-  Redazione P&D  -  09/04/2017

Il modello sistemico e l' esistenza di verità indipendenti dal contesto- Sara COSTANZO

Uno dei capisaldi del pensiero sistemico è la convinzione che tutte le teorie, e dunque ogni tipo di percorso che utilizziamo per conoscere e valutare un determinato aspetto del mondo, sono una creazione della mente dell"uomo. Detto in altri termini, esse sono parte del nostro modo di vedere la realtà e non proprietà della realtà stessa. Al pari di molte altre scienze, anche la psicologia sistemica ha dunque considerato essenziale il ruolo che l"osservatore svolge nel momento in cui conosce la realtà al punto che si ritiene che in un certo senso contribuisca a "costruirla". Ciò che m"interessa rilevare è però un altro aspetto: in questa visione non esistono attribuzioni di significato per cosi dire assolute e dunque "realmente reali". Ad eccezione di quelle che derivano, come dice Watzlawick (la cui definizione, sebbene sia "datata", resta esemplificativa di certezze e difficoltà di una descrizione del genere) da una corretta e condivisa percezione sensoriale, dal senso comune e principalmente da verifica scientifica.

Non esiste alcuna realtà assoluta ma soltanto concezioni della realtà soggettive e spesso completamente contraddittorie, che vengono ingenuamente presunte di essere la realtà "reale". Molto spesso, ma particolarmente nella psichiatria (ove il grado di adattamento alla realtà di un individuo svolge un ruolo speciale come indizio della normalità) confondiamo due aspetti molto diversi di quella che chiamiamo realtà. Il primo concerne le proprietà puramente fisiche, oggettivamente discernibili delle cose. Questo aspetto viene pertanto collegato strettamente alla corretta percezione sensoriale, alle questioni del c.d. senso comune, o alla verifica scientifica oggettiva, ripetibile. Il secondo aspetto consiste nella attribuzione di significato e di valore a queste cose. […] Usiamo il termine realtà1 (o di di primo tipon.d.r.) ogni qual volta intendiamo quegli aspetti della realtà accessibili al consenso percettuale e soprattutto alla convalida sperimentale, ripetibile e verificabile (Paul Watzlawick, 1976)

La prima cosa che vorrei osservare è che, benché Watzlawick stesso eviti di usare il termine "verità", a mio avviso, esso risuona ogni volta che si parla di realtà "reale". La sensazione che si ha è che, mentre le "attribuzioni di significato" sono "vere" nel senso di "esistenti", la realtà di "primo tipo" di cui ci parla l"Autore è tale proprio perché considerata in un certo senso "vera in sé". Il fatto che esistano molte visioni della stessa cosa e che tutte hanno pari dignità o sono portatrici di un significato che va esplorato, non esclude che alcune di esse sono più aderenti alla realtà "reale" e dunque più adeguate a rappresentarla, sebbene in un singolo aspetto. Detto in altri termini, benché nessuna idea sia per sua natura capace di cogliere e descrivere "tutta" la realtà, alcune di queste sono "vere" e altre semplicemente "esistenti" sebbene essenziali allo scorrere della vita esattamente come le prime.

Ma torniamo alla definizione di "realtà reale". La spiegazione di Watzlawick tende a svincolare la realtà reale da parametri soggettivi. Nel caso del "senso comune" e di una "corretta percezione sensoriale" questa cosa vuol dire, quasi in un paradosso linguistico, che è reale ciò che la totalità dei soggetti coglie nello stesso modo. Cioè è oggettiva una realtà che tutti soggettivamente percepiscono o sentono alla stessa maniera.

