-  Antonio Arseni  -  12/07/2016

Il danno riflesso per morte del prossimo congiunto causata da stress lavorativo . Configurabilità. Questioni di competenza. - Antonio Arseni

Il danno riflesso consiste nel pregiudizio subito da un terzo rispetto alla persona la quale ha concretamente subito le conseguenze dannose della condotta illecita altrui. Il terzo, definito la vittima secondaria o di rimbalzo, deve trovarsi in un particolare rapporto con la vittima dell'illecito ( familiare/ convivente more uxorio) tale da subirne le conseguenze in termini di compromissione dei propri diritti che si sostanzia in un peggioramento della qualità della vita, in una sofferenza morale ed anche in un vulnus alla integrità psico-fisica.

La mera titolarità del rapporto parentale non determina automaticamente il sorgere del diritto al risarcimento dei danni riflessi essendo necessario accertare la intensità del legame familiare. Così nella convivenza more uxorio il diritto al risarcimento danni, a favore del superstite (astrattamente ammissibile), è condizionato alla prova della esistenza di una relazione stabile e duratura con la vittima. Gli eredi di quest'ultima, se agiscono iure proprio dovranno rivolgersi al Giudice Ordinario. E' competente, invece, il Giudice del Lavoro laddove intendano agire iure hereditatis con tutte le problematiche legate alla trasmissibilità del c.d. danno catastrofico da morte, in relazione soprattutto ai tempi di sopravvivenza del de cuius dopo l'evento illecito.

Con l'espressione "danno riflesso", si indica, in dottrina e giurisprudenza, il nocumento che viene arrecato ad un terzo, ritenuto la vittima secondaria del fatto illecito, rispetto al soggetto danneggiato ma pur sempre destinatario delle conseguenze pregiudizievoli subite da quest'ultimo per effetto della condotta illecita altrui.

In sostanza, il danno riflesso, pur trovando la sua origine in un evento che colpisce la vittima principale, si produce nella sfera giuridica delle cosiddette vittime secondarie o di rimbalzo, le quali acquisiscono il diritto al risarcimento del relativo pregiudizio iure proprio. E ciò sia con riferimento ai danni non patrimoniali (biologico, morale, esistenziale), sia a quelli patrimoniali, derivati dal venir meno dell'apporto dell'attività lavorativa del soggetto leso.

Il tema è quello della plurioffensività dell'illecito civile, che permette la risarcibilità del danno non solo nell'ambito del rapporto autore/vittima, ma nei confronti anche del terzo che subisce la violazione di un interesse costituzionalmente presidiato, quale può essere quello alla integrità delle relazioni familiari e, più in generale, quello alla conservazione di un legame di solidarietà che si fonda non solo su un rapporto di coniugio, ma anche di convivenza caratterizzato da una comunione di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale, stabile e duratura.

La risarcibilità del danno riflesso, come è noto, è stata resa possibile attraverso una ricostruzione avanzata della teoria della causalità adeguata che ha condotto, mercé una opportuna evoluzione giurisprudenziale, ad una interpretazione estensiva dell'art. 1223 CC, risultando configurabile il nesso eziologico tra condotta ed evento anche rispetto a quegli accadimenti che in astratto sono prevedibili, ossia normale conseguenza della condotta illecita. Come nel caso, per l'appunto, dei familiari della vittima (o del convivente more uxorio) che, a seguito dell'evento illecito, subiscono una compromissione dei propri diritti in termini di peggioramento della qualità della propria vita e di sofferenza morale e finanche sotto il profilo della integrità psico-fisica (danno psicologico), laddove medico legalmente riscontrabile (v. ex multis Cass. S.U. 9556/2002; Cass. 20667/2010; Cass. 13179/2011; Cass. 22909/2012 e, da ultimo, Cass. 758/2016; Tribunale di Monza 22/01/2013 n° 341 in Sole 24 ore Mass. Rep. Lex 24; Tribunale di Verona 15/10/1990 in Red. Giuffré 1990; Tribunale di Palermo 01/06/2001, ivi 2001).

Mette conto di rilevare, a tale riguardo, che la mera titolarità di un rapporto familiare non determina automaticamente il diritto al risarcimento danni, essendo necessario, di volta in volta, verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito ed in che misura la lesione, subita dalla vittima primaria, abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento (v. Cass. 9556/2002 già citata).

Il danno dei congiunti della vittima di lesioni personali, va liquidato tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e senza alcun automatismo (v. ex multis Cass. 22909/2012; Tribunale di Monza 341/2013 già citata; Corte di Appello di Milano 08/10/2014 n° 3464 in Sole 24 ore Mass. Rep. Lex 24; Tribunale di Milano 02/09/2008 n° 10796 in Red. Giuffré 2008; Tribunale di Milano 09/06/2005, ivi 2005).

