite e pensate non solo in funzione compensativa ma anche per la loro capacità preventiva-punitiva.

Ma preferisco fare un'unica citazione di dottrina, da un autore che non conosceva l'analisi economica del diritto né le regole del «politicamente corretto», e che, non so perché, mi ispira grande simpatia: «In tanta morbosa sensibilità pei ladri, pei sicari, per gli aggressori, che trovano nelle scusanti prevedute dai codici, nelle agevolazioni di regimi carcerari, nella cura dei manicomi criminali, tanto larga, generosa, intelligente, sagace e precisa valutazione dei loro sentimenti, è deplorevole la noncuranza nella quale si vogliono abbandonare i sentimenti offesi, conculcati, distrutti, della gente onesta» (Teucro Brasiello, I limiti della responsabilità per danni, Morano, Napoli, 1928, 194).

Noi sappiamo, però, che non tutti i danni aquiliani vengono arrecati da ladri, sicari e aggressori: anzi, mentre molti illeciti aquiliani — probabilmente l'ampia maggioranza — sono determinati da condotte semplicemente colpose, senz'altro biasimevoli, ma non più di tanto, numerose fattispecie sono governate in misura sempre più ampia dal congegno della responsabilità oggettiva, la quale non involge alcun giudizio specifico di disvalore sulla condotta lesiva.

È possibile, allora, rimestare in un unico paiolo, cancellando le profonde differenze, tanto le condotte dolose, o gravemente colpose, quanto quelle caratterizzate da culpa levis ovvero integrate senza colpa? Ebbene, gli aspetti fino ad ora evidenziati, sia sul piano normativo che giurisprudenziale, ci mostrano il contrario.

Con tutta probabilità l"atteggiamento che attribuisce alla responsabilità civile una funzione esclusivamente compensativa è dovuto al complessivo atteggiamento, tutto rigorosamente oggettivista, che ha assunto la dottrina italiana a partire dagli anni "50 del secolo scorso. Una vera è propria — è stato detto — «sbornia oggettivista». In realtà, il taglio «progressista» dell'impostazione oggettivista — un progresso che sembra purtroppo oggigiorno equivalere esclusivamente a redistribuzione — paventa con tutta probabilità che un'attenzione ritenuta eccessiva all'elemento soggettivo possa costituire un àncora di salvezza per quei danneggianti che il congegno della responsabilità oggettiva inchioda all'obbligazione risarcitoria: ma le cose stanno altrimenti.

Il rilievo della funzione deterrente-sanzionatorie pare infine essere recentemente emerso anche in una pronuncia della S.C. che si è convincentemente misurata col tema del riconoscimento in Italia di un provvedimento emesso dall"autorità giudiziaria di uno Stato europeo recante l"irrogazione di astreinte. In essa si afferma essere noto — il che vuol dire che i precedenti di segno diverso della Corte di cassazione tradivano una non commendevole ignoranza del problema? — «come allo strumento del risarcimento del danno, cui resta affidato il fine primario di riparare il pregiudizio patito dal danneggiato, vengano ricondotti altri fini con questo eterogenei, quali la deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti (posto che la minaccia del futuro risarcimento scoraggia dal tenere una condotta illecita, anche se, secondo gli approdi dell'analisi economica del diritto, l'obiettivo di optimal deterrence è raggiunto solo se la misura del risarcimento superi il profitto sperato) e la sanzione (l'obbligo di risarcire costituisce una pena per il danneggiante). Si riscontra, dunque, l'evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente, sulla base di vari indici normativi … specialmente a fronte di un animus nocendi; pur restando la funzione risarcitoria quella immediata e diretta cui l'istituto è teso, tanto da restare imprescindibile il parametro del danno cagionato» (Cass. 15 aprile 2015, n. 7613).

V"è a questo punto da chiedersi: quale spazio può, in concreto, riservarsi all'elemento soggettivo, e per questa via alla funzione deterrente-sanzionatoria, se teniamo per fermo che la responsabilità civile risponde anzitutto ad una funzione compensativa? Se, dunque, il risarcimento — diremmo, per la contraddizion che nol consente — non può eccedere il danno patito? E si ricordi, infatti, che la funzione sanzionatoria della responsabilità civile sarebbe secondo molti indirettamente bandita per effetto del principio giurisprudenziale del risarcimento integrale: poiché il risarcimento deve compensare tutto il danno subito dal danneggiato, esso non deve essere inferiore al danno, ma, a contrario, che non può neppure essere superiore.

