Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  29/05/2023

I requisiti di validità dell'informazione e del consenso, parte II - Cecilia De Luca

      1. L’abilitazione del medico e del professionista sanitario

Il primo e fondamentale requisito, la cui mancanza rende invalido il consenso in presenza di tutti gli altri, è costituito dall’abilitazione professionale dell’operatore che esegue la prestazione diagnostica o terapeutica. I giudici partono, infatti, dalla considerazione che il medico non può intervenire senza il consenso del paziente, che rappresenta il presupposto indispensabile, in quanto opera come scriminante dell’attività medica, in specie chirurgica. Tuttavia, il consenso del paziente può essere invalido, e quindi non elide l’antigiuridicità della prestazione eseguita in mancanza della necessaria abilitazione, perché il malato forma la propria adesione alla proposta terapeutica nella convinzione di affidarsi ad una persona abilitata all’esercizio della professione medica, cadendo perciò in errore sulle qualità dell’operatore. Le nuove norme europee per l’ordinamento delle Scuole di specializzazione prevedono che il “medico in formazione” esegua un certo numero di interventi chirurgici come primo operatore, sotto la guida di un tutor o di in docente della Scuola. Un parere orientativo del Consiglio Superiore della Sanità sostiene che ricoverandosi in un ospedale “il paziente acconsente al trattamento ben sapendo che diverse possono essere le persone che lo effettueranno, sicché il consenso prestato ad un sanitario per un certo trattamento vale implicitamente anche nei riguardi di altri medici che fanno parte del reparto in cui il paziente è ricoverato”. Tuttavia, un autorevole dottrina sostiene che “è oggettivamente difficile ottenere un  consenso scritto, specie ad interventi impegnativi e rischiosi, in cui venga specificato che l’operatore sarà un giovane medico che sta acquisendo la propria esperienza”. Infatti, l’identità e l’esperienza del soggetto che eseguirà l’intervento sono fattori che influiscono sulla libertà di autodeterminazione del paziente, il quale, quindi, dovrebbe esserne informato.

      1. La titolarità dell’obbligo di informazione

Nell’attuale realtà sanitaria non è possibile ridurre la relazione terapeutica al solo rapporto medico-paziente a causa dell’importanza del ruolo e dell’autonomia di altre figure professionali che, a vario titolo, sono chiamate a partecipare alla gestione del caso clinico. Ciò si riflette sull’individuazione del soggetto obbligato ad informare il paziente e ad acquisirne il consenso. Ciascun sanitario, pertanto, deve entrare in relazione con il malato, instaurare con lui un’”alleanza terapeutica”, informarlo specificamente dei rischi e dei benefici dei trattamenti che consiglia. Infatti, solo in questo modo la libertà di autodeterminazione del paziente è efficacemente tutelata, mentre sarebbe sacrificata se le informazioni provenissero da un sanitario che, essendo specialista in altre discipline, non può avere la medesima competenza nell’illustrarne il rapporto rischi-benefici. Riportando il caso comune dell’intervento chirurgico in équipe, il trattamento consiste nella complessiva operazione, in quanto insieme di attività che, pur richiedendo la partecipazione di vari professionisti con rispettive e differenti competenze, sono tutte funzionali al raggiungimento di un determinato obiettivo terapeutico ed a tal fine sono coordinate da un capo équipe. Costui è titolare dell’obbligo di informazione, sia in ordine alle proprie attività, sia in merito a quella dell’équipe. In applicazione di questo principio. La giurisprudenza precisa che l’aiuto chirurgo non è titolare, invece, dell’obbligo di informazione perché interviene solo durante l’operazione, senza un personale  e preliminare rapporto con il paziente. Differente, ma connessa, è la questione se il sanitario chiamato ad eseguire un determinato trattamento possa delegare ad un collega il compito di informare il paziente ed acquisirne il consenso. In proposito, secondo la giurisprudenza, l’informazione “non può che provenire dallo stesso sanitario cui è richiesta la prestazione professionale”. Conseguentemente, dovrebbe ritenersi invalido il consenso prestato dal paziente informato da un medico diverso rispetto a quello che eseguirà il trattamento, sia pur con la delega di quest’ultimo. Tuttavia, questa interpretazione appare poco rispondente alla realtà dell’erogazione delle prestazioni diagnostico-terapeutiche. Infatti, nell’ambito dei nosocomi, ma spesso anche nelle strutture private, il paziente non conosce i professionisti che gestiranno il suo caso clinico. Conseguentemente, se il paziente non sceglie i medici, perché essi sono individuati dalla struttura sanitaria, non si vede perché il professionista non possa delegare ad un collega, della sua stessa struttura, il compito di informare il paziente e di registrarne il consenso. Il punto, piuttosto, è che tale prassi non si risolva in una, anche se potenziale, riduzione della libertà di autodeterminazione del paziente. Proprio per evitare questa eventualità, la dottrina sostiene che il professionista possa delegare solo un collega “appartenente alla stessa specialità sanitaria, di modo che possa fornire le stesse informazioni che fornirebbe il delegante”. Quando, invece, paziente si rivolge non ad una struttura sanitaria, pubblica o privata, bensì direttamente ad un particolare medico o gruppo di professionisti, la natura contrattuale del rapporto col medico, che in questo caso è il primo depositario della fiducia del paziente, sembra comportare per il professionista l’obbligo di adempiere personalmente sia l’obbligo terapeutico che quelli di informazione, a meno che il paziente acconsenta espressamente alla scelta del medico di delegare ad un collega l’adempimento dell’obbligo di informazione. Quindi, nei casi in cui il malato non conosce il medico e si rivolge solo alla struttura sanitaria, pubblica o privata, la tesi secondo cui chi esegue la prestazione deve anche informare il paziente dei relativi rischi sembra risolversi più in un aggravio per l’organizzazione delle strutture sanitarie che non in un beneficio per il paziente. Infatti, la tutela della libertà di autodeterminazione si realizza con la medesima intensità ed efficacia sia quando il medico che informa il paziente è lo stesso che esegue il trattamento, sia quando il compito di informare è delegato ad un collega, purché quest’ultimo abbia la medesima professionalità. 

In allegato l'estratto completo di note.


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