È appena il caso di ricordare, inoltre, che l'evoluzione giurisprudenziale ha permesso di ricomprendere nel danno riflesso, non solo i casi relativi alla perdita definitiva del rapporto parentale, ma anche le ipotesi di rilevanti menomazioni dei congiunti e, quindi, anche di lesioni purché esse siano di una consistenza di particolare rilievo (Cass. 10816/2004; Cass. 4852/1999): eventi che incidono sul diritto costituzionale alla integrità delle relazioni parentali (cfr ex multis Cass. 06/06/2004 n° 10816; Corte di Appello di Milano n° 86 del 17/01/2012 su Iusletter 02/05/2012; Tribunale di Arezzo 28/02/2002 in Red. Giuffré2002; Corte di Appello di Catania 28/10/2009 ivi 2009).

Il danno riflesso abbraccia ogni ipotesi di evento illecito, sia questo riconducibile ad un incidente stradale, alla violazione del diritto alla libertà sessuale, in tema di errore medico, quando il fatto illecito abbia comportato gravi lesioni per la vittima e, recentemente, anche in tema di infortunio o morte direttamente riconducibili ad uno stress psico-fisico nell'ambito del rapporto di lavoro.

Il danno da stress, od usura psico-fisica, secondo una recente sentenza della Cassazione Sez. Lav. 14/07/2015 n° 14710, "si iscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava l'onere della relativa allegazione fornendone la prova, raggiungibile anche attraverso presunzioni semplici. Consegue che la adibizione del lavoratore a turni di lavoro senza riconoscimento dei riposi di legge, determina l'aumento della penosità del lavoro, con incidenza sui diritti costituzionalmente protetti inerenti i diritti fondamentali della persona e, dunque, la valutazione della gravità del pregiudizio e la sua risarcibilità secondo quanto previsto dall'Ordinamento.

In tal senso, vedasi anche Cass. 28/07/2010 n° 17649; Cass. 18/06/2014 n° 13863, Cass, 10/02/2014 n° 2886; Tribunale di Aosta 01/10/2014 n° 121 (in Red. Giuffré 2014).

È bene, al riguardo, rammentare che la giurisprudenza ha chiarito come incomba, sul datore di lavoro, l'obbligo di attuare tutte le misure necessarie, compreso l'adeguamento del personale, per non compromettere la integrità psico-fisica del lavoratore, evitandone l'eccessivo impegno: obbligo che sussiste anche quando il lavoratore accetti di prestare lavoro straordinario continuativo o rinunci ad un periodo di ferie (Cass. 8267/1997; Cass. 12339/1999; Cass. 5491/2000).

Come è noto, secondo una definizione del National Institute for Occupational Safety and Health (del 1999), "lo stress dovuto al lavoro, può essere definito come un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifestano quando le richieste poste dal lavoro, non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore. Lo stress connesso al lavoro, può influire negativamente sulle condizioni di salute e provocare persino infortuni fino addirittura alla morte del lavoratore".

Gli studi offerti dal particolare settore, indicano ormai una situazione di tipo epidemico in cui i fattori determinanti lo stress lavorativo da una parte vengono ricondotti a molteplici e diverse cause, come, ad esempio, la natura del lavoro, la sua organizzazione, l'ambiente, la scarsa comunicazione e quant'altro". Lo stress non è una malattia, ma l'esposizione prolungata ad esso può ridurre l'efficienza sul lavoro e l'insorgenza anche di malattie gravi che danneggiano il soggetto. Come nel caso deciso dalla Corte di Appello di Torino 22/03/2006 n° 312 (in Red. Giuffré 2006), in cui un impiegato delle Poste aveva avuto un infarto al miocardio, che però non aveva avuto (come emerso nel processo) quella efficacia causale idonea a determinarne l'insorgenza: con conseguente rigetto della domanda.

Anche la Cassazione è intervenuta sulla questione negando, ad esempio, con la decisione 02/09/2015 n° 17438, la richiesta risarcitoria (danno biologico) di una donna per l'eccessivo carico di lavoro ed il cumulo di mansioni, essendo rimasta indimostrata sostanzialmente la sussistenza di uno stress lavorativo riconducibile alle condizioni di lavoro dalla stessa svolte.

Nello stesso senso l'orientamento espresso da Cass. Sez. Lav. 21/03/2016 n° 5538, in un caso in cui un uomo reclamava il risarcimento danni non patrimoniali consistenti nell'usura psico-fisica da stress lavorativo per la mancata fruizione di soste durante la conduzione di automezzi adibiti a trasporto pubblico di persone su tratte urbane ed extraurbane.

