Interessi protetti  -  Paolo Basso  -  06/11/2022

Il possesso e la sua tutela (Parte prima)

SOMMARIO: 1. Premessa: nozione di possesso in generale e di possesso in buona fede – 1.1. I dibattiti sul costituto possessorio - 2. Il rimborso delle spese ex art. 1149 c.c. – 3. Il rimborso delle spese e le indennità ex artt. 1150 e 1151 c.c. – 4. L’autotutela di diritti del possessore: la ritenzione ex art. 1152 c.c. – 4.1 segue: ed a favore del possessore di buona fede di beni ereditari (art. 535 c.c.) - 5. Quali altre forme di autotutela? - 5.1. Il possesso di buona fede dei beni mobili (art. 1153 c.c.) - 5.2. Il conflitto fra più acquirenti (art. 1155 c.c.) - 5.3. Il possesso di titoli di credito (art. 1157 c.c.) - 6. L’usucapione – 6.1 La vendita “per possesso” - 6.2 L’usucapione dei beni culturali – 7. La tutela aquiliana del possesso - 8. Bibliografia 

1. Premessa: nozione di possesso in generale e di possesso in buona fede

La definizione di possesso fornita dall’art. 1140 c.c. corrisponde alle posizioni giuridiche fornite del requisito della realità, restando così escluse le posizioni di natura meramente obbligatoria (per esempio non costituisce possesso bensì mera detenzione e quindi non gode delle tutele possessorie la situazione del promissario acquirente che abbia avuto anticipatamente la disponibilità del bene: vedi infra).

La nozione di possesso adottata nel diritto penale è invece assai più estesa di quella civilistica, ricomprendendo anche quella che civilisticamente è la detenzione.

Come noto, il possesso prescinde dalla corrispondente posizione di diritto soggettivo, posto che l’intera disciplina è volta alla sua tutela a prescindere dal fatto che la proprietà o l’altro diritto reale, a cui corrisponde l’attività posta in essere dal possessore, effettivamente sussistano.

È discusso, invece, se il potere di fatto sia da intendere in senso materiale oppure solo in funzione dell’utilità (corpus).

La dottrina maggioritaria insegna che il possesso, a differenza del diritto di proprietà che può estrinsecarsi ed essere esercitato anche “in negativo” vale a dire con la semplice pretesa della mancanza di ingerenze da parte di terzi atteso che il proprietario che non esercita il suo diritto lo conserva ugualmente fatta sempre salva l’altrui usucapione (il che pone in evidenza il rapporto dialettico fra la proprietà ed il possesso, essendo configurabili i passaggi fra l’una e l’altra posizione soggettiva), implica necessariamente ed essenzialmente un’attività, come espressamente previsto dalla lettera dell’art. 1140 c.c. 

E così autorevole dottrina (Natoli) ha precisato che la situazione possessoria esige l’esplicazione di tutta una serie di operazioni tendenti alla concreta utilizzazione del bene secondo uno qualsiasi degli schemi che sono proprii dei diritti reali.

Non è quindi sufficiente un’astensione, un non-uso, trattandosi di prerogative del proprietario non adattabili al possessore: l’inattività preclusiva del possesso, ove questo sia insorto, ne determina quindi l’estinzione.

L’espressa menzione della necessaria attività contenuta nella norma definitoria del possesso non ha impedito ad altrettanto autorevole dottrina (Sacco-Caterina) l’idea della configurabilità di un possesso “non attivistico” ossia di mera relazione con il suo oggetto: quasi che esso possa fondarsi e risolversi eventualmente anche in una situazione di tipo statico, senza che sia richiesto alcun comportamento positivo; come potrebbe accadere, per esempio, in caso di possesso di un campo lasciato totalmente incolto oppure di un libro mai sfogliato. Una relazione, quindi, che coincide con una mera possibilità di ingerirsi.

La necessità, condivisa dalla dottrina maggioritaria, di un’attività in positivo rende problematica la configurabilità del possesso solo animo (c.d. possesso mediato) e quindi la configurabilità dello stesso costituto possessorio pur normativamente previsto dall’art. 1140 comma 2 c.c.

