-  Valeria Cianciolo  -  11/05/2017

Il nuovo criterio del tenore di vita - Avv. Valeria Cianciolo

Breve nota a Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 10 febbraio – 10 maggio 2017, n. 11504

Gavin D'Amato, l'avvocato divorzista della Guerra dei Roses, in una battuta del celebre film diceva: "Un divorzio civile è una contraddizione in termini!".

Moglie di un economista, in passato ministro.

La sentenza che ieri è stata battuta da tutte le Agenzie di stampa e che conferma il rigetto, deciso dalla Corte d'appello di Milano nel 2014, della richiesta di assegno divorzile avanzata da Lisa Caryl Lowenstein nei confronti dell'ex marito Vittorio Grilli, già ministro dell'Economia nel Governo Monti ha rivoluzionato alcuni principi di diritto per la determinazione dell'assegno divorzile.

Anche i ricchi piangono!

Dietro la sentenza di ieri c"è un antefatto sconosciuto forse ai più.

Con un'ordinanza interlocutoria del 26 maggio 2016 la Corte di cassazione aveva richiesto al Direttore dell'ufficio del massimario del ruolo una relazione tematica sul tema del tenore di vita, proprio per dirimere la controversia fra i coniugi Grilli/Lowenstein.

Reputandosi indispensabile a oltre 25 anni dalla sentenza delle sezioni unite del 1990 un approfondimento dottrinale giurisprudenziale,  esteso anche alla giurisprudenza delle corti di Strasburgo di Lussemburgo nonché nelle corti dei principali paesi dell'Unione Europea:  gli Ermellini chiedevano di conoscere:

1) quale fosse l'interpretazione nell'attuale contesto ordinamentale della nozione di "adeguatezza /inadeguatezza dei mezzi riferita alla persona dell'ex coniuge che chiede l'assegno divorzi ai sensi dell'art. 5 legge n. 898 del 1970. 2) quale fosse la tenuta del criterio del tenore di vita matrimoniale (di individuazione esclusivamente giurisprudenziale), quale unico e privilegiato parametro per la valutazione ai fini della spettanza o no dell'assegno divorzile, della predetta adeguatezza in attesa dei mezzi del coniuge richiedente l'assegno;

3) quale fosse l'individuazione dell'attuale contesto ordinamentale di possibili criteri alternativi rispetto a quello del tenore di vita matrimoniale.

La sentenza battuta da tutte le agenzie di stampa nella giornata di ieri è la risposta a quell'ordinanza.

Per gli Ermellini «il diritto all"assegno di divorzio è condizionato dal riconoscimento della mancanza di mezzi adeguati» per «l"ex coniuge richiedente», o, in alternativa, dalla constatazione della sua «impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive».

In sostanza, niente assegno quando l"ex coniuge ha la possibilità concreta di raggiungere «l"autosufficienza economica».

Questo il principio di diritto espresso: "Il giudice del divorzio, richiesto dell'assegno di cui all'art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall'art. 10 della legge n. 74 del 1987, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi e dell'ordine progressivo tra le stesse stabilito da tale norma:

A) deve verificare, nella fase dell'an debeatur - informata al principio dell'autoresponsabilità economica" di ciascuno degli ex coniugi quali "persone singole", ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall'accertamento volto al riconoscimento, o no, del diritto all'assegno di divorzio fatto valere dall'ex coniuge richiedente -, se la domanda di quest'ultimo soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di «mezzi adeguati» o, comunque, impossibilità «di procurarseli per ragioni oggettive»), con esclusivo riferimento all"indipendenza o autosufficienza economica" dello stesso, desunta dai principali "indici" - salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie - del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza dell'ex coniuge richiedente), delle capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all'eccezione ed alla prova contraria dell'altro ex coniuge;

B) deve "tener conto", nella fase del quantum debeatur - informata al principio della «solidarietà economica» dell'ex coniuge obbligato alla prestazione dell'assegno nei confronti dell'altro in quanto "persona" economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell'assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all'esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma («[....] condizioni dei coniugi, [....] ragioni della decisione, [....] contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, [....] reddito di entrambi [....]»), e "valutare" «tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio», al fine di determinare in concreto la misura dell'assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell'onere della prova (art. 2697 cod. civ.)."