È di tutta evidenza, in tale contesto, come il riconoscimento di una domanda risarcitoria per un evento morboso causato da stress lavorativo, sia strettamente legato alla necessità della relativa allegazione cui deve accompagnarsi la prova della sussistenza del nesso eziologico.

Particolarmente importante, al riguardo, è la recente decisione della Corte Regolatrice (Cass. Sez. Lav. 08/05/2014 n° 9945) in quanto indicativa di come si può morire per causa di stanchezza e stress lavorativo. Il caso esaminato riguardava la morte di un lavoratore a seguito di un infarto del miocardio, riconducibile ad una responsabilità del datore di lavoro essendo stato accertato, come si legge nella sentenza della Corte di Appello di Roma, che aveva riformato quella di primo grado, che l'uomo si era trovato ad operare, negli ultimi mesi del suo rapporto di lavoro "in condizioni di straordinario aggravio fisico, in quanto l'attività lavorativa si era intensificata fino a raggiungere ritmi insostenibili, tanto che l'impegno lavorativo era stato continuativo, secondo una media di circa 11 ore giornaliere ed aveva comportato il protrarsi della attività a casa e fino a tarda sera, per essere stati al medesimo affidati svariati e complessi progetti senza affiancamento di collaboratori.

Di qui il riconoscimento del c.d. danno riflesso a favore della moglie e della figlia, le quali, per l'appunto, avevano agito per il risarcimento dei danni patrimoniali e morali derivanti dal decesso del prossimo congiunto.

Detto questo, occorre ora affrontare, in particolare, il tema della competenza a decidere della domanda risarcitoria proposta dagli eredi della vittima deceduta a causa di un evento (esempio infarto del miocardio) riconducibile eziologicamente ad uno stress lavorativo nella accezione suindicata.

Orbene, il panorama giurisprudenziale offre varie soluzioni e la scelta di una piuttosto che di un'altra determina la competenza del Giudice Ordinario o del Lavoro a decidere la controversia.

Sul punto è intervenuta recentemente una ordinanza del Tribunale di Civitavecchia Sezione Lavoro del 06/06/2016 Dr.ssa Irene Abrusci, che si segnala per la chiarezza espositiva e per la correttezza giuridica delle soluzioni adottate

Orbene, detta ordinanza, che si allega, ha giustamente precisato, sulla scorta di precedenti giurisprudenziali (Cass. 20355/2005 e Tribunale di Torino 4932/2010), come gli eredi del lavoratore deceduto sul posto di lavoro, per causa addebitabile alla parte datoriale, hanno la possibilità di proporre diverse azioni: "è possibile agire iure hereditatis, invocando la responsabilità contrattuale del datore (giovandosi, in questo caso, del più favorevole regime probatorio di cui all'art. 1218 CC, ed invocando la clausola di cui all'art. 2087 CC, ma soggiacendo, nello stesso tempo, alle regole di tale tipo di responsabilità, in cui vengono, invero, in rilievo i discussi problemi del danno catastrofico e dei tempi di sopravvivenza della vittima, oppure iure proprio ai sensi dell'art. 2043 CC, non configurandosi, in questo caso, alcuna responsabilità contrattuale del datore di lavoro nei confronti dei congiunti del lavoratore estranei al rapporto intercorso con il de cuius (con le ovvie conseguenze in tema di onere della prova a carico della parte attrice).

"La opzione per la prima o per la seconda forma di tutela si riverbera, ovviamente, sulla competenza funzionale del Tribunale adito, risultando compresa nella competenza del Giudice del Lavoro ex art. 409 c.p.c. solo l'azione contrattuale iure hereditatis che involge più propriamente il rapporto di lavoro (anche se a far valere la responsabilità datoriale derivante dal contratto, non è il lavoratore ma i suoi eredi)".

Risultando, nel particolare caso concreto esaminato, come anche precisato nell'atto introduttivo, che gli eredi della vittima deceduta per un infarto, asseritamente riconducibile a stress lavorativo, hanno inteso proporre una azione risarcitoria iure proprio, per danno riflesso, ritenendosi personalmente danneggiati a causa della perdita del loro caro e, quindi, del rapporto parentale, competente a decidere la controversia sarebbe il Giudice Ordinario e non il Giudice del Lavoro.

Atti , quindi, nuovamente al Giudice Ordinario che aveva declinato la propria competenza a favore di quella speciale del Giudice del Lavoro, sulla base dell'assunto non condiviso, come chiarito nella ordinanza de qua, che il rapporto di lavoro non era stato occasione ma causa o concausa dello stress fisico del prestatore di lavoro e dell'evento illecito prodottosi tale da radicare la competenza del Giudice specializzato ex art. 409 c.p.c.




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