-  Fiorentin Fabio  -  26/01/2013

IL REGIME PENITENZIARIO E I DIRITTI DEI DETENUTI-G.M. NAPOLI

(tratto da: Giuseppe Melchiorre Napoli, Il regime penitenziario, Giuffrè, 2012, pp. XVIII-528

1. Se si cerca la "chiave di lettura", che consenta di rivisitare, in una prospettiva garantista, le diverse disposizioni della legge sull"ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354, d"ora in avanti anche o.p.) che regolano gli strumenti – ordinari e straordinari – di gestione della vita quotidiana all"interno del carcere, la si può rinvenire nel principio di proporzionalità dell"azione dei pubblici poteri; principio in base al quale l"amministrazione, per il raggiungimento di uno specifico fine pubblico, ha il dovere di adottare una soluzione "idonea ed adeguata, comportante il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti".

Canone della proporzionalità, dunque, con il quale ogni determinazione amministrativa – capace di intaccare le posizioni soggettive di vantaggio di cui è titolare la persona detenuta – deve confrontarsi, giacché, se il criterio della ragionevolezza ci permette di stabilire quando un interesse pubblico, affidato dalla legge in cura all"amministrazione penitenziaria (si pensi all"interesse primario al mantenimento dell"ordine e della sicurezza all"interno del carcere), possa ritenersi prevalente sugli altri specifici interessi (ad esempio, sull"interesse alla piena esplicazione dei diritti del detenuto), invece, il canone della proporzionalità ci consente di stabilire quale sia la giusta misura di tale prevalenza.

Affinché, quindi, di una misura amministrativa limitativa dei diritti del ristretto si possa sostenere la legittimità, è necessario, in primo luogo, stabilire se ricorrano i presupposti di fatto costituenti la premessa legale dell"esercizio di un ben definito potere di coazione; poi, si deve accertare se la specifica misura restrittiva possegga i connotati dell"idoneità, della necessarietà, dell"adeguatezza tecnica e della proporzionalità in senso stretto. Di conseguenza, in vista del legittimo perseguimento dei propri obiettivi, l"amministrazione deve adottare la misura che – tra quelle parimenti efficaci, che la legge mette a sua disposizione – arrechi il minor pregiudizio possibile ai diritti del detenuto. Qualora, invece, le misure che sarebbe possibile impiegare presentino un diverso grado di idoneità e di afflittività (in una scala che va dal mezzo meno idoneo e meno afflittivo allo strumento maggiormente efficace e più gravoso), la scelta della soluzione proporzionata pretende una accurata ponderazione degli interessi – primari e secondari – contrapposti, al fine di raggiungere una situazione di accettabile equilibrio tra l"entità del sacrificio imposto ai diritti del detenuto e la rilevanza dell"interesse pubblico da soddisfare.

Proprio privilegiando questo angolo visuale, la prima parte dello studio di Giuseppe Melchiorre Napoli, ricostruisce il sistema di disposizioni che definisce il Regime penitenziario (capo IV, titolo II, l. n. 354 del 1975), in modo da circoscrivere – alla luce, per l"appunto, del canone della proporzionalità – l"ambito di operatività di tutti quegli strumenti di gestione del carcere, il cui impiego è volto alla realizzazione dell"interesse pubblico (primario) al mantenimento dell"ordine e della sicurezza all"interno dell"Istituto penitenziario.

In taluni settori, del resto, la piena capacità operativa del principio de quo è conquista che appartiene alla tradizione giuridica interna e sopranazionale. Nessuno, infatti, potrebbe revocare in dubbio che il ricorso alla forza fisica o l"impiego di altri strumenti di coercizione (art. 41, commi I-III, o.p.), ovvero l"uso delle armi all"interno del carcere o durante lo svolgimento del servizio di traduzione (art. 41, comma IV, o.p. e 53 c.p.), debbano essere rigidamente guidati dal principio secondo il quale il grado del sacrificio imposto ai diritti del detenuto deve essere adeguato alla particolare rilevanza dell"interesse pubblico da soddisfare nel caso concreto.

In altri ambiti, invece, il canone della proporzionalità si è affermato in tempi più recenti e, spesso, con non poca fatica. Così, soltanto a partire dai primi anni del nuovo secolo, la giurisprudenza di legittimità è stata perentoria nell"affermare che la perquisizione corporale (art. 34 o.p.), eseguita sul detenuto svestito, è legittima unicamente quando, rispetto al fine perseguito, lo specifico intervento in corpore risulti idoneo, necessario, adeguato e proporzionato.

