Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  20/04/2023

Il fondamento normativo del consenso informato - Cecilia De Luca

Esclusa la possibilità di ricondurre il consenso informato all’art. 50 c.p., occorre verificarne il fondamento normativo. Qui la Convenzione di Oviedo merita di essere chiamata in causa, anche se ne è stata discussa l’applicabilità. Ha indotto a ritenere che essa non fosse entrata in vigore il fatto che il Governo non ha provveduto ad esercitare la delega conferitagli dall’art. 3 della legge di ratifica n. 145/2001 per emanare “uno o più decreti legislativi recanti ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai principi” della convenzione. In senso contrario, si rileva che proprio il riferimento ad “ulteriori disposizioni” dimostra l’immediata vigenza delle norme direttamente previste dalla Convenzione stessa in quanto non influenzata dal contenuto di tali emanandi decreti. Secondo autorevole dottrina, invece la conferma dell’inapplicabilità della Convenzione di Oviedo deriva dal fatto che l’Italia non ha ancora provveduto a depositare presso il Consiglio d’Europa il proprio strumento di ratifica, come invece richiesto dall’art. 33 della Convenzione stessa. Tuttavia essa riveste un interesse che richiede di tenerne conto e del resto poiché è stata ratificata e contiene principi conformi alla nostra Costituzione, il mancato deposito dello strumento di ratifica non impedisce di attribuire alla disciplina comunitaria “una funzione ausiliaria sul piano interpretativo”: le  sue disposizioni non possono prevalere sulle norme interne contrarie, ma devono essere utilizzate nell’interpretazione della legge nazionale al fine di attribuirle una lettura il più possibile conforme all’ordinamento comunitario. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie tendono a ricondurre il consenso nell’ambito dei diritti costituzionali della persona, individuandone il fondamento negli articoli 13, 32 e 2 Cost. Ciò significa che anche il diritto di autodeterminazione, in riferimento a trattamenti di natura sanitaria, non è un principio collegato al solo diritto alla salute, ma è espressione del generale diritto di libertà dell’individuo. Si può dire che si è pervenuti ad una integrazione originale tra libertà e salute, intesa questa nel senso di benessere psico-fisico dell’individuo che rappresenta modalità di estrinsecazione del fondamentale e superiore diritto di autodeterminazione del soggetto. In questo senso la Costituzione è informata al “principio personalistico”, ossia incentrata sul valore primario della persona, portatrice di diritti in quanto tale e quindi indipendentemente dall’intervento dello Stato e senza il condizionamento di finalità collettive. Ciò emerge espressamente dall’art. 2 Cost., che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che come membro di un gruppo. Quindi si può sostenere il riconoscimento costituzionale della libertà di autodeterminazione, la quale, tuttavia, troverebbe secondo questa impostazione ben più espliciti referenti nella nostra Costituzione. Infatti, anche l’art. 32 Cost., che condiziona il trattamento sanitario obbligatorio ad un’esplicita previsione di legge, nonché alla sussistenza di un interesse della collettività ed al rispetto della persona umana, è espressione del principio personalistico, in quanto volto ad escludere la strumentalizzazione autoritativa dell’uomo. Come conseguenza, la tutela della libertà di autodeterminazione pretende l’inviolabilità fisica dell’individuo. La Suprema Corte ha cristallizzato questa tesi affermando che “la necessità del consenso si evince, in generale, dall’art. 13  della Costituzione, il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale, nel cui ambito deve ritenersi inclusa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica”. I richiami all’articolo 13 Cost., che riconosce l’inviolabilità della libertà personale, e all’art. 32 Cost. sono stati tuttavia criticati da una parte minoritaria della dottrina, che ha evidenziato come tali disposizioni siano connotate da una preminente valenza pubblicistica, e non siano quindi idonee a regolare le relazioni di diritto privato. È stato sottolineato, inoltre, che, se si facesse rientrare la libertà di autodeterminazione nell’art. 13 Cost., qualunque obbligo sarebbe incostituzionale se non fosse introdotto con “atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Una parte della dottrina ha anche escluso che il diritto al consenso informato possa rientrare nell’art. 2 Cost., perché i diritti inviolabili appartengono all’essere umano in quanto tale, senza che debba intervenire lo Stato per concederli, mentre l’obbligo di acquisire il consenso informato “viene ad esistenza solo nel quadro del rapporto che l’uomo, nella sua qualità di paziente, instauri con il medico”. Inoltre la medesima dottrina mette in risalto l’assenza nel diritto al consenso informato di un connotato tipico dei diritti inviolabili, l’indisponibilità, in quanto nulla impedisce al paziente di rinunciare al diritto di essere informato. Esclusane la natura di diritto assoluto della persona, il diritto al consenso