-  Bonomo Donatella M. E.  -  04/04/2012

ILLECITI DELLINFERMO DI MENTE: IL SORVEGLIANTE CUSTODE DELLA SALUTE DEL MALATO – Donatella M. E. BONOMO

 È incontestabile come, in diversi ambiti del nostro ordinamento, la situazione di incapacità naturale riceva un rilievo giuridico tale da condurre a differenziare il trattamento dei soggetti che ne vengano colpiti. Differenziazione il più delle volte razionale e giustificata, ma che non deve giungere, in linea generale, a fare etichettare questi ultimi quali soggetti estranei dalle normali regole che governano l"ordinario vivere civile; affermazione che, a ben guardare, andrebbe a tutto svantaggio degli stessi incapaci naturali e/o infermi mentali, della loro integrazione, ed asserzione inoltre capace di riflettersi sulla percezione della malattia o disabilità da parte della collettività, con successive ed ulteriori conseguenze che – di rimbalzo - si riverserebbero nuovamente sull"equilibrio relazionale dell"incapace naturale.

In questo senso, uno dei casi più discussi in ambito civile è riferibile, in modo particolare, agli eventi dannosi che vedono in qualità di danneggiante un soggetto incapace di intendere e volere. Come più volte constato dagli interpreti, molte delle questioni sorte in dottrina e in giurisprudenza ruotano intorno alla peculiare, e tutt"ora vigente, disciplina derogatoria di cui agli artt. 2046 e 2047 c.c.; nonché – qualora detti soggetti siano in stato di incapacità naturale in ragione di una patologia mentale – alla regolamentazione della legge 180/78, confluita in seguito nella L. 833/78. (in dottrina v.: C. Salvi, La responsabilità civile dell"infermo di mente, in Un altro diritto per il malato di mente, Jovene, Napoli,1988, p. 823 e 824; P. Cendon, Infermità di mente e responsabilità civile, in Giurispr. Ital., Vol. CXLIII, 1991, parte IV, c. 85; A. Venchiarutti, Responsabilità per danni cagionati dall"infermo di mente, in Nuova Giur. Civ. Comm. 2009, fasc. 1, pt. 1, 2009, p. 62; P. Cendon, Infermi di mente e altri disabili in una proposta di riforma del codice civile, in PD a. XVIII, n. 4, dicembre1987, 621 ss.).

La richiamata normativa sul trattamento delle malattie mentali ha influito, infatti, sull"interpretazione della regolamentazione codicistica, al punto da spingere parte della dottrina ad interrogarsi sul permanere della possibilità attuale di configurare un obbligo di sorveglianza nei confronti dei malati mentali, diretto all"esclusivo fine di prevenzione di gesti lesivi della posizione giuridica di terzi soggetti (v. in particolare: M. Franzoni, Dei fatti illeciti artt. 2043-2049, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Zanichelli, 1993, 315 ss.; A. Bregoli, Figure di sorveglianti dell"incapace dopo l"avvento della Legge 180, in Un altro diritto per il malato di mente, Jovene, Napoli, 1988, p. 827 ss.; G. Cattaneo, La responsabilità civile dello psichiatra e dei servizi psichiatrici, in Un altro diritto per il malato di mente, Jovene, Napoli 1988, p. 217 ss.; P. G. Monateri, Illecito e responsabilità civile, vol. X, II Tomo, in Trattato di diritto Privato diretto da M. Bessone, Torino, 2005, 1 ss.).

Tuttavia, la sfera dei potenziali destinatari della disciplina agli artt. 2046 e 2047 c.c. non coincide necessariamente solo con i soggetti affetti da patologia mentale; così come la cerchia dei soggetti deboli, in situazione comunque di fragilità, può ragionevolmente essere estesa ben oltre l"angusta categoria dei gravi malati psichiatrici.