Come noto, il costituto possessorio rinvia alla considerazione dei modi di conservazione del possesso e specificamente dei casi in cui non vi sia consegna (o acquisizione) della cosa, stante il rapporto, se pur a diverso titolo, già in essere. Si tratta della situazione inversa rispetto alla traditio brevi manu: il passaggio cioè dal possesso alla detenzione, come accade, per esempio, nell’ipotesi in cui l’alienante trattenga la cosa ceduta nella nuova e diversa qualità di conduttore, di comodatario o di custode oppure quando venga alienato un bene detenuto da un terzo.

Se problematica appare la conservazione, altrettanto e per gli stessi motivi appare problematico l’acquisto del possesso solo animo, non sembrando il solo consenso delle parti del contratto di alienazione essere sufficiente ad instaurare il possesso. In proposito si segnala la recente Cass. 8/9/2021 n. 24175 secondo cui nelle successioni a titolo particolare l’avente causa acquista il solo “diritto a possedere” essendo sempre necessaria la materiale apprensione della res per l’acquisto del possesso, a differenza di quanto accade in caso di successione a titolo universale nella quale si subentra automaticamente nel possesso.

Così come, nell’ambito delle problematiche sull’oggetto del possesso, il possesso solo animo rende difficoltosa l’individuazione dei tratti tipici corrispondenti ad una precisa figura di diritto reale; difficoltà che determina implicazioni particolari, specialmente con riguardo agli effetti dell’eventuale usucapione.

Nel quadro dell’interrogativo generale se tutti i diritti reali possano nel loro esercizio manifestarsi attraverso un’attività di tipo possessorio, è legittimo chiedersi se il possesso solo animo potrebbe essere idoneo a dar luogo all’usucapione dei diritti aventi un contenuto che non prevede un’attività materiale sulla cosa o, addirittura, in certi casi, aventi un contenuto solo proibitivo.

E così si afferma l’inconcepibilità di un possesso mediato (quindi solo animo) riferito al nudo proprietario se non previa soluzione del problema di “ricostruire” il possesso in capo al proprietario nell’ipotesi in cui l’esercizio di un diritto reale limitato, qual’è l’usufrutto, lo abbia privato della facoltà di utilizzazione e di godimento del bene.

L’interrogativo è di più facile soluzione nel caso della presenza di diritti reali di godimento più limitati quali l’uso o l’abitazione, dato che il confinamento del loro esercizio entro il limite del bisogno del titolare e della sua famiglia consente al nudo proprietario (od a chi esercita il possesso corrispondente alla nuda proprietà) di esplicare atti positivi di possesso.

Oppure si pensi alla servitù non apparente che non può essere usucapita (art. 1061 c.c.). Il suo possesso è configurabile, sebbene necessariamente comporti una non-attività?

La risposta è dubbia, posto che da un lato, come si è visto, la definizione stessa di possesso presuppone un’attività ma, dall’altro lato, si deve considerare che il possesso è comunque una posizione giuridica non necessariamente funzionale alla proprietà, sebbene, in casi particolari, l’impossibilità di acquisto della proprietà mediante il possesso elide gli effetti di quest’ultimo e quindi lo rende giuridicamente irrilevante (vedi l’art. 1145 c.c.).

Altrettanto dicasi per l’ipoteca, che non è un diritto soggetto ad usucapione dato che gli artt. 1158 e 1159 parlano solo di diritti reali di godimento. 

Ma autorevole dottrina (Sacco-Caterina) ha posto in luce come l’impossibilità di usucapione non escluda, di per sé, il possesso: il possessore a titolo di ipoteca potrebbe giovarsi delle azioni possessorie in parallelo, per esempio, con l’art. 2813 che autorizza il creditore a pretendere che il debitore ed i terzi si astengano dal compiere atti da cui possano derivare il perimento od il deterioramento dei beni ipotecati.

Il secondo requisito del possesso consiste nella volontà di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale (c.d. animus) ed esso costituisce l’elemento su cui si fonda la distinzione fra possesso e detenzione.

L’animus costituisce l’elemento soggettivo che si tende a svalutare non solo in ragione della mancanza di riferimenti normativi (nessuna norma lo prevede) ma anche in ragione della difficoltà di esatta individuazione del suo atteggiarsi e della sua prova. Tanto che recente giurisprudenza (App. Genova 9/11/2020 n. 1036), dopo aver affermato che l’animus non si può provare mediante testimonianza, ha dato rilievo alla convenzione costituente il titolo del possesso quale unico elemento a cui fare riferimento per l’individuazione dell’elemento psicologico quale animus possidendi oppure detinendi. Per concludere che solo una convenzione generatrice di effetti reali può determinare l’animus possidendi.