In altri settori, infine, il principio di proporzionalità stenta ad affermarsi, persistendo sacche di irragionevole resistenza nei confronti della generale ed inderogabile portata garantista del canone in questione. In proposito, può farsi riferimento a quell"indirizzo giurisprudenziale che non riconosce al giudice di sorveglianza il potere di sindacare la congruità delle misure restrittive discendenti dall"applicazione di uno dei regimi detentivi differenziati, regolati dagli art. 14 bis e ss. e dall"art. 41 bis o.p.

Ad ogni modo, la non univocità del filone interpretativo appena citato e, per contro, l"indiscussa, piena operatività del canone di proporzionalità in tutti gli altri ambiti disciplinati dalla legge penitenziaria, confermano che quello in questione è principio irrinunciabile, posto a presidio delle posizioni giuridiche soggettive riconosciute ai detenuti; posizioni che non possono mai essere "arbitrariamente, eccessivamente, sproporzionalmente sacrificate sul sacro altare" dell"ordine e della sicurezza.

 

2. Di certo, però, il nucleo centrale del Regime penitenziario è costituito da quelle disposizioni che definiscono i caratteri della potestà punitiva, di natura disciplinare, attribuita all"amministrazione penitenziaria. Si tratta di un settore che richiede una paziente opera di ricostruzione esegetica, anche in ragione dell"estrema laconicità del dato normativo. L"attività interpretativa, del resto, può giungere ad approdi sicuri a condizione che si individuino solidi principi sui quali fondare l"intera materia. Ed è questo l"obiettivo che persegue la seconda parte dello studio di G.M. Napoli, nella quale si mira a recuperare la dimensione garantista del sistema di norme che prevede e regola le infrazioni, le sanzioni e il procedimento disciplinare.

Così, sul versante della disciplina dei fatti costituenti illecito disciplinare (artt. 38, o.p e 77 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), oltre al principio di legalità (declinato nel sottoprincipio della – criticata – riserva di regolamento, nonché nei sottoprincipi di precisione e di tassatività della fattispecie di infrazione), assume rilievo decisivo il principio della necessaria offensività della condotta del detenuto. Cosicché, una volta individuati nell"ordine e nella sicurezza – interna ed esterna – dell"Istituto i beni giuridici tutelati dal legislatore, si deve affermare che un"azione o un"omissione del detenuto possono essere configurate come illecito disciplinare soltanto quando esse siano in grado di ledere o di porre in pericolo uno degli specifici interessi tutelati. In tal modo, quindi, non soltanto vanno espunte dall"ordinamento giuridico tutte quelle disposizioni che sanzionano fatti inidonei a porre in pericolo l"ordine all"interno del carcere (si pensi, ad esempio, alla fattispecie che punisce la condotta di negligenza nell"ordine della persona), ma – ancor prima – si deve abbandonare la visione autoritaria della disciplina carceraria, la quale non va più intesa come "valore assoluto", bensì come mero strumento per garantire una sicurezza che va calibrata sulle esigenze del trattamento penitenziario (art. 2, comma I, d.P.R. 230 del 2000).

Il principio di necessaria lesività, del resto, opera su due piani diversi. Anzitutto, su quello legislativo, ponendosi come criterio di selezione dei fatti da configurare come illecito disciplinare. Poi, sul piano applicativo, orientando l"attività interpretativa degli organi disciplinari, chiamati a valorizzare la dimensione di effettiva offensività della condotta del detenuto. Sotto quest"ultimo profilo, evidenti sono le implicazioni che ne discendono in materia, ad esempio, di punibilità del tentativo di infrazione, ex art. 77, comma II, d.P.R. 230 del 2000. Invero, le perplessità espresse dalla prevalente dottrina (secondo la quale la fattispecie tentata, innestandosi su norme dal contenuto impreciso, rende "ancor più evanescente" il confine tra lecito ed illecito), possono essere agevolmente superate, recuperando la dimensione realmente offensiva della condotta illecita e, dunque, escludendo che il tentativo possa configurarsi in ordine agli illeciti disciplinari meno gravi (art. 77, nn. 1-8, d.P.R. n. 230 del 2000), non potendosi sanzionare condotte capaci soltanto di creare "il pericolo di un pericolo di turbamento dell"ordine all"interno del carcere".

