Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  27/03/2023

Il consenso informato quale fondamento del rapporto tra medico e paziente - Parte II - Cecilia De Luca

    • L’origine americana del consenso

Da quanto discusso brevemente, appare evidente come l’adesione del malato alle scelte del medico non possa essere equiparata all’attuale concetto di consenso informato, i cui albori, invece, possono essere rintracciati in alcuni processi che si sono celebrati negli Stati Uniti a partire dalla fine del ‘700 e che per la prima volta, in maniera organica, affrontano problematiche di grande attualità, come l’importanza giuridica della differenziazione tra un contenzioso promosso in relazione ad un consenso comunque difettoso, il c.d. vizio del consenso, e quello basato su una incompleta o errata informazione, il c.d. vizio di informazione, la quale rappresenta il fondamento ed il presupposto irrevocabile per giungere al consenso stesso. In un processo del 1905 i giudici ebbero ad affermare che “il primo e più nobile diritto di ogni libero cittadino, fondamento di tutti gli altri, è il diritto sulla propria persona, “the right to himself”, universalmente riconosciuto; questo diritto vieta rigorosamente al medico ed al chirurgo, per quanto esperto e di chiara fama, di violare a suo arbitrio l’integrità fisica del suo paziente con una operazione più ampia e/o diversa rispetto a quella programmata, intervenendo sul malato sotto anestesia senza il suo consenso”. La Corte concluse che il medico non aveva libera licenza rispetto all’intervento chirurgico predisposto, mentre dalla mera circostanza che il paziente si era affidato alla competenza medica non poteva evincersi un implicito consenso a qualsivoglia trattamento chirurgico, rispetto al quale era sempre necessario un consenso specifico ed esplicito. È significativo notare che nella sentenza si afferma che un valido consenso richiede la preventiva conoscenza da parte del paziente dei pericoli e dei rischi insiti nella terapia, ma non si fa alcun cenno al diritto all’autodeterminazione o all’autonomia del malato, “self-determination” o “autonomy”, bensì a un diritto su sé stesso. La svolta avviene con il processo noto come il “caso Schoendorff” del 1914, durante il quale il giudice Beniamino Cardozo, chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, predispose il criterio della “self-determination”, in base al quale “Ogni essere umano adulto e capace ha il diritto di determinare cosa debba essere fatto con il suo corpo; un chirurgo che esegue un’operazione senza il consenso del paziente commette una violenza personale, per la quale risponderà dei danni”. Tale principio, destinato a diventare un concetto guida nella gestione del rapporto tra medico e paziente, è oggi trasfuso in Italia con la locuzione “principio di autodeterminazione”, che ribadisce la regola secondo cui, da un lato, l’individuo malato ha il diritto di salvaguardare e di tutelare l’inviolabilità della propria persona scegliendo il trattamento chirurgico, e dall’altro, il disattendere questo diritto configura, anche se l’intervento si conclude con esito favorevole, una violenza arbitraria ed ingiusta sul malato. Circa trentacinque anni dopo si verifica un’ulteriore ed importante svolta dottrinale: la comunità internazionale prende coscienza dei gravi interrogativi posti sul piano etico dai progressi della medicina, a partire dalle sperimentazioni sull’uomo. Dalla riflessione sulle atrocità commesse nei campi di sterminio e di concentramento emerge la necessità di distinguere tra la sperimentazione lecita e l’attività che si avvicina più alla tortura. A Norimberga, il 19 dicembre 1946, si celebra davanti ad un tribunale militare composto solo da magistrati statunitensi il processo ai medici nazisti. Nella sentenza dell’ottobre 1947 i giudici stilano un documento, noto come codice di Norimberga, che all’art. 1 recita: “È assolutamente necessario il consenso volontario del soggetto umano. Ciò presuppone che la persona abbia la capacità legale di dare il consenso; sia in condizioni di esercitare il libero potere di scelta senza l’intervento di alcun elemento di forza, frode, inganno, costrizione, sopraffazione, o altra ulteriore forma di costrizione o coercizione ed abbia sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi dell’esperienza, tanto da essere in grado di prendere una consapevole ed illuminata decisione. Quest’ultimo elemento richiede che