Ferme restando le dette perplessità, tuttavia, il possesso solo animo viene generalmente ritenuto ammissibile e configurabile ma solo a condizione che il soggetto abbia la possibilità di ripristinare il corpus quando lo voglia.

Preso atto che l’art. 1147 c.c., dicendo che il possessore di buona fede <<ignora di ledere l’altrui diritto>>, lascia trasparire il pensiero che il possesso è sempre oggettivamente lesivo (anche se fa capo ad un soggetto di buona fede) e quindi antigiuridico ma insegna anche che l’ignoranza dovuta a colpa grave è equiparata a malafede; il che risponde alla ragionevole esigenza di incentivare una sia pur minima diligenza in chi voglia beneficiare del trattamento riservato al possessore di buona fede.

La rilevanza del momento dell’acquisto del possesso toglie rilevanza alla malafede sopravvenuta.

Il possesso è istituto ben tutelato dall’Ordinamento e fin dalla sua origine con la presunzione di sua esistenza ogniqualvolta si sia in presenza dell’esercizio di un potere di fatto sulla cosa, a meno che colui che ha interesse contrario a tale presunzione non dia prova che l’esercizio del potere è iniziato come semplice detenzione.

Data questa prova, i principi processuali sulla ripartizione dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) faranno gravare sul presunto possessore la prova di aver posto in essere atti di interversione del possesso (art. 1141 comma 2 c.c.).

Ed il favor manifestato dall’Ordinamento prosegue con la norma dell’art. 1142 c.c., che prevede la presunzione di possesso intermedio, così nuovamente sollevando il possessore dall’onere della relativa prova.

Ugualmente, a ben vedere, anche l’art. 1144 c.c., letto in chiave processuale, costituisce norma di esenzione dall’onere della prova, giacché spetta a chi voglia contrastare la configurazione del possesso dimostrare che l’attività del presunto possessore è stata svolta per mera tolleranza del proprietario del bene.

Per finire con l’art. 1146 c.c., che prevede l’automatica successione nel possesso a favore dell’erede e la possibilità di accessione a favore del successore a titolo particolare (per semplice ed unilaterale scelta di questi) nonché con l’art. 1147 c.c., che prevede la presunzione di buona fede.

Ma la vetta della tutela possessoria, dal punto di vista sostanziale, si raggiunge con il principio per cui l’usucapione si matura anche a favore del possessore di malafede.

Si segnala infine l’art. 485 c.c. che dal possesso anche di un solo bene ereditario fa discendere l’accettazione tacita dell’eredità; il che, tuttavia, può costituire non solo vantaggio per l’erede ma anche eventuale svantaggio, attesa l’irreversibile responsabilità per i debiti ereditari.

 1. I dibattiti sul costituto possessorio

È risaputo come il possesso possa essere acquistato secondo due modalità:

  • a titolo originario, mediante l’occupazione, lo spoglio, l’interversione, ecc.;
  • a titolo derivativo, mediante la consegna materiale o simbolica (traditio ficta) della cosa; a sua volta, quest’ultima conosce due figure, e cioè la traditio brevi manu e il costituto possessorio, nelle quali a mutare è solo l’animus e non il corpus. 

Occorre altresì precisare che la distinzione tra acquisto a titolo originario e acquisto a titolo derivativo costituisce in materia possessoria una categoria puramente descrittiva, giacché il possesso, quale situazione di fatto, può acquistarsi solo a titolo originario: esso, infatti, non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto di cui si costituisca l’esercizio, poiché una mera attività non può mai essere trasmessa (semmai può solo essere intrapresa).

Ciò premesso, si è visto come la necessità, condivisa da una parte della dottrina, di un’attività in positivo (corpus) ai fini della configurabilità del possesso renda problematica l’ammissibilità del possesso solo animo (c.d. possesso mediato) e, da lì, quella del c.d. costituto possessorio, nel quale la disponibilità del bene permane in capo all’ex possessore, ora detentore, mentre il nuovo possessore possiede solamente a titolo mediato (1). 

Pur sussistendo ancora un dibattito sulla questione, tuttavia occorre sottolineare come la dottrina ormai maggioritaria ritenga configurabile il possesso mediato e, di conseguenza, anche il costituto possessorio.