Facciamo un esempio molto semplice. Se guardo una bandiera italiana, il "fatto" che essa sia di tre colori diversi è una "realtà reale" nel senso che tutti, se messi nelle giuste condizioni, percepiscono la stessa cosa. Questa precisazione della "giusta condizione" è di fondamentale importanza. Immaginiamo, infatti, di avere difetti di vista o di trovarci in condizioni ambientali sfavorevoli (ad esempio una luce accecante o il buio). In tali casi la nostra capacità di cogliere la realtà reale è condizionata o compromessa. Se andiamo un po" più a fondo del discorso iniziato da Watzlawick, possiamo dire che la "realtà reale" può essere colta da chiunque si trovi nella "giusta posizione" per farlo, cosa che in questo caso coincide con il pieno utilizzo di alcuni strumenti (quelli sensoriali appunto) di cui ogni uomo è dotato circa nello stesso modo. Il discorso è già più complicato se parliamo di senso comune. Quest"aspetto tira, infatti, in gioco realtà che nascono dal fatto che una serie d"individui attribuisce a un evento uno stesso significato. Definizione che a ben vedere è molto simile a quella di realtà di secondo tipo. Ciò premesso, viene da chiedersi quali caratteristiche debba avere questo senso comune e quanto generale debba essere per segnare lo spartiacque tra i due tipi di realtà. La sensazione è che Watzlawick intuisca che esista una sorta di "senso" comune a tutti gli uomini e dunque al di sopra di qualunque attribuzione di significato che derivi da regole sociali. E questo indipendentemente (o meglio su un altro piano logico) dal fatto che alcune regole sociali possono accoglierlo, rispecchiarlo, addirittura promuoverlo. In sintesi possiamo dire che, anche qui, la possibilità di cogliere la realtà reale è subordinata al fatto di trovarci in una giusta posizione per farlo, cosa che in questo caso vuol dire saper cogliere dentro di sé e dunque fuori, quel qualcosa che accomuna tutti gli uomini in quanto tali indipendentemente dal fatto che possa realizzarsi in forme diverse da contesto a contesto.

Quest"ultimo punto ci porta dritti all"altro parametro che Watzlawick utilizza per definire la realtà reale e cioè il metodo scientifico. Se guardiamo bene, il tentativo di definire in questi termini l"oggettività della realtà tradisce un pensiero non raro nel mondo "scientifico" e cioè l"idea che razionalità e metodo scientifico siano in un certo senso sinonimi. Detto in altri termini, la scienza (e dunque i suoi parametri) sono assimilati al concetto stesso di ragione al punto che ciò che non è scientifico (nel senso di raggiunto attraverso tale metodo) appare sostanzialmente "irrazionale", dunque se non "contro" ragione almeno al di fuori della sua portata. E dunque in un certo senso al di fuori di una verità oggettiva. La scienza (e il suo metodo) ha dunque finito per essere non tanto uno degli strumenti (al pari di altri) che la ragione dell"uomo può e deve utilizzare per conoscere il mondo ma l"essenza stessa della "razionalità". E la razionalità intesa in questo modo ha finito per essere sinonimo di verità.

La nostra visione non esclude che l"uomo possa conoscere il mondo anche attraverso altri strumenti (sentimenti, emozioni, intuizioni) ma, considera questo tipo di conoscenza (in se stessa, e dunque al di là del fatto che possa poi essere oggetto di verifica scientifica) un"attribuzione di significato e dunque soggettiva, variabile da individuo a individuo.

Questa parentesi ci serve per chiederci una cosa importante e cioè se esista per l"uomo la possibilità di cogliere la "realtà reale" anche attraverso metodi diversi da quello scientifico, cosa che implica la possibilità che di raggiungere delle "certezze" anche attraverso metodi diversi da questo.

Curare attraverso la relazione, ci porta per lo più a fare i conti con "realtà" che non solo non sono percepibili con i sensi comuni ma che neanche possono essere osservate e studiate con un metodo di tipo scientifico. Un esempio molto semplice è quello della fiducia. Benché essa non sia visibile o misurabile scientificamente nessuno di noi ha dubbi sul fatto che in un certo momento della relazione terapeutica essa sia presente, "reale", "vera". Al punto che su questa "certezza", in merito al "se" e alla "qualità" del suo essere presente, si basa gran parte del nostro intervento. Detto in altri termini, questa convinzione, pur non essendo frutto di procedimenti logici o ripetibili, non ci appare meno certa o meno evidente di altre. E tale convinzione non è irrazionale o al di fuori del campo di azione della ragione. Tutt"altro. Essa cioè ci appare qualcosa di evidente, frutto di  un "complesso d"indizi il cui unico senso adeguato, la cui unica lettura ragionevole è quella certezza". Se consideriamo la ragione come capacità di "rendersi conto della realtà in tutti i suoi fattori", tale certezza è raggiunta "solo" attraverso un metodo diverso, metodo che la ragione usa quando sono in gioco fenomeni che hanno a che fare con "l"umano comportamento".