informato andrebbe ricondotto nella categoria dei diritti di credito, ossia relativi, in quanto nasce e viene esercitato all’interno del contratto d’opera intellettuale. È stato, tuttavia, obiettato che il divieto assoluto di disporre di un bene non è l’unico modo in cui si  manifesta l’indisponibilità, ben potendo questa essere rintracciata nella possibilità di revocare in ogni momento e senza condizioni il consenso alla violazione del proprio diritto, e quindi anche nella possibilità per il paziente di pretendere l’informazione, riconsiderando la iniziale scelta di rinunciarvi. Tuttavia, pur sostenendo che il diritto alla libera autodeterminazione sia sprovvisto del requisito della indisponibilità, e che quindi non possa rientrare nei diritti inviolabili, si dovrebbe ammettere la natura assoluta, e non già la relativa, di questa libertà in virtù della tutela erga omnes riconosciutale dall’ordinamento. Infatti, il legislatore ha protetto il bene giuridico della libertà morale contro le aggressioni da chiunque poste in essere attraverso la previsione delle fattispecie contenute negli artt. dal 610 al 613 c.p. (rispettivamente, violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, minaccia e stato di incapacità procurato mediante violenza). Tuttavia, se è vero che l’ordinamento impone a tutti di astenersi dal limitare la libertà di autodeterminazione, appare anche indubitabile che questa, entrando nel rapporto tra paziente e medico, impone a quest’ultimo l’obbligo di attivarsi per consentire al malato una scelta consapevole, il che è incompatibile con la struttura del diritto assoluto, la quale invece richiede ai consociati un mero dovere di astenersi da attività che possano pregiudicarlo. Comunque, pur sostenendo che la rinunciabilità del diritto alla libera e consapevole autodeterminazione ne escluda l’ingresso tra i diritti della personalità, e che l’obbligo di attivarsi implichi la natura relativa del diritto al consenso informato, non sembra che ne possa essere messa in discussione la rilevanza costituzionale, esplicitamente attribuita ad esso dall’art. 32, comma 2, Cost. Anche la legislazione ordinaria offre indicazioni chiarificatrici in ordine alla rilevanza da attribuire alla volontà del paziente. La legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, specifica all’art. 33, ribadendo letteralmente il principio già espresso dall’art. 1, comma 1, della legge n. 180/1978, che il trattamento sanitario è sempre volontario. Dunque il legislatore aderisce ad una concezione che vede nell’uomo non uno strumento, in quanto tale suscettibile di essere asservito ad interessi di rilevanza collettiva, ma un valore in sé e per sé considerato, titolare di diritti inviolabili che l’art. 2 Cost. gli riconosce “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Questa formulazione esprime ulteriormente come la partecipazione alla vita pubblica non comporti la subordinazione dell’individuo al solo interesse della collettività: infatti, anche nell’ambito dei più vari aggregati sociali, la persona conserva intatti i propri diritti inviolabili, tra i quali la libertà di autodeterminazione, la cui violazione si risolve in un’offesa ad uno degli aspetti della dignità umana. Ancora più rilevante è il disposto dell’art. 1, commi 2 e 5, della legge n. 180/1978, che, in attuazione dell’art. 32, comma 2, Cost., circoscrive ai casi “espressamente previsti da leggi dello Stato”, la possibilità di eseguire accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, i quali devono, comunque, essere praticati “nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura” e “devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”. Su questa base, tra la Convenzione di Oviedo, la sommarietà degli artt. 2, 13 e 32 Cost., dell’art. 33 della legge n. 833/1978 ed 1 della legge 180/1978, l’unica disciplina generale del consenso informato è quella deontologica. Le disposizioni dei codici deontologici, infatti, anche senza essere richiamate dalla legge, hanno rilevanza giuridica come “elementi di integrazione extranormativa dei concetti di diligenza professionale (e quindi di colpa) e delle clausole generali di correttezza e buona fede”. Peraltro, anche in materia di consenso risulta confermata la rilevanza giuridica delle regole deontologiche “quali strumenti ermeneutici idonei alla precisazione di principi generali, come quelli dell’adeguatezza dell’informazione, della libertà del consenso, ed in ultima analisi del principio di rispetto dell’autodeterminazione”. Anche l’orientamento che esclude la natura giuridica delle norme deontologiche ritiene che queste, essendo fonti non legislative, possono rientrare nel concetto di “discipline” la cui inosservanza costituisce colpa specifica ex art. 43 c.p. Quindi, la disciplina deontologica, anche se priva nelle sue disposizioni di natura giuridica, risulta rilevante ai fini della soluzione dei concreti casi giudiziari, in quanto costituisce un indispensabile riferimento per valutare il carattere colposo della condotta del professionista.

In allegato il saggio integrale con note


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