-  Redazione P&D  -  07/09/2012

IL FINE-VITA NEL DIRITTO COMPARATO – Carlo CASONATO

Il tema riguardante i diritti delle persone nelle fasi finali della propria vita è emerso in tutti gli Stati ad economia avanzata ed è divenuto ormai un oggetto di studio e di riflessione anche giuridica assai frequentato. In molti ordinamenti, inoltre, una serie di casi giunti fino all"interno delle aule di giustizia ha conferito al tema un rilievo estremamente pratico e reale, richiamando il forte nesso esistente fra quello che possiamo convenzionalmente qualificare biodiritto e l"attenzione verso la persona concreta, l"individuo nelle sue più specifiche e peculiari caratteristiche.

Al di là delle differenze anche consistenti fra le discipline adottate nei singoli ordinamenti che verranno presi in considerazione in questo scritto, paiono emergere alcune tendenze comuni: il progressivo allargamento dei confini riconosciuti all"autodeterminazione individuale e l"utilizzo non solo occasionale di istituti volti a riconoscere le circostanze specifiche dei singoli casi concreti. In questo senso, alcuni ordinamenti significativi si orientano, con un grado di consapevolezza assai variabile, verso uno schema che, più che definibile in termini di sharp boundaries, si caratterizza per presentare una serie di fuzzy sets.

Come già sostenuto in altre sedi, la ricostruzione più convincente del rapporto medico-paziente, sintetizzata nella non felice formula del consenso informato, articola il concetto in due componenti: una informazione di natura tecnica ed una scelta di natura morale.

Il primo profilo, quello informativo, si sostanzia di percentuali di successo, controindicazioni, effetti collaterali, statistiche di rischio, alternative, e a motivo di tali contenuti di carattere tecnico vede la centralità del medico che si rivolge al paziente. Ma nel momento in cui la persona, sulla base delle informazioni ricevute, deve decidere quale alternativa accettare o se rifiutare quanto proposto, la sua decisione non è di natura tecnica, ma morale. In particolar modo quando si tratti di scelta che influenza le fasi finali della vita, la decisione di proseguire o di interrompere una terapia, piuttosto che di non iniziarla affatto, consiste in un giudizio di coerenza della proposta medica con la propria struttura morale, con la rappresentazione della propria umanità, con l"immagine che si ha di sé e con il ricordo che si vuole lasciare: in una parola – se si vuole – con l"idea che si ha della propria dignità. In questa fase, non sono percentuali e statistiche a dettare la scelta ma significati di senso e giudizi di valore riferiti a una parte cruciale della propria esistenza quale quella finale.

Pare quindi logico che, se la volontà da cui far dipendere la decisione su un determinato trattamento debba in linea di principio essere il risultato di un processo di condivisione fra professionista e paziente (il consenso, in questo senso, non deve sostituire la solitudine del "medico paternalista" con la solitudine del malato), in caso di disaccordo, sia la natura morale della scelta da adottare a imporre la prevalenza della volontà della persona (agente morale, appunto) cui il trattamento è rivolto.

Su queste basi ricostruttive, la disciplina delle scelte di fine vita diventa uno stimolante banco di prova per verificare, all"interno dei più generali rapporti fra diritto, scienza e medicina, fino a che punto gli ordinamenti giuridici riconoscono, rispettano e promuovono l"autodeterminazione individuale. L"analisi che segue, pur condotta su ordinamenti tutti appartenenti alla forma di Stato di derivazione liberale, farà emergere differenze rilevanti nelle discipline adottate nei singoli Stati; differenze che paiono porre distinti problemi di eguaglianza e di coerenza e che verranno inserite all"interno di un quadro più complessivo di valutazione critica della tenuta e della coerenza delle discipline considerate.

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