Il punto fondamentale, però, è che il danno, sia sotto il profilo patrimoniale che — questo è ancor più evidente — sotto quello non patrimoniale, è ben lungi dal possedere una sua sicura consistenza oggettiva. Diceva Melchiorre Gioia nel 1821: «È tuttora incerta, confusa, oscura l"idea del danno nella mente dei commentatori curiali. Essi restringono il danno all"oggetto materiale diminuito o distrutto, e non veggono danno ove non possono applicare il compasso, la squadra o il trabucco». Oggi le cose non stanno diversamente. Il danno, cioè, può variamente atteggiarsi tanto in considerazione del profilo eziologico, quanto, in considerazione dello statuto probatorio che applichiamo. Vi è, dunque, un'area grigia che può entrare a far parte del danno risarcibile oppure rimanervi esclusa, in ragione — in particolare — della gestione della componente causale e di quella probatoria.

I dubbi in proposito, allora, vanno sciolti diversamente — questo è il non indifferente spazio riservato alla funzione deterrente-sanzionatoria nel rispetto della funzione compensativa — secondo che il danneggiante abbia o meno agito con dolo o colpa grave.

Parliamo del nesso di causalità. L'articolo 1223 c.c. stabilisce che il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

Si tratta della regola che fissa i caratteri della causalità giuridica, distinta da quella naturale. Ed infatti il diritto non può mancare di dare della causalità una propria specifica nozione: esigenze di certezza, equità e convenienza impongono di non appiattirsi su una nozione di danno desunta dai soli criteri naturalistici e di creare, in aggiunta ad essi, criteri autonomi che consentano di stabilire quando un certo danno possa dirsi giuridicamente prodotto da un fatto umano. La ratio di questa limitazione risiede nell'esigenza di evitare di esporre il danneggiante a responsabilità eccessiva. Ed è a questa funzione che secondo l'opinione prevalente risponde il criterio della risarcibilità delle sole conseguenze immediate e dirette sancito dall'articolo 1223 c.c..

Ma che cosa vuol dire conseguenza immediata e diretta?

In giurisprudenza è di gran lunga prevalente la tesi della regolarità causale: sono giuridicamente imputabili al debitore gli eventi dannosi (anche mediati e indiretti) purché verificatisi secondo il corso ordinario e abituale degli eventi in base ad un giudizio di probabilità. Si ritiene cioè che alla determinazione dell'immediatezza si debba divenire «con una certa elasticità di criterio, in modo da poter ricomprendere nel risarcimento anche quei danni indiretti immediati i quali si presentino come effetto normale dell'inadempimento» (Cass. 9 aprile 1963, n. 910; Cass. 19 luglio 1982, n. 4236; Cass. 4 luglio 2006, n. 15274).

A fondamento di tale indirizzo può porsi già un passo di Paolo, secondo cui non è risarcibile il danno derivante dalla morte degli schiavi per la mancata consegna di una partita di grano, giacché essa deriva dal carattere anomalo e straordinario di una simile conseguenza rispetto al fatto di responsabilità. Proviamo allora a ragionare con un esempio. Ricorriamo alla riflessione di Pothier sul nesso causale, concernente il caso della vendita di un animale infetto. Di qui una serie causale sviluppatasi così:

a) altri animali del compratore vengono infettati e muoiono;

b) non disponendo più di animali da lavoro, il compratore non riesce a coltivare il proprio fondo e perde il raccolto;

c) in mancanza delle entrate che il raccolto gli avrebbe procurato, il compratore non riesce a pagare i propri creditori e fallisce.

Ora, secondo le regole della causalità generalmente accolte, la prima conseguenza è sicuramente risarcibile, la terza sicuramente no (manca, per così dire, la causal proximity), la seconda forse.

Immaginiamo, però, a questo punto, che il venditore, consapevole della malattia del capo di bestiame che andava vendendo, consapevole del fatto che il compratore lo avrebbe ospitato nella sua stalla, consapevole dell'impossibilità del compratore di coltivare il proprio fondo altrimenti che con animali, consapevole altresì della sua situazione debitoria, abbia operato al precipuo scopo di determinarne il fallimento. Egli, infatti, ha adocchiato il fondo del compratore e nutre il desiderio di poterlo fare proprio in sede di vendita fallimentare. Potrebbe il risarcimento in un simile frangente trovare un limite nella regola della causalità immediata e diretta?

Qui il principio da applicare è quello che in common law si riassume nella formula intendend consequences never too remote, ovvero intentional damage is never too remote.

Ecco che, per questa via, il quantum del risarcimento spettante all'autore di una condotta dolosa (ma altrettanto deve dirsi per la condotta gravemente colposa) si allarga ed incrementa, andando a ricomprendere l'importo destinato a compensare conseguenze che, in caso di colpa lieve, non sarebbero state neppure prese in considerazione. Per questa via si esplica, accanto alla funzione compensativa, quella deterrente («Non la passerai liscia») e quella sanzionatoria («Chi me lo ha fatto fare»).

La connotazione soggettiva della condotta ben può incidere poi direttamente sul quantum, come nell'episodio dell'uccisione di un tifoso genovese, il quale era stato colpito al cuore da un tifoso milanista, donde la successiva richiesta risarcitoria avanzata dai congiunti: «La monetizzazione del dolore, che è valutazione sempre assai delicata ma ineludibile nelle decisioni risarcitorie, deve prendere le mosse dalla gravità degli esiti lesivi e dal comportamento del dante causa in occasione del fatto di sangue» (Trib. Genova 1 maggio 2005, personaedanno.it).