Spostando, poi, l"attenzione dall"infrazione alla risposta punitiva, non sfugge come anche il sistema delle sanzioni disciplinari si fondi su solidi principi. Riserva di legge e rispetto della personalità del detenuto (art. 38, comma IV, e 39 o.p.), infatti, garantiscono che la punizione – anche quella maggiormente afflittiva, consistente nell"isolamento continuo (artt. 33, n. 2, e 39, n. 5, o.p) – sia eseguita rispettando quello "spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana". Si tratta, quindi, non soltanto di impedire che – in uno dei momenti più delicati dell"esecuzione di una misura limitativa della libertà personale – trovino cittadinanza trattamenti contrari al senso di umanità (quali sarebbero, ad esempio, "le pene corporali o il collocamento in segrete oscure"), ma, in una prospettiva non riduttiva, di rispettare integralmente – sempre e comunque – la persona umana, i cui diritti (fuorché quelli inviolabili) possono essere compressi nel limite in cui ciò sia strettamente necessario al fine di garantire l"ordine e la sicurezza all"interno del carcere.

È, invece, sotto il profilo procedurale che emerge la difficoltà di ricostruire – in via interpretativa – un procedimento disciplinare che sia "giusto" e non un mero "rudimento di procedimento". Infatti, nonostante gli sforzi esegetici volti ad ampliare la sfera dei diritti defensionali, permane l"impossibilità di adeguare la disciplina interna alle direttive tracciate dalla Regole penitenziarie europee, secondo le quali ogni detenuto accusato di aver commesso un"infrazione: a) deve essere informato tempestivamente, in una lingua che comprende e in dettaglio, della natura delle accuse mosse contro di lui; b) deve disporre di un periodo di tempo e dei mezzi sufficienti per preparare la sua difesa; c) deve essere autorizzato a difendersi da solo o con l"assistenza di un difensore, quando gli interessi della giustizia lo esigano; d) deve essere autorizzato a chiedere la comparizione di testimoni e a interrogarli o farli interrogare; e) deve beneficiare dell"assistenza gratuita di un interprete se non comprende o non parla la lingua utilizzata nell"udienza (v. la regola 59 della Racc. (2006) 2, adottata dal C.M.C.E. l"11 gennaio 2006).

 

3. Abbandonata ogni logica di "supremazia speciale", che assegnava alla persona in vinculis una condizione di completa soggezione di fronte agli organi dell"amministrazione penitenziaria, e ricostruito in termini di interazione il complesso rapporto che si instaura tra il potere pubblico e le posizioni soggettive di vantaggio (diritto o interesse legittimo) riconosciute al detenuto, si pone l"annosa questione relativa all"individuazione di adeguati strumenti di tutela giurisdizionale di dette posizioni soggettive. Infatti, come osserva G.M. Napoli, introducendo la terza parte del suo studio, "vana sarebbe ogni considerazione circa il riconoscimento, in capo al detenuto, della titolarità sia di diritti inviolabili che lo status detentionis non può intaccare, sia di diritti fondamentali comprimibili, ma entro l"invalicabile limite del rispetto della dignità della persona (e, più in generale, invano si affermerebbe che il detenuto è pur sempre titolare di tutte quelle posizioni giuridiche soggettive di vantaggio – aventi o non aventi fondamento costituzionale – che siano compatibili con lo stato detentivo), se non si individuassero meccanismi di tutela giurisdizionale dei diritti dei ristretti lesi da atti o, più in generale, da comportamenti dell"Amministrazione penitenziaria".

Apprezzabili, dunque, le scelte compiute dalla giurisprudenza costituzionale, che – nel persistente disinteresse del legislatore –ha tracciato il sentiero lungo il quale i giudici di legittimità hanno potuto erigere l"attuale sistema di tutela dei diritti del detenuto. Sistema che ha il suo fulcro nel procedimento per reclamo (artt. 14 ter, 69, comma VI, 71 e ss., o.p.), ovverosia in una procedura particolarmente snella e agile, idonea a soddisfare le fondamentali esigenze di speditezza e semplificazione che necessariamente devono contrassegnarla, in ragione delle peculiari posizioni soggettive fatte valere.

Nondimeno, di là del fatto che i decantati caratteri della speditezza e della semplificazione si risolvono spesso in scelte normative contrastanti con i principi fissati dagli artt. 111 Cost. e 6 Cedu, si deve rilevare come il procedimento per reclamo non sia idoneo a garantire una tutela effettiva delle posizioni soggettive di cui il detenuto lamenti la lesione. Due, in particolare, sono i profili di criticità. Anzitutto, il magistrato di sorveglianza non ha il potere di condannare l"amministrazione penitenziaria al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dall"accertata violazione di un diritto fondamentale del ristretto. L"isolato, contrario orientamento della giurisprudenza di merito, infatti, è stato smentito da un recente pronuncia della Corte di cassazione, secondo la quale la materia del risarcimento dei danni è riservata agli organi della giurisdizione civile.