Le maggiori problematiche in materia attengono, invece, all’ammissibilità del c.d. costituto possessorio implicito. Ci si chiede, in altri termini, se il trasferimento della proprietà di un bene comporti o meno la perdita automatica del possesso in capo all’alienante, con conseguente suo mutamento in detenzione e acquisto del possesso mediato in capo all’acquirente.

Il dibattito è ancora aperto, soprattutto in ambito dottrinale; al contrario, la giurisprudenza pare attestata in via maggioritaria ad escludere l’ammissibilità della figura in esame. Le argomentazioni addotte a sostegno di tale ultimo indirizzo (Gambaro-Morello; Thobani) possono così riassumersi:

  1. ai sensi dell’art. 1476 c.c. la consegna della cosa, con consequenziale trasferimento del possesso, costituisce oggetto di una specifica obbligazione del venditore, e non un effetto automatico della vendita;
  2. l’obbligazione di consegna ricomprende anche il dovere per l’alienante di consegnare il bene libero da eventuali terzi occupanti che impediscano il godimento del bene da parte dell’acquirente. Tuttavia, non essendo più proprietario del bene, il venditore non potrebbe esperire le azioni petitorie al fine di ottenere la restituzione della res; e se si ammettesse la perdita del possesso in capo a quest’ultimo, egli non potrebbe esperire nemmeno le azioni possessorie, rimanendo così sfornito di tutela nei confronti di eventuali terzi occupanti;
  3. l’acquisto del possesso in capo all’acquirente porterebbe all’inaccettabile conseguenza per cui, in presenza di un contratto di compravendita nullo o annullabile, quest’ultimo potrebbe esperire le azioni possessorie nei confronti dell’alienante e ottenere da quest’ultimo la consegna della cosa, senza che questi possa opporre alcuna eccezione di nullità o di annullabilità, essendo irrilevante nel giudizio possessorio la validità o meno del titolo.

Nella medesima situazione, inoltre, decorso il tempo necessario, l’acquirente potrebbe usucapire il bene, nonostante l’invalidità dell’atto di trasferimento;

  1. a livello sistematico si sottolinea in dottrina come anche il possesso mediato necessiti, seppur solamente ab initio, di una materiale apprensione del bene, tale da poter consentire al possessore mediato, allorquando lo voglia, di instaurare nuovamente la relazione di fatto con la res. Si afferma, infatti, che nel possesso solo animo il requisito della disponibilità della cosa, mentre non richiede un assiduo ingerirsi nel bene al fine di mantenerne il controllo, necessita, però, di una materiale apprensione nel momento iniziale, al fine di rendere la situazione di fatto chiara e intellegibile. Invero, questa esigenza di chiarezza e intelligibilità sembra estendersi anche ai casi in cui sono ammesse forme spiritualizzate di consegna, come la traditio brevi manu e il costituto possessorio. 

Così elencate le ragioni a sostegno dell’inammissibilità del costituto possessorio implicito, tuttavia risulta opportuno sottolineare come paia difficile giustificare, specialmente sul piano dell’animus, la permanenza del possesso in capo a chi, come il venditore, ha effettuato, tramite la vendita, un chiaro riconoscimento del diritto altrui sul bene; osservazioni queste fatte proprie da altra parte della dottrina e che certamente rendono assai problematica la questione. 

In conclusione, occorre, però, ribadire come la giurisprudenza maggioritaria sia attestata nel ritenere inammissibile la figura del costituito possessorio implicito, affermando che la vendita, se non seguita dalla consegna, non determina in maniera automatica il trasferimento del possesso all’avente causa, ma «occorre accertare caso per caso, in base al comportamento delle parti ed alle clausole contrattuali che non siano di mero stile, se la continuazione, da parte dell’alienante stesso, dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa sia accompagnato dall’animus rem sibi habendi ovvero configuri una detenzione nomine alieno» (Cass., 26 settembre 2018, n. 22875).

In questo contesto si è posta di recente all’attenzione della giurisprudenza di legittimità la questione se, in presenza di un procedimento espropriativo nel quale il decreto di esproprio sia già stato notificato all’espropriato (ovvero quest’ultimo ne sia comunque venuto a conoscenza), ma non sia ancora stato eseguito e, dunque, non vi sia stata un’immissione nel possesso da parte della P.A., si verifichi o meno il c.d. costituto possessorio in favore dell'ente espropriante; e, di conseguenza, se ciò comporti la perdita dell'animus possidendi in capo all'occupante, con conseguente interruzione di un eventuale pregresso possesso "ad usucapionem" dallo stesso esercitato o se, invece, il possesso continui ugualmente a permanere in capo all'occupante con la possibilità dell'acquisto del diritto di proprietà sul bene a titolo di usucapione al maturare del tempo utile.

