-  Valeria Vagnoni  -  11/02/2017

Il Giudice può disporre la reintegra anche se lazienda è fallita – Cass. civ. 2975/17 – Valeria Vagnoni

Il Giudice del lavoro, accertata l'illegittimità del licenziamento, può disporre la reintegra nel posto di lavoro anche se è intervenuto il fallimento dell'azienda, potendone comunque derivare benefici in capo al lavoratore licenziato.

La Corte d'appello accertava l'illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato dall'azienda in liquidazione del lavoratore, senza però disporne la reintegra nel posto di lavoro od emettere altra pronuncia sulle conseguenze economiche dell'invalidazione del recesso poiché, nelle more, era intervenuto il fallimento della società ed era cessata l'attività produttiva. Il lavoratore ricorreva in Cassazione denunciando che l'omessa reintegra nel posto di lavoro, nonostante l'azienda fosse fallita, non gli aveva permesso di proseguire l'attività alle dipendenze di un altro datore di lavoro che aveva preso in affitto un ramo della stessa, cosa che era stata possibile per tutti gli ex dipendenti.

Anzitutto, la Suprema Corte rileva che, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ove il lavoratore abbia agito in giudizio chiedendo, con la dichiarazione di illegittimità o inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore di lavoro dichiarato fallito, permane la competenza funzionale del giudice del lavoro, in quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull'interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all'interno dell'impresa fallita, sia per l'eventualità della ripresa dell'attività lavorativa (conseguente all'esercizio provvisorio ovvero alla cessione dell'azienda, o a un concordato fallimentare), sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, estranei all'esigenza della par condicio creditorum (cfr., ex multis, Cass. civ., n. 7129/11; Cass. civ., n. 16867/11; Cass. civ., n. 4051/04).

Per cui, tenuto conto che la competenza funzionale permane, in tali evenienze, in capo al giudice del lavoro, egli può emettere – sussistendone gli estremi – i provvedimenti richiesti (reintegra nel posto di lavoro e altre statuizioni a tutela di diritti non patrimoniali).

Inoltre, il Supremo Collegio ha altresì affermato che, all'invocata pronuncia di reintegra non osta la cessazione dell'attività della società fallita. Infatti, secondo le pronunce della giurisprudenza di legittimità, in caso di fallimento dell'impresa datrice di lavoro, dopo il licenziamento d'un suo dipendente, questi ha interesse ad una sentenza di reintegra nel posto di lavoro, previa dichiarazione giudiziale dell'illegittimità del licenziamento. Tale pronuncia non ha ad oggetto solo il concreto rispristino della prestazione lavorativa (che presuppone la ripresa all'eventualità di un esercizio provvisorio dell'impresa), ma anche le possibili utilità connesse al ripristino del rapporto. Quest'ultimo si trova in uno stato di quiescenza, dal quale possono scaturire una serie di utilità, quali la ripresa del lavoro o l'eventuale ammissione ad una serie di benefici (cfr. Cass. civ., n. 6612/03; Cass. civ., n. 11010/98).

Per tutti questi motivi la Corte di Cassazione, ritenendo il ricorso meritevole di accoglimento, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello.




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