prima di formulare una positiva decisione, il soggetto deve essere edotto sulla natura e sui fini dell’esperimento, sul metodo ed i mezzi con i quali esso sta per essere condotto, su tutti gli inconvenienti e pericoli ragionevolmente prevedibili e sugli effetti nei riguardi della salute che possono derivare dalla sua partecipazione all’esperimento. Il dovere e la responsabilità di constatare la validità del consenso pesano su chiunque inizia, dirige o è implicato nell’esperimento”. Il Codice di Norimberga, quindi, contiene una visione della ricerca e della tecnologia medica molto chiara: la scienza non deve mai trasformare la persona in uno strumento utilizzato per raggiungere solo scopi scientifici e contiene anche l’esigenza di legittimare le prestazioni mediche attraverso la pratica del consenso informato. Da quel momento, il principio del consenso, supportato da idonee garanzie relative all’informazione sull’operazione, è stato trasferito nel rapporto tra medico e paziente, marcando il passaggio dal “paternalismo” medico al principio dell’autodeterminazione del paziente. La prima affermazione giudiziaria del principio del “consenso informato” è sancita nel 1957 dal caso Salgo v. Leland Standford Jr. University Board of Trustees ad opera  della Corte dello Stato della California, che fonda l’affermazione di responsabilità del sanitario sulla carente informazione fornita circa l’atto da eseguire e sulla conseguente inefficacia del consenso prestato dal paziente. Durante l’esecuzione di un’arteriografia su un soggetto affetto da vascolopatia, il chirurgo omette di avvertire il paziente delle possibili complicanze, poi verificatesi, connesse all’uso di un mezzo di contrasto necessario per l’esecuzione dell’accertamento invasivo. Nonostante alcuna censura venga mossa circa il rispetto delle regole dell’arte nell’esecuzione dell’atto in sé, il chirurgo viene condannato per essere venuto meno al dovere di illustrare “any facts which are necessary to form the basis of an intelligent consent by the patient to proposed treatment”, violando così il diritto all’autodeterminazione del paziente stesso. I magistrati statunitensi con questa sentenza sottolineano che l’obbligo di informazione al fine di ottenere un adeguato e consapevole consenso, definito con il termine “intelligent consent”, si deve tassativamente estendere non solo agli eventuali e probabili pericoli legati al tipo di prestazione proposta, ma anche alle possibili terapie alternative che in concreto possono essere scelte ed effettuate. Il tribunale, a differenza delle modalità procedurali impiegate dai giudici che avevano esaminato i casi ricordati, pone l’accento sull’entità e sulla qualità dell’informazione che deve precedere l’acquisizione del consenso, introducendo così un nuovo elemento giuridico oggettivo da considerare come fattore indipendente. Quindi, in termini espliciti, i giudici affermano che il consenso deve essere preceduto dall’informazione del paziente, quale condizione di validità del consenso stesso. Il “consent”, diviene, pertanto, “informed consent”. A differenza delle precedenti decisioni, la Corte non si limita ad accertare la sussistenza o meno di un effettivo consenso del paziente alle terapie proposte, ma concentra la sua attenzione proprio sulla presenza di un consenso informato al momento in cui viene prestato, introducendo, così, un nuovo elemento giuridico. Inoltre, i giudici, per la prima volta, unificano le due teorie della responsabilità medica fondate sul consenso: la richiesta del consenso come un aspetto della diligenza medica, “good medical care”; ed il consenso inteso come dovere di rispettare l’autonomia del paziente, “duty to respecting”. Quest’orientamento si consolida in tre decisioni successive, il “caso Grey” del 1966, il “caso Berkey” del 1969, ed il “caso Cooper” del 1971, relativi ad interventi praticati senza che il paziente fosse informato dei rischi collegati all’intervento chirurgico: i giudici statunitensi censurano l’operato dei medici basandosi sul presupposto che la relazione di cura si caratterizza per il carattere fiduciario del rapporto medico-paziente, per cui il medico ha l’obbligo di far conoscere al suo assistito le caratteristiche della malattia con una chiara e puntuale informazione, il “duty of full disclosure”. Negli Stati Uniti il dibattito bioetico sul consenso informato è un dibattito ancora aperto. Vi sono numerose e diverse definizioni nelle leggi e