Si pensi, altrimenti, alla vicenda della diffamazione a carico di due giornalisti RAI, da parte di un noto uomo politico del Veneto, che si era espresso nei loro confronti in termini particolarmente spregiativi: «Sul piano della quantificazione del danno in discussione, proprio per la sua persistente funzione sanzionatoria-riparatrice correlabile al fatto reato, … è possibile tenere conto del carattere doloso della fattispecie in esame, della particolare gravità della vicenda − l'aver dipinto gli attori come propagandisti politici dediti a condizionare l'opinione pubblica mediante la discriminazione del convenuto, e vieppiù connotandoli politicamente ed apostrofandoli come non giornalisti» (Trib. Venezia 30 aprile 2005, personaedanno.it).

Più in generale, sempre con riguardo al quantum, il dolo o la colpa grave rilevano nella liquidazione del danno morale, essendo innegabile che il dolore, lo sdegno e i patemi d'animo sono realtà che si prestano massimamente a subire l'influsso dell"elemento soggettivo con cui sono state prodotte (basti considerare torti come l'aggressione o gli abusi a danno di congiunti minori, la violazione della privacy, la macro-invalidazione di una persona cara).

Eguali considerazioni possono farsi con riguardo al danno esistenziale ogni qualvolta ci trovi dinanzi ad attività realizzatrici più o meno esposte all'illecito, e vulnerabili per intensità o per durata, a seconda dell'animus di chi le ha compromesse, in caso ad esempio di diffamazione, di lite temeraria, di torti endofamiliari.

Lo stesso danno biologico, almeno sotto forma di danno psichico, potrà risultare incrementato allorquando sia proprio il dato della efferatezza, riscontrabile nell'offesa, ad aver determinato un più ampio stress mentale della vittima (si pensi a casi quali l'uccisione di un congiunto, il sequestro di persona, il mobbing, tante ipotesi di violenza sessuale).

Sul piano probatorio la formula da applicare sarà in breve: atto illecito doloso = maggior tutela da concedere alla vittima = alleggerimento del carico probatorio per quest'ultima = presunzioni legali o giudiziali, destinate a inchiodare il defendant al suo destino.

Insomma, se è certamente vero che il sistema della responsabilità civile vede al suo centro le nozioni di riparazione e risarcimento, non sembra altrettanto vero che la primaria funzione di essa escluda una concorrente e più limitata funzione sanzionatoria: smentisca, cioè, l"idea «di una occasionale repressione in via esclusiva per il dolo o per la colpa grave». Come era detto già nella famosa sentenza Dell'Andro, «è impossibile negare o ritenere irrazionale che la responsabilità civile da atto illecito sia in grado di provvedere non soltanto alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato ma fra l'altro, a volte, anche ed almeno in parte, ad ulteriormente prevenire e sanzionare l'illecito» (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184).

 

11. Testate contro il muro.

 Torniamo dunque al caso da cui siamo partiti: l'aggressore del vigile urbano semi-assolto dal tribunale.

La corte d'appello capovolge il ragionamento: se è ragionevole che la condotta abbia determinato il danno riscontrato dal consulente tecnico, la sussistenza del nesso di causalità deve essere ritenuta fino a prova contraria, prova che l'aggressore non ha dato, sicché egli va condannato all'integrale risarcimento del danno determinato sulla base della consulenza tecnica svolta in primo grado: «Il C. ha tenuto un comportamento violento, improvviso ed imprevedibile, teso ad offendere, ed ha provocato lesioni fisiche, di non scarso rilievo, manifestatesi nel tempo, in uno stretto rapporto di causalità. L"intenzionalità dell"aggressione, valutata unitamente alla molteplicità delle conseguenze sul piano fisico, rende ancora più ingiusto il danno subito, cosicché appare verosimile una reazione psichica diventata patologica, anche a prescindere da una precedente fragilità emotiva. Di conseguenza, va applicata la percentuale di invalidità, individuata dal consulente, nella misura del 25%».

Segue condanna al pagamento di € 147.644,67.

Per dirla con le parole di un giudice statunitense: «Think about how much you hate what the defendants did and teach them a lesson» (dissenting opinion di Justice O'Connor in Pacific Mutual Life Insurance Co. v. Haslip, del 1991).

È da credere che il danneggiante, alla lettura del dispositivo, possa essere colto dall'impeto di dare nuovamente testate, ma semmai contro il muro, non più contro un vigile urbano o chiunque altro esso sia.

Il riconoscimento della funzione deterrente-sanzionatoria, nella sua pur succedanea posizione, è in fondo, semplicemente, una questione di giustizia.  




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