Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  20/01/2023

Il principio platonico-aristotelico di “non contraddizione” come fondamento dell’ordinamento giuridico: la struttura del reato secondo la condivisa concezione tripartita (Parte II) - Cecilia De Luca

La storia del diritto penale si caratterizza, per alcuni aspetti, per la contrapposizione dialettica tra un diritto penale oggettivo ed un diritto penale soggettivo, con le sue combinazioni intermedie di un diritto penale misto, oggettivo-soggettivo. Un diritto penale oggettivo puro funziona essenzialmente come un sistema di norme-valutazione, poste a tutela di determinati beni. Si incentra sull’obiettiva lesione di tali beni con le seguenti implicazioni: 1) porre al centro “condotta”, l’ “evento”, legati tra loro dal nesso di causalità, esistente ogni qual volta l’agente abbia posto in essere una condicio sine qua non del fatto stesso cagionato; 2) attribuire il reato al soggetto sulla mera base del nesso di causalità tra condotta ed evento, senza distinzione tra soggetti imputabili e non, tra dolo, colpa e responsabilità oggettiva; 3) determinare la gravità del reato e della sanzione esclusivamente in base alla effettiva lesione del bene protetto, a prescindere dalla valutazione del grado della colpevolezza o della personalità del soggetto; 4) non conoscere gli istituti del tentativo, del reato continuato e della compartecipazione psichica nel reato, dandosi rilievo al solo concorso materiale nell’esecuzione; 5) riconoscere l’analogia, essendo la tassatività coessenziale alla norma come comando e non come mera valutazione della lesione di certi beni giuridici; 6) classificare i reati secondo l’importanza del bene leso. Tutto questo comporta la centralità dell’offensività del reato. Tutt’altro attiene al diritto penale soggettivo puro, che a sua volta richiede delle differenziazioni. Il diritto penale soggettivo repressivo(o della volontà) funziona essenzialmente come un sistema di norme-comando, cioè si incentra sulla volontà, con i seguenti corollari: 1) si pone al centro la colpevolezza e non la lesione, che è sintomo della volontà criminosa, rilevando il bene giuridico come obiettivo di tutela; 2) si distingue tra soggetti capaci ed incapaci di ubbidire al comando, tra coloro che non vogliono ubbidire e coloro che disubbidiscono per negligenza, derivando le categorie giuridiche degli imputabili e non, del dolo, colpa, errore, aberratio; 3) si riconoscono gli istituti del tentativo, della compartecipazione morale, del reato continuato e delle circostanze soggettive; 4) si concede ampio spazio al carattere “punitivo” della sanzione; 5) si fa divieto al ricorso all’analogia e si creano i limiti connaturali, logicamente, alla norma intesa come comando (stato di necessità, scriminanti putative, ecc.). Il risultato di ciò è dato dal rilievo concesso alla colpevolezza. Segue un diritto penale soggettivo preventivo (o della pericolosità), che funziona essenzialmente come un sistema di norme-garanzia contro i soggetti pericolosi e, dunque, si incentra sulla pericolosità del soggetto, con le seguenti conseguenze: 1) la sanzione viene irrogata in funzione del pericolo che il soggetto rappresenta per l’ordine sociale; 2) si attribuisce alle sanzioni (misure di sicurezza) soltanto lo scopo di rendere innocuo il soggetto o di riadattarlo, se possibile, alla vita sociale; 3) si adeguano, conseguentemente, tali misure alla personalità del delinquente, cosicché la legislazione sia orientata verso “una tipologia di delinquenti”; 4) l’attribuzione ai fatti lesivi, alle circostanze, al tentativo, alla compartecipazione, il semplice valore di “sintomi” rilevatori di tendenze interne al soggetto; 5) l’ammissione dell’analogia e la considerazione delle sole scriminanti che si fondano sull’assenza della pericolosità. Viene naturale concludere che il prodotto di ciò è la prevalenza della capacità a delinquere. Tuttavia questi due sistemi appena sviluppati nei loro tratti caratteristici sono ideali, mentre nella realtà storica si riscontrano sistemi penali misti, in cui le istanze soggettivistiche ed oggettivistiche si combinano e contemperano, funzionando la norma come tutela dei beni, come comando della volontà, come garanzia contro i soggetti pericolosi. Per il reato, e per ogni accadimento, due sono i modi fondamentali di comprensione: o si considera il reato razionalmente-analiticamente (il reato “va capito”) o emotivamente-unitariamente (il reato va “sentito”). Dunque, nella storia del diritto penale si sono sviluppate: 1) la c.d. concezione analitica del reato, per la quale il reato va scomposto e studiato nei suoi elementi costitutivi.  Questo tipo di studio rappresenta un’esigenza connaturale alla nozione formale del reato e al sottostante principio garantista del nullum crimen sine lege  e della certezza giuridica. Solo individuando ed interpretando i singoli elementi costitutivi della fattispecie legale è possibile stabilire con sicurezza ciò che è effettivamente vietato dalla legge e se il fatto commesso concretamente sia conforme ad essa e quindi punibile. 2) La concezione unitaria del reato, per la quale il reato è un insieme inscindibile che può presentare “aspetti”, ma che non si lascia dividere in singoli “elementi”. Essa fu un “punto di passaggio” del processo di soggettivizzazione del diritto penale tedesco, che ebbe come “punto di partenza” la critica alla concezione classica del reato, per poi arrivare al progressivo rifiuto della analisi razionale dell’illecito penale e l’accoglimento di una concezione unitaria del reato, ed infine la concezione di tipo normativo d’autore.

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