negli standard giudiziari dei vari Stati: alcune pongono l’accento sul fatto che il consenso è una determinazione e quindi un’azione autonoma del paziente; altre, invece lo considerano un coinvolgimento del paziente, ottenuto secondo una procedura legale. Tutte, però, evidenziano l’importanza dell’informazione, che assolve il compito non solo di rendere edotto il paziente sui vantaggi e sui possibili rischi della terapia, ma anche di tranquillizzarlo psicologicamente e di dargli “security” e “satisfaction”. Il problema diventa, quindi, come comunicare con i pazienti. Al riguardo, è necessario precisare che mancano soluzioni univoche sul fronte dei rapporti tra comunicazione e informazione. In proposito, acuta dottrina ha precisato che “l’affermazione formale, secondo la quale il “consent” deve necessariamente essere “informed”, non fa che spostare la controversia da “se” informare il “paziente” a quale informazione dare. Al centro della discussione si collocano così lo standard di informazione richiesta e la possibilità che in casi specifici sia giustificata la riduzione o l’esclusione dell’obbligo di informazione o una sua particolare configurazione che ne riduca la portata innovativa”. Partendo dal principio dell’ “informed consent”, la giurisprudenza americana è approdata, quale logico corollario dello stesso, al pieno riconoscimento del  right to die”, ovvero del diritto del paziente di rifiutare i trattamenti sanitari, anche se “life saving”.  Il dibattito ha preso le mosse dai casi giudiziari, dal caso Quinlan, del 1976, e dal caso Cruzan, del 1990, che ha visto la Corte Suprema Federale pronunciarsi sul “right to die”, enunciando il principio in base al quale la scelta del paziente di rifiutare le cure “life saving” è strettamente personale, o “deeply personal decision”, e , se il malato è compos sui, la sua volontà deve essere rispettata. A tal riguardo, importante è ricordare il  caso di Terry Schiavo, la donna in coma che per quindici anni aveva continuato ad avere una vita vegetativa grazie ad una gastrostomia che la alimentava, caso per il quale il Presidente degli Stati Uniti , per garantirle una assistenza meccanica, aveva firmato d’urgenza una legge da affidare all’interpretazione della Corte della Florida.

    • L’approdo del consenso informato in Italia

In Italia, la progressiva acquisizione del consenso informato come principio del rapporto tra il medico ed il paziente ha portato al suo inserimento in numerose fonti normative, sia comunitarie che interne. La Corte Costituzionale, peraltro, ha chiarito che la disciplina degli atti di disposizione del proprio corpo, rientrando nella più generale materia dell’ordinamento civile, è riservata alla legislazione esclusiva dello Stato ex art. 117, comma 2, lett. l). Agli inizi degli anni Novanta nel nostro Paese si assiste ad una serie di vicende giudiziarie per responsabilità medica, nelle quali la giurisprudenza non ha mancato di valorizzare l’importanza del consenso informato per tutelare l’autonomia del paziente in ogni scelta che riguarda la cura della sua persona, “visto che senza informazione adeguata e rispettosa del paziente e, dunque, anche dei suoi limiti culturali e delle sue umanissime paure di fronte all’atto medico, questi non è più persona, ma oggetto di esperimento o di un’attività professionale che trascura il fattore umano su cui interviene, dequalificando il paziente stesso da persona a cosa”. L’evoluzione culturale a cui si è accennato ha trovato riscontro nei codici deontologici, passando dalla formulazione dell’art. 30 del codice di deontologia medica del 1978, secondo il quale “una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia”, a quella dell’art. 40 del codice del 1989, da cui emerge che “il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostico terapeutica senza il valido consenso del paziente, che se sostanzialmente implicito nel rapporto di fiducia, deve essere invece consapevole ed esplicito allorché l’atto medico comporta rischio o permanente riduzione dell’integrità fisica”, alla versione del 1995, il cui articolo 31 stabiliva che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato”, fino al codice del 1998 che valorizza l’elemento dell’informazione e dell’autonomia e costituisce la base del vigente testo deontologico, nel quale è stata accentuata la rilevanza delle direttive anticipate. Il passaggio alla fase dell’autonomia ha trovato nel nostro Paese il proprio