La questione – di rilevante interesse anche in ambito amministrati-vistico- è stata rimessa da Cass. ord., 20/06/2022, n. 19758 alle Sezioni Unite, in quanto sul punto è ravvisabile un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità.

Invero, secondo un primo indirizzo, a seguito della notifica (o, in ogni caso, dell'avvenuta conoscenza) del decreto di espropriazione per pubblica utilità, consegue, in modo automatico, la perdita dell'animus possidendi in capo all'occupante, poiché il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene in capo alla P.A. e ad escludere qualsiasi situazione di fatto o di diritto con essa incompatibile. Quindi, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continui ad esercitare sulla cosa un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, è necessario un atto di "interversio possessionis”, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso utile ad usucapionem.

Si è sostenuto, al riguardo, che il soggetto, il quale si trovi nella relazione con il bene al momento in cui gli viene notificato il decreto di espropriazione per pubblica utilità, non potrebbe non acquisire la consapevolezza dell'alienità dello stesso e della impossibilità di farne uso come proprio, anche se, provvisoriamente, dovesse restare nella sua disponibilità materiale. Pertanto, la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile "ad usucapionem", a favore di chi rimanga nel rapporto materiale con il bene, dovrebbe essere necessariamente rimesso ad un esplicito atto di "interversio possessionis", opponibile all'ente proprietario.

Si osserva, al riguardo, che la L. n. 2359 del 1865, art. 52, [ratione temporis applicabile, ndr], oggi D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 25 dispone infatti l'estinzione dei diritti incompatibili con l'acquisto a titolo originario da parte dell'espropriante o del beneficiario dell'espro-priazione, escludendo che assumano rilievo eventuali situazioni di fatto in contrasto con esso, come il possesso, il quale, sia pure solo animo, è conseguito dall'espropriante o dal terzo beneficiario al momento dell'emanazione del decreto di espropriazione.

Secondo un altro indirizzo, invece, il trasferimento coattivo di un bene non integra necessariamente gli estremi del "constitutum possessorium", trasferendosi il diritto di proprietà in capo all'ente espropriante contro la volontà dell'espropriato/possessore, senza che nessun accordo intervenga fra questi e lo stesso espropriante, né in relazione alla proprietà né in relazione al possesso.

Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell'"animus rem sibi habendi "in "animus detinendi" in capo al soggetto espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, ove ne ricorrano le condizioni, il compimento in suo favore dell'usucapione se alla dichiarazione di pubblica utilità - e solo in questa ipotesi - non siano seguiti né l'immissione in possesso, né l'attuazione del previsto intervento di pubblica utilità da parte dell'ente espropriante, rimanendo del tutto irrilevante, a tale scopo, l'acquisita consapevolezza dell'esistenza dell'altrui diritto dominicale.

Tale indirizzo giurisprudenziale, difatti, sostiene che ove, dopo l'emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità, non sia stato dato seguito ad alcun atto di concreta immissione in possesso da parte dell'ente espropriante, rimanendo il bene oggetto di ablazione nella disponibilità materiale del precedente soggetto, occorre distinguere gli effetti traslativi del diritto di proprietà conseguenti all'emissione del decreto di espropriazione dall'acquisto del possesso del bene espropriato, rilevandosi che, in presenza di una procedura di espropriazione per pubblica utilità, l'interruzione del possesso del bene espropriato può derivare soltanto da una situazione di fatto che ne impedisca materialmente l'esercizio (cfr., già in tal senso Cass. Sez. II n. 3836/1983 ma anche, in tempi recentissimi, Cass. Sez. VI-2, n. 5582/2022).

In altri termini, dunque, tra gli effetti automatici del decreto di esproprio non potrebbero ricomprendersi né il venir meno del possesso del bene da parte del soggetto espropriato o di un terzo, né il mutamento in detenzione dell'eventuale protrazione del godimento del bene stesso da parte di costoro, occorrendo, al riguardo, che l'espropriante ponga in essere un atto di immissione nel possesso del bene o una concreta condotta che denoti una inequivoca volontà equivalente. 