Perché questa sentenza ha fatto così "rumore"?

Innanzitutto, la sentenza afferma sostanzialmente che non sia tanto il parametro del tenore di vita matrimoniale a risultare ingiustificato o insoddisfacente, quanto la sua lettura essenzialmente assistenziale. E questo è ancora più vero, se comporta una eccessiva rigidità nell"attribuzione e nella quantificazione dell"assegno, che, sganciato dalla radice contributiva, rischia di risultare sovrabbondante in alcune situazioni ( si pensi al caso di matrimonio breve, senza figli, con modesto apporto o sacrificio del coniuge con minori redditi) ovvero non abbastanza rimunerativo in altre (in caso, per esempio, di incrementi economici realizzati con il contributo e il sacrificio dell"altro coniuge).

Quindi, la rivoluzione sta nel fatto di non riconoscere alcun automatismo all"assegno pechè finito il matrimonio finisce tutto quello che vi ruota intorno. Insomma, si recupera il matrimonio come momento degli affetti finiti i quali, perchè il mondo va così, finiscono anche gli effetti. Tutti.

Si recupera il momento dell'individualità della scelta. Si recupera il fatto di sentire il divorzio come una separazione dei cuori e nient'altro.

D'altro canto, è giusto che sia così. Il diritto di famiglia è il campo dove il costume sociale ha più di ogni altro luogo il suo peso specifico. 

Il tema dei criteri di determinazione dell"assegno di divorzio è stato uno dei più dibattuti del diritto di famiglia per tutti gli anni Ottanta. Due i punti intorno ai quali si era condensata la discussione: la concezione unitaria ovvero composita dell"assegno, da una parte, il parametro del dignitoso mantenimento ovvero del tenore di vita goduto durante il rapporto coniugale, dall"altra.

La L. n. 74/1987, in tema di divorzio, modificativa della L. n. 898/1970, ha attribuito all"assegno divorzile una funzione meramente assistenziale, dettando i criteri per la sua determinazione e subordinando la sua concessione alla circostanza che la parte beneficiaria non abbia mezzi adeguati o non abbia modo di procurarseli per poter mantenere il precedente tenore di vita; si è, quindi, parlato di solidarietà post coniugale, volta a rendere uniforme la disciplina del divorzio a quella della separazione.

La sentenza delle sezioni Unite del 1990[1] hanno messo fine al dibattito sulle questioni sopra accennate. Ma allo stesso tempo, hanno dato la stura ad una dottrina rimasta indiscussa fino a tempi recenti, affermando che l"assegno divorzile nel nostro ordinamento ha natura assistenziale e deve costituire per il coniuge economicamente debole, un rimedio al peggioramento delle precedenti condizioni economiche dovuto al divorzio.

Tale principio costituente ormai "diritto vivente" è stato sempre sostanzialmente ribadito fino ai nostri giorni dalla giurisprudenza.

La dottrina affermata dalle Sezioni Unite del 1990 porta a strutturare in due fasi la determinazione dell"assegno. Una prima fase determina l"an del diritto all"assegno ed individua il tetto massimo e presuppone una valutazione comparativa fra la condizione patrimoniale del richiedente effettivamente goduta durante il rapporto matrimoniale o potenzialmente godibile alla luce delle potenzialità economiche dei coniugi[2] e l"attuale inadeguatezza dei mezzi o l"impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.

In sostanza, nella prima fase il Giudice, dopo aver comparato la condizione economica del richiedente prima e dopo la pronuncia di divorzio, dovrà verificare l"esistenza del diritto in astratto, in relazione alla inadeguatezza dei mezzi o all"impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, in confronto con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; e poi, in una seconda fase, passerà, quindi, alla determinazione economica di una somma che appaia sufficiente a superare tale inadeguatezza coinvolgendo gli altri criteri predisposti dall"art. 5, 6º comma, L. div.