Anche qui la capacità di cogliere questa realtà implica che la ragione si trovi nella giusta posizione, cosa che in questo caso vuol dire utilizzare il procedimento più adeguato al tipo di oggetto che intendo conoscere. Detto in altri termini, se cercassi di utilizzare il metodo scientifico per cogliere la realtà della fiducia, essa mi apparirebbe inesistente. Ma ciò non avrebbe a che fare con l"esistenza o meno della fiducia ma con il fatto che, al pari di chi voglia cogliere i colori della bandiera con il tatto, non sto utilizzando in modo adeguato gli strumenti di conoscenza che possiedo.

Se ciò è abbastanza chiaro, resta da chiedersi se tale realtà possa essere considerata "realmente tale" e cioè tra quelle che Watzlawick definisce di primo tipo. Il fatto che questo tipo di legame sia proprio "solo" di quella particolare relazione (nel senso che il paziente si fida di un certo terapeuta in un certo momento) non vuol dire che esso sia frutto di un"attribuzione di significato "soggettiva". Facciamo un altro esempio con un oggetto diverso e di più facile comprensione: che l"acqua sia formata d"idrogeno e ossigeno è una verità chimica. Chi osserva questa cosa ha gli strumenti scientifici e di pensiero (e dunque è nella giusta posizione) per riconoscere tale composizione e tale scoperta gli appare un"evidenza, una verità. Questa certezza non scompare anche se tanti altri, che non sono in quella posizione scientifica e di pensiero, possono dubitare di ciò che lui ha visto. Di fronte a tali dubbi, il nostro scienziato e la comunità tutta, non dicono che la scoperta sia "soggettivamente reale" ma solo che alcuni non hanno gli strumenti per rendersene conto, per coglierla. La stessa cosa accade per la fiducia. Essa può essere colta da chiunque osservi quella relazione purché sia "nella giusta posizione" e cioè capace di cogliere quel "complesso d"indizi il cui unico senso adeguato, la cui unica lettura ragionevole è quella certezza". Esistono dunque realtà "reali" uniche, non ripetibili in condizioni diverse o in altri momenti e non verificabili con i criteri tipici degli esperimenti scientifici.

Il discorso sulla realtà reale è dunque ampio e complesso. Essa non può essere ridotta a quella percepibile con i sensi o dimostrata scientificamente ma è anche quella riguardo alla quale la certezza della sua esistenza è qualcosa che si pone all"uomo come evidenza, anche se singoli uomini possono non trovarsi nella condizione di riuscire a coglierla. E tale conclusione non è lontana dalla ragione ma piuttosto realizza un"idea di ragione più completa e capace di afferrare la realtà nella sua totalità.

L"ultima considerazione da fare riguarda la "viabilità" della conoscenza. L"idea che in linea di massima non ci siano attribuzioni di significato assolute ha portato nella psicologia sistemica un"altra grande rivoluzione: in quest"ottica "conoscere" non ha, dunque, più a che fare con la ricerca di una "verità" in se quanto con la possibilità di sapere e potere operare nel mondo in modo adeguato.

Benché questa visione sia utile in molti casi, mette, però da parte un"importante riflessione sulla natura profonda dell"uomo. Conoscere il mondo non ha, infatti, solo a che fare solo con un sapersi muovere nella realtà in modo adeguato ma anche (e soprattutto) con la ricerca di qualcosa di totale e assoluto e con la certezza che, anche se non immediatamente visibile, "da qualche parte" tutto questo possa esistere. Quando noi pensiamo o agiamo, non solo non escludiamo che una verità del mondo e delle cose possa esistere ma ci muoviamo proprio sulla base di questa certezza, di questo desiderio di scoprirla, di possederla, di sentire che il nostro pezzetto di verità è parte di una verità più ampia. Non è la viabilità in se (pur essenziale) che muove l"uomo ma il desiderio di questa corrispondenza del suo essere e della sua visione del mondo con qualcosa d"altro da se stesso che da al suo comportamento un senso e una consistenza. In quest"accezione una strada è tanto più viabile ed efficace a farci vivere adeguatamente nel mondo (in assoluto e non solo in quella specifica circostanza) quanto più essa appaga questo desiderio. Detto in altri termini, cosi come la visione del tutto ci aiuta a operare meglio nel particolare, una conoscenza che anela, aspira, cerca il vero è molto più viabile di una che non fa perché tiene in conto un aspetto della vita che ci appartiene (al genere umano, non a tutti i singoli uomini) profondamente.




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