necessario presupposto normativo con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la quale stabilisce all’art. 32, comma 2, che “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Così, è progressivamente maturata la consapevolezza che, poiché l’atto medico si compie sulla persona e nell’interesse del paziente, solo quest’ultimo può decidere, operando un bilanciamento fondato su valutazioni religiose, esistenziali ed etiche intimamente legate al suo modo di essere, se e quali strade privilegiare tra quelle offerte dalla scienza medica. Ogni terapia, chirurgica o farmacologica che sia, presenta un costo in termini di effetti collaterali, sofferenze, mutilazioni, ed è soltanto colui che questo costo deve sostenere a decidere se esso è preferibile alla  malattia. Dunque, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale è giunta a riconoscere alla persona la possibilità di gestire la salute del proprio corpo e di tutelarsi rispetto alle ingerenze di terzi nelle scelta delle cure da effettuare. Quindi, da un lato, il medico dovrà prospettare al malato le cure più appropriate alla sua malattia, dall’altro, il malato avrà la libertà decisionale di scegliere a quale trattamento sottoporsi o rifiutarli tutti, in considerazione del fatto che la salute è un diritto e non un obbligo. Da quest’impostazione paternalistica, il rapporto tra professionista e malato è passato ad una concezione basata sul principio di autonomia, dal greco “autos”, cioè sé, e “nomos”, cioè regola, governo, che impone al medico sia di informare i pazienti per metterli in condizione di decidere consapevolmente in ordine alla propria salute, sia di rispettare la loro scelta autonoma, ossia la decisione libera in quanto non condizionata da altrui influenze di controllo, e presa da un soggetto capace di scegliere e di comprendere tutti gli elementi della situazione e le conseguenze della propria volontà. Tuttavia, l’art. 32, comma 2, Cost. sarebbe rimasto un presupposto astratto e non avrebbe potuto portare alle attuali conseguenze del consenso informato sia nella quotidiana pratica clinica, sia nei Tribunali, senza l’evoluzione scientifico-tecnologica della medicina. Tale fase, iniziata negli U.S.A. dopo il 1945, ha aumentato il numero della prestazioni diagnostico- terapeutiche, migliorandone l’efficacia e permettendo addirittura di scegliere tra differenti tecniche e  metodiche per il trattamento di una medesima patologia. Quando la medicina aveva risorse che le consentivano solo di fare un tentativo per salvare la vita del malato, costui non poteva certo pensare di chiedere al medico di essere informato sulla sua malattia e di scegliere la cura. Invece, da quando  l’evoluzione scientifica e tecnologica ha consentito a tutti di accedere a terapie innovative capaci non solo di evitare la morte, ma anche di rispondere ad esigenze sempre più voluttuarie della persona, tanto da sfociare nella c.d. “medicina dei desideri”, la tutela della libertà di autodeterminazione del paziente è diventata parte integrante delle prestazioni mediche. Questo ha determinato un diverso atteggiamento nel paziente, che non si rivolge più al medico con lo stato d’animo di chi gli si affida nella speranza che sia capace di guarirlo, ma gli si pone di fronte come un cliente che pretende da un professionista l’erogazione del miglior servizio possibile. La medicina attuale non si preoccupa solo di curare il malato, ma ambisce, anche con alte percentuali di successo, di ottimizzarne il benessere, recuperandolo alla pienezza delle sue funzioni tramite interventi sempre meno invasivi e sempre più efficaci. Sono entrati a far parte della quotidianità interventi, inoltre, con finalità meramente estetica e non anche funzionale, perciò privi di beneficio per l’integrità fisica e rivolti solo a realizzare i desideri del singolo paziente, ossia la sua personale concezione del benessere. Tutto ciò ha inevitabilmente accresciuto le aspettative della collettività nei confronti delle prestazioni sanitarie. Parallelamente a questo progresso di conoscenze scientifiche e tecnologiche, la società ha vissuto un’evoluzione culturale che ha elevato il livello medio di consapevolezza della persona sui problemi di pubblico interesse, ed in particolare sul tema della salute, specie grazie ai mezzi di comunicazione che non mancano di aggiornare sulle nuove frontiere di ogni terapia, ingenerando, talvolta, anche sproporzionate aspettative. In sostanza, rispetto