Ma il profilo di ineffettività che desta maggiore preoccupazione è quello che si registra sul versante preventivo, giacché il procedimento per reclamo, non essendo in grado di garantire la cessazione di una accertata violazione che sia ancora in atto, non assicura la piena tutela dei diritti del detenuto. Per la verità, in linea teorica, il problema non avrebbe motivo di porsi. La stessa Corte costituzionale, infatti, non ha esitato ha sottolineare che l"efficacia dell"ordinanza del magistrato di sorveglianza non è quella delle mere segnalazioni all"autorità amministrativa, bensì è quella delle prescrizioni o degli ordini, il cui carattere vincolante per l"Amministrazione penitenziaria "è intrinseco alle finalità di tutela" perseguite dall"art. 69, comma V, o.p., secondo il quale il magistrato di sorveglianza impartisce, nel corso del trattamento, disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei ristretti.

Sennonché, nella prassi, sono frequenti i casi in cui l"amministrazione penitenziaria disattende il contenuto precettivo del provvedimento emesso dal giudice all"esito della procedura per reclamo. E, al cospetto di tale inottemperanza, il detenuto non ha altro mezzo di tutela se non quello di reinvestire della questione il magistrato di sorveglianza; e questi non ha altri strumenti se non quelli di emettere un"ordinanza avente contenuto analogo a quello del provvedimento eluso, o di sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ex art. 134 Cost. È evidente, pertanto, come si sia ancora ben lontani della idea che "il principio di effettività della tutela giurisdizionale non tollera che la statuizione contenuta nella pronuncia del giudice non possa essere portata – coattivamente – ad effettiva esecuzione, dovendosi sempre garantire il soddisfacimento concreto delle posizioni giuridiche soggettive accertate in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto e, quindi, anche nei confronti della pubblica autorità".

Non più eludibile, dunque, è "un intervento del legislatore che disciplini uno specifico meccanismo di esecuzione coattiva della decisione giudiziale", ovverosia – come ha imposto, di recente, la Corte europea dei diritti dell"uomo – che disciplini uno specifico rimedio giurisdizionale che sia agevolmente accessibile, effettivo e idoneo a garantire una piena tutela (preventiva e risarcitoria) della posizioni soggettive del detenuto.

 4. Numerose e complesse, dunque, sono le tematiche affrontate da Giuseppe Melchiorre Napoli, nell"ampio e documentato studio sul Regime penitenziario. Tematiche che, a parte qualche rara eccezione (si pensi, ad esempio, alle questioni interpretative relative alla disciplina del regime differenziato di cui all"art. 41 bis, comma II, o.p.), non sembra abbiano ricevuto, in passato, la dovuta attenzione da parte della dottrina. Eppure, come ricorda, nella Prefazione al volume, il Prof. Luigi Fornari, tale disattenzione è immotivata, dal momento che le disposizioni che definiscono il regime penitenziario "si pongono – tradizionalmente – come indici rivelatori del grado di civiltà raggiunto da un determinato sistema penitenziario (e da un ordinamento nel suo complesso)". È in questo ambito, infatti, che i diritti fondamentali del detenuto rischiano, in misura maggiore, di subire indebite compressioni. Ed è in questo ambito che massima deve essere l"attenzione da parte degli studiosi e degli operatori del diritto, perché – nella prassi – troppo spesso ci si dimentica dei principi supremi che devono governare il trattamento penitenziario. I canoni della legalità e della proporzionalità dell"azione amministrativa, e, ancor prima, il valore supremo della dignità umana, pretendono infatti un costante ed attento controllo sulle modalità esecutive delle misure restrittive della libertà personale; modalità che non devono mai violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

È ormai giunto il tempo, dunque, di colmare la distanza che separa le enunciazioni di principio dalla prassi, in modo da poter finalmente affermare che, in ogni Istituto penitenziario italiano, le persone detenute sono poste nella condizione di esercitare – concretamente ed agevolmente – sia i diritti riconosciuti dalla legge penitenziaria (art. 4 o.p.), sia quelli riconosciuti, da altre disposizioni legislative, a tutte le persone libere. Diritti, questi ultimi, in relazione ai quali occorre sempre applicare il criterio della proporzione, giacché il sacrificio imposto al singolo non deve mai eccedere quello minino necessario e non deve mai ledere posizioni giuridiche non sacrificabili in assoluto.




Autore

immagine A3M

Visite, contatti P&D

Nel mese di Marzo 2022, Persona&Danno ha servito oltre 214.000 pagine.

Libri

Convegni

Video & Film