Si è precisato - da parte dell'orientamento in discorso - che nessuna norma della predetta L. n. 2359 del 1865 (oggi l’art. 25, D.P.R. 327/2001) menziona(va) il possesso come situazione su cui il procedimento espropriativo potesse in qualche modo incidere. Infatti, l'art. 52 della stessa, nella sezione relativa agli effetti dell'espropriazione riguardo ai terzi, prevedeva la possibilità dell'esperimento di azioni reali, quali l'azione di rivendicazione, di usufrutto, di ipoteca, di diretto dominio, ma mancava un apposito riferimento alle azioni a tutela del possesso. 

Così delineato il quadro giurisprudenziale sul punto, occorre, infine, precisare come la dottrina (a dire il vero non diffusa sulla questione) si mostri essenzialmente concorde con l’indirizzo da ultimo esaminato, evidenziando, oltre alla tendenziale inammissibilità del costituto possessorio implicito, che, se a seguito dell'emanazione di un decreto di espropriazione per pubblica utilità non vi sia stata alcuna immissione in possesso da parte dell'ente espropriante, rimanendo il bene oggetto di ablazione nella disponibilità materiale dell'occupante, la res rimane nel patrimonio disponibile della P.A. ed è assoggettata al relativo regime, con la conseguenza che, se gli espropriati rimangono nel suo possesso continuato per almeno venti anni, acquistano la sua proprietà a titolo originario per effetto dell'intervenuta usucapione.

Come anticipato, la questione è stata rimessa al vaglio delle Sezioni Unite: si è pertanto in attesa della risposta del Supremo organo di nomofilachia.

Tuttavia, pare opportuno sottolineare la particolare delicatezza della problematica in esame, giacché l’inammissibilità del costituto possessorio implicito, sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria, pare in questo caso minata nei suoi stessi fondamenti argomentativi. Invero, come già illustrato, le ragioni poste alla base del suddetto orientamento fanno leva essenzialmente su inconvenienti di natura contrattuale, con particolare riguardo al contratto di compravendita. Nulla di tutto ciò è, invece, ipotizzabile nella fattispecie in esame, essendosi al di fuori della materia contrattuale e, in presenza, invece, di un potere pubblicistico.

Ecco, allora, che l’unica ragione per negare l’ammissibilità di un costituto possessorio implicito nella fattispecie in esame pare essere quella di cui alla precedente lettera d), e cioè la (mai avvenuta) iniziale instaurazione del potere di fatto con la res da parte del (presunto) possessore mediato (la P.A.), volta a conferire chiarezza e intelligibilità alla situazione possessoria. Invero, in tutti quei casi in cui la P.A., pur avendo emesso un valido decreto di esproprio, non lo abbia poi eseguito, pare arduo ritenere che la medesima abbia posto in essere quella iniziale e indefettibile apprensione del bene necessaria ai fini dell’insorgenza del possesso solo animo e, dunque, del costituto possessorio. E – vale la pena di osservare - è proprio quanto avvenuto nel caso in esame, nel quale la Pubblica Amministrazione, dopo aver esercitato i suoi poteri ablativi, si era totalmente disinteressata del bene per moltissimi anni.

Si può ora dunque passare ad una rapida disamina delle varie fattispecie di tutela (e di autotutela) della posizione del possessore.

2. Il regime dei frutti ex art. 1148 c.c. ed il rimborso delle spese ex art. 1149 c.c.

Gli artt. 1148 e 1149 c.c. sono espressione del divieto di arricchimento indebito previsto, in via generale, dall’art. 2041 c.c. e che connota l’intero Ordinamento.

La previsione del diritto del possessore di buona fede di fare suoi i frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale e dei frutti civili maturati fino allo stesso giorno lascia aperto il problema se il possessore di malafede, fino alla domanda giudiziale, risponde solo dei frutti percepiti o anche di quelli percipiendi.

A tale interrogativo le risposte sono divergenti ma una dottrina ha evidenziato come si tratti, in realtà, di un falso problema dato che il possessore di malafede, essendo in posizione illecita, in ogni caso sarebbe tenuto a risarcire il danno.

Le spese rimborsabili sono quelle afferenti al bene come i canoni e le imposte nonché le spese sostenute per la conservazione dei frutti.

