“Mia cara, Larry ha trovato ciò che tutti cerchiamo ma invano; e credo che nessuno l’abbia conosciuto senza divenirne più nobile e più buono. Dopotutto la bontà è indubbiamente la forza più grande che esista nel mondo: ed egli ce l’ha”.
Rivolte a Isabel dall’io narrante dello stesso W.S. Maugham, queste parole del finale del “Il filo del rasoio” – che si riferiscono al personaggio centrale della storia, Larry Darrell (protettore/fidanzato per breve tempo di un’amica d’infanzia, Sophie, datasi all’alcol dopo l’incidente che le aveva ucciso il marito e la figlioletta) – immettono subito nel vivo di un passaggio che può, a buon diritto, considerarsi fondamentale per l’istituto in esame.
É necessario comunque intendersi in proposito. Se si tratta di prendere atto dell’insuccesso pressoché certo che attende al varco, rispetto all’assistito, qualsiasi linea gestionale mossa da atteggiamenti di gelo e indifferenza verso quest’ultimo, sarebbe arduo dissentire da Maugham. E tuttavia quel che si può e si deve pretendere dall’amministratore di sostegno - ecco il punto - è qualcosa di non proprio coincidente (benché simile) con la bontà in senso stretto.
É significativo che nemmeno Larry, del resto, riesca appieno nel suo intento filantropico. Il gioco dell’abnegazione e dell’astinenza durerà solo per poco; e, appena un anno dopo la ricaduta nell’alcol, Sophie verrà scoperta con la gola tagliata nel porto di Tolone, vittima del giro di droga e perdizione in cui era ripiombata. Maugham lascia capire che nessun vicario, in un caso simile, avrebbe potuto farcela (come riconosce proprio Larry nelle ultime pagine: “Non è il caso di prendersela più per Sophie, Isabel: ho avuto la sensazione tutt’oggi che Sophie sia là dove voleva essere, con Bob e Linda. So che quello che dico è solamente un luogo comune; ma è un conforto”). La realtà rimane comunque quella che s’è detta.
In generale allora: ci sono grovigli nelle persone che nemmeno la bontà più grande di un altro può ricomporre - il che offre, rispetto agli interrogativi che qui importano, una prima indicazione di metodo: non è vero che, qualora al mondo tutti fossero come il protagonista del romanzo in questione, i problemi delle creature bisognose di aiuto sarebbero già risolti.
Ed è implicita la seconda traccia di lavoro post 2004: se per ricoprire quel ruolo ciascun vicario dovesse essere eguale a Larry, e possedere le sue stesse doti di generosità e altruismo, l’intero istituto dell’amministrazione di sostegno potrebbe “chiudere bottega”, per mancanza di candidati all’altezza.
Conclusione operativa da trarre: esiste bensì, in capo all’ amministratore, un fattore in mancanza del quale nessuna relazione col beneficiario potrà mai funzionare convenientemente; e si tratta però - come attestano le stesse formule che impiega il legislatore dell’A.d.S., e come si coglie soprattutto a esaminare le singole storie di disagio (quali documentate nei provvedimenti giudiziari in materia degli ultimi anni) - di un quid di diverso dalla bontà in senso stretto.
Per dirla in breve: occorrerà sussista nei riguardi del beneficiario un atteggiamento - certo all’insegna della gentilezza, ma - imperniato prevalentemente sul “fuori” piuttosto che sul “dentro” delle cose. Più precisamente: non tanto quello che il gestore sente, vorrebbe, pensa o immagina nel proprio foro interno (avente a che fare cioè col suo universo morale, con i filamenti e le pulsioni del suo spirito), quanto piuttosto ciò che viene scambiato alla luce del sole col disabile, che tutti quanti possono vedere (rapportato com’è a un certo tipo di linguaggio e di interfacciamento quotidiano).
Un’atmosfera fondata insomma sull’alleanza, un codice all’insegna dell’empatia; un sistema di gesti e di sguardi riportabile alla complicità fra i due - la disponibilità dell’amministratore (e in larga misura anche del giudice tutelare) a guardare il mondo con gli occhi dell’interessato, l’inclinazione a prenderlo per quello che è, assai più che non per quello che dovrebbe essere.