In primo luogo va segnalato come il campo d"operatività dell"art. 2047 c.c. sia individuato proprio attraverso il riconoscimento dello stato di incapacità naturale del soggetto danneggiante; quindi, non tocca la categoria dei soggetti ai quali sia invece ascrivibile un"incapacità legale, la cui disciplina in riferimento ad eventuali fatti dannosi è rinvenibile nel successivo art. 2048 c.c., che regolamenta le conseguenze del fatto dannoso in modo non del tutto assimilabile al precedente disposto. Da uno sguardo alle applicazioni giurisprudenziali degli artt. 2046 e 2047 c.c., si deduce come gli individui che generalmente ricadono entro la categoria dei soggetti potenzialmente non imputabili siano:

-         soggetti affetti da disturbi psichiatrici di vario genere ed intensità, che non siano stati destinatari di dichiarazioni giudiziali di incapacità legale (v. Cass. Civ. Sez. III, 20.06.2008, n. 16803, in Giust. Civ. 2009, 10, 2195; Cass. Civ. Sez. III, 16.06.2005, n. 12965, in Giust. Civ. 2006, I, p. 72);

-         persone con seri problemi di "dipendenza patologica" da alcool o sostanze stupefacenti (v. F. Romano, L"imputabilità del tossicodipendente, in Giur. Merito 1995, 4-5, pag. 866 e ss.);

-         minori in tenera età (v. Cass., 24.05.1997, n. 4633, in De Jure);

-         anziani le cui facoltà intellettive e volitive siano colpite da malattie di tipo degenerativo (v. Cass. civ. Sez. III, 19.10.2007, n. 21972, in Nuova Giur. Civ. Comm. 2008, fasc. 4, pt. 1, 506, con nota di A. Venchiarutti);

-         soggetti che, pur non avendo una stabile incapacità, siano transitoriamente colpiti da disturbi fisici o psichici che incidano direttamente sulla capacità di intendere e volere (Cass., 29.04.1993, n. 5024, in Resp. Civ. Prev. 1994, 472).

Si sottolinea quanto il ricorrere delle citate situazioni non debba necessariamente essere inteso come presunzione di "incapacità naturale", ma - per ciascuna delle richiamate categorie e nel singolo caso di specie – è in ogni caso essenziale accertare concretamente l"eventuale difetto della capacità.

In secondo luogo, quando ci si richiama alla categoria dei c.d. "soggetti deboli" si fa riferimento ad una categoria eterogenea, e per individuare i soggetti che ne fanno parte non è facile riferirsi ad un"elencazione standard, né sembra inoltre ammissibile una generalizzazione. Caratteristica comune a detti soggetti, tuttavia, è che questi ultimi non sono in grado di auto tutelarsi in modo completo in ogni ambito di azione o, comunque, non sono sempre capaci di tutelare i propri interessi in modo del tutto adeguato. Per fronteggiare queste circostanze l"ordinamento giuridico mette a disposizione diversi strumenti e rimedi, nella maggior parte dei casi diretti ad apprestare una differente protezione agli interessi di volta in volta ritenuti bisognosi di tutela (sul tema v.: P. Cendon, La follia si addice ai convegni, in Dir. Famiglia 1999, 2-3, pag. 727 e ss.).

La dottrina mette in luce come, in relazione ai bisogni dei soggetti deboli, siano soprattutto i "diritti sociali" di cui costoro sono titolari ad assumere particolare rilievo; siano questi: diritti di assistenza, diritti di cura, nonché – in un certo senso - diritti alla sorveglianza. Tutti i menzionati diritti si prestano però ad essere intesi in modo nettamente diverso dai consueti diritti soggettivi del nostro diritto privato, che risaltano diritti di stampo proprietario, elaborati dal legislatore attraverso moduli che fanno invece riferimento a persone autosufficienti, ed ai quali l"ordinamento riconosce quindi tutela mediante rimedi volti a reprimere l"ingerenza dei terzi. I soggetti deboli, non autosufficienti, richiedono invece proprio l"ingerenza di terze persone perché possano godere effettivamente e pienamente dei richiamati diritti; dunque, in questi peculiari casi quel che sarebbe da scongiurare è in realtà il "non fare". Non vi è infatti dubbio su come una persona in stato di fragilità risulti ulteriormente indebolita dalla mancanza di strumenti capaci di colmare le proprie carenze, e – giova ribadirlo – da ciò se ne può dedurre che qualora alla stessa venisse invece riconosciuto un adeguato supporto, le proprie capacità potrebbero migliorare ed essere in realtà rafforzate (P. Cendon, op. ult. cit., pag. 727 e ss.).

In effetti, si ricorda come sia proprio questa la direzione che