Negli ultimi tempi però, si è da più parti messo in luce che il modello di assegno post-matrimoniale delineato dal legislatore ed i cui lineamenti sono stati ulteriormente definiti dagli orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità, può risultare sotto diversi profili scarsamente funzionale a realizzare un"equilibrata ripartizione delle risorse della famiglia dopo la rottura del matrimonio.

In sostanza, la disciplina dell"assegno post-matrimoniale, così come interpretata nel "diritto vivente",  sembra da un lato, inaccettabile in quanto l"affermazione della natura assistenziale realizza un limite alla capacità di compensare il coniuge che ha dedicato molti anni della propria vita al matrimonio.

Ma è pur vero che il riferimento al tenore di vita coniugale, può condurre al rischio di attribuire una tutela eccessiva a favore di chi, dopo un matrimonio relativamente breve, si trovi a beneficiare di una rendita tendenzialmente vitalizia.

In tempi recenti, si sono fatti più marcati i segnali di ripensamento, rivolti, in particolare, alla determinazione dell"assegno di divorzio e al criterio-guida del tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Il parametro del tenore di vita costituisce, nella stessa prassi applicativa, un orizzonte di partenza nient"affatto rigido perché può essere valutato alla luce delle potenzialità economiche della famiglia piuttosto che allo stile di vita concretamente condotto[3].  

Ma il passaggio importante della sentenza in commento è il  recupero del significato della sentenza delle Sezioni Unite del 1990:  "Le menzionate sentenze delle Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell'esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio «inteso come "sistemazione definitiva", perché il divorzio è stato assorbito dal costume sociale» (così la sentenza n. 11490 del 1990) con l'esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla «attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perché sorti in epoca molto anteriore alla riforma», con ciò spiegando la preferenza accordata ad un indirizzo interpretativo che «meno traumaticamente rompe[sse] con la passata tradizione» (così ancora la sentenza n. 11490 del 1990). Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile."

Limite del diritto all"assegno, infatti è il principio di auto-responsabilità, ossia l"obbligo di ciascun coniuge divorziato di provvedere al proprio mantenimento, salvo il sorgere di tale diritto per cause determinate dalla legge. Sebbene, l"art. 5 L. div. non annovera espressamente l"auto-responsabilità fra i limiti dell"assegno, ciò non significa che sia estraneo al nostro ordinamento, anche se, in mancanza di accordo fra le parti e nell"ipotesi di contenzioso, sarà onere dell"obbligato provare i presupposti per la sua applicazione, fermo restando che, requisito imprescindibile per acquisire il diritto all"assegno, è l"inadeguatezza dei mezzi ovvero l"impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. La valutazione che si richiede, cioè, sembra non fermarsi di fronte alla constatazione dell"inadeguatezza "statica" dei mezzi al momento dello scioglimento del matrimonio, ma può essere esteso fino a valutare anche le oggettive potenzialità riabilitative proiettate nel breve e medio periodo.

E quindi, pur in presenza di mezzi attualmente inadeguati, dovrebbe essere necessario valutare – iuxta alligata et probata – se il coniuge sia oggettivamente e concretamente dotato della possibilità di raggiungere un"adeguata autosufficienza economica: in relazione alla sua età, alla precedente formazione scolastica e professionale, alle pregresse esperienze lavorative, al mercato del lavoro in cui è inserito o potenzialmente inseribile nel territorio in cui si trova.

Sempre per citare la Guerra dei Roses: " Non esistono vittorie, ma solo gradazioni di sconfitte!"

[1] Cass., Sez. un., 29 novembre 1990, nn. 11489, 11490, 11491, 11492

[2] Indipendentemente dallo stile di vita prescelto: Cass., 3 gennaio 2014, n. 488; Cass., 16 ottobre 2013, n. 23442

[3] La Cassazione già nel 2013 aveva affermato che  in tema di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella disciplina dettata dall'art. 5 della legge 1° dicembre 1978, n. 898, come modificato dall'art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l'assegno di divorzio deve essere rapportato al tenore di vita goduto durante il matrimonio, che è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, e non già allo stile di vita concretamente condotto in base a scelte di rigore caratterizzate da "self-restrainment".




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