alla prima metà del Novecento, la moderna medicina opera su pazienti molto più esigenti ed informati. Quindi, anche la pratica clinica deve adeguarsi a questa informazione. Paradossalmente, però, proprio in concomitanza con la valorizzazione dell’autonomia del paziente, si è assistito ad un allentamento del rapporto diadico dottore-paziente sotto il profilo umano, determinato da vari fattori: l’invadenza dell’elemento meccanico e tecnologico nella prestazione diagnostico-terapeutica, l’aumento sia del numero di pazienti, sia dell’attività da svolgere in èquipe, che comporta l’intervento di più medici, ciascuno con la propria competenza, senza che sia possibile stabilire, nel breve tempo concesso, un autentico rapporto umano. Questi cambiamenti hanno costretto il medico a valutare nei rapporti con i suoi pazienti una serie di variabili più complesse che in passato. Egli è tenuto ad operare per il bene del paziente, ma deve essere in grado di comprendere quale sia il vero bene per lui; quindi, non può più sottrarsi dal comunicargli le informazioni sullo stato di salute. Conseguentemente, è sorta la difficoltà di stabilire il confine tra il dovere di curare ed il principio di autodeterminazione del paziente. L’evoluzione della medicina in senso tecnologico ha influito anche sul costo della spesa sanitaria, aumentandolo in maniera esponenziale. In un primo momento questo problema non è stato considerato rilevante perché l’obiettivo prioritario era sempre e comunque l’interesse del paziente, per realizzare il quale era necessario consentirgli di usufruire di ogni prestazione e di scegliere tra i diversi trattamenti sanitari o metodi terapeutici che la medicina è in grado di mettere a disposizione. La relazione medico-paziente, allora, si è posta come paritaria e basata su concetti di “alleanza terapeutica”, “autonomia del paziente” ed autodeterminazione, concetti che mettono al centro la figura del paziente, titolare di diritti e libero di scegliere e di consentire consapevolmente. Tuttavia, a seguito dell’evoluzione scientifico-tecnologica, intorno al medico ed all’erogazione delle sue prestazioni hanno iniziato a ruotare interessi multipli che includono, il personale, l’organizzazione clinica, la gestione delle risorse, le compagnie di assicurazione, fino al mondo politico su cui converge la questione dei finanziamenti. In questa prospettiva, la legislazione italiana più recente accentua il ruolo manageriale della professione medica, che implica relazioni plurime con il paziente, ma non certo diadiche né precipuamente umane, quanto piuttosto basate sulla valutazione dei costi. Indipendentemente dal tipo di sistema sanitario, che può essere fondato sulla globalità della copertura statale, oppure su sistemi mutualistico-assicurativi regolati dallo Stato, vi è una presa di coscienza generalizzata che le risorse destinate all’assistenza sanitaria dalle scelte di politica economica sono limitate. Il medico, nel sistema aziendale e di concorrenza, deve valutare quale sia il trattamento che soddisfa le esigenze di salute del paziente nell’ottica di ottimizzare l’uso delle risorse. Di conseguenza, la figura del paziente comincia ad assumere connotati prossimi a quella di un “cliente”. In questo senso, la Corte costituzionale ha posto un punto fermo, che sembra ben difficile oltrepassare, affermando che “in presenza di limitatezza delle risorse e di riduzione delle disponibilità finanziarie accompagnate da esigenze di risanamento del bilancio nazionale, non è pensabile di poter spendere senza limite, avendo riguardo soltanto ai bisogni, quale ne sia la gravità e l’urgenza; viceversa è la spesa a dover essere commisurata alle effettive disponibilità finanziarie, le quali condizionano la quantità ed il livello delle prestazioni sanitarie, da determinarsi previa valutazione delle priorità e compatibilità e tenuto conto delle fondamentali esigenze connesse alla tutela del diritto alla salute”. Dunque, i principi costituzionali di uguaglianza e di tutela della salute, ex artt. 2, 3 e 32 Cost., devono essere interpretati nel senso che la tutela della salute è garantita dallo Stato, ma nei limiti delle risorse rese disponibili dalle leggi annuali di bilancio.

Estratto dalla tesi di laurea: "Il principio platonico-aristotelico di non contraddizione come fondamento dell'ordinamento giuridico."

In allegato il saggio integrale con note


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