Si deve però considerare che non è ripetibile qualsiasi spesa, anche se eccedente il necessario mentre sono ripetibili tutte le spese effettivamente sostenute, anche se superiori a quelle che ordinariamente si incontrano, purché non vi sia frode ed il loro valore non superi il valore dei frutti, giacché, diversamente, si verificherebbe un indebito arricchimento a favore del possessore.

La norma si collega al disposto di cui all’art. 2040 c.c. dettato in tema di restituzione di cosa determinata indebitamente trattenuta.

3. Il rimborso delle spese e le indennità ex artt. 1150 e 1151 c.c.

Anche tali norme sono espressione del principio di giustizia commutativa (di radice aristotelica) contenuto nell’art. 2041 c.c. e di cui l’art. 1150 c.c. mutua i princìpi, in particolare per la misura delle indennità parametrata alla minor somma.

Ma non sempre il possessore incontra i limiti indennitari previsti dall’art. 1150 c.c. (in assonanza con l’art. 2041 c.c.). Invero, qualora il possessore possa essere qualificato come mandatario o gestore d’affari del proprietario (o degli altri comproprietari) del bene, non si applicano l’art. 1150 c.c. o l’art. 1110 c.c. bensì si applicano rispettivamente agli artt. 1720 c.c. o 2031 c.c. (in tal senso vedi le recenti Cass. 17/7/2020 n. 15300 e Cass. 7/7/2021 n. 19246). 

Doveroso notare che lo stesso principio di giustizia sostanziale commutativa si rinviene nelle norme di cui agli artt. 748 c.c. in tema di collazione, 985 e 1005 in tema di usufrutto nonché 2040 in tema di indebito.

Del principio è stata fatta frequente applicazione in tema di divisione ereditaria e nel caso di gestione del bene comune da parte di uno solo dei coeredi comproprietari, nel qual caso il gestore deve corrispondere ai comproprietari i frutti percepiti a prescindere dal loro disinteresse (si veda la sentenza di Cass. 30/5/2017 n. 13619, nella quale, tuttavia, si deve evidenziare l’errore di aver qualificato il coerede estraneo alla gestione del bene come soggetto <<escluso dal possesso>> mentre, invece, l’art. 1146 comma 1 c.c. attribuisce al coerede il subentro automatico nel possesso della cosa come già esercitato dal dante causa).

Ma occorre domandarsi dove, in tal caso, si rinviene la tutela del coerede comproprietario, il quale, si badi, è anche automaticamente compossessore ai sensi del citato art. 1146 c.c. e la risposta è contenuta nell’art. 2031 comma 2 c.c., che consente al comproprietario (che sovente è anche compossessore ex lege) di manifestare il proprio dissenso all’atto gestorio, così esonerandosi sia dalle obbligazioni che il gestore ha assunto, sia dall’obbligo di tenere indenne quest’ultimo dalle obbligazioni che ha assunto in proprio, sia, infine, dall’obbligo di rimborsargli le spese.

Il diritto all’indennità può essere fatto valere soltanto dal possessore e non anche dal detentore della cosa, che la possiede nomine alieno (Cass. 18/3/2005 n. 5948), dato che le norme hanno carattere eccezionale e non sono applicabili per analogia al mero detentore.

Tuttavia, a questo punto, vi è da chiedersi se non sia indispensabile ricorrere alla figura della gestione d’affari per poter riconoscere al coerede compossessore le indennità previste dalle norme, dato che s’impone l’interrogativo se, visto che il coerede non-gestore è titolare del compossesso in forza dell’art. 1146 c.c., la posizione del coerede gestore non sia da considerarsi “degradata “, sulla quota, a mera detenzione e non più di possesso, che spetta al coerede. Diversamente, si dovrebbe configurare un compossesso sulla medesima quota.

Onde rafforzare la tutela del possessore gestore, la giurisprudenza ha precisato che, ai fini della liquidazione dell’indennità per i miglioramenti apportati da questi, la buona fede richiesta dall’art. 1150 c.c. non si identifica con la consapevolezza di essere proprietario del fondo ma consiste, semplicemente, nella consapevolezza di non ledere l’altrui diritto (Cass. 25/7/1979 n. 4410).

(fine della parte prima)


 1. Viceversa, non si pone alcun problema in relazione alla configurabilità della traditio brevi manu, posto che in tal caso l’ex detentore ha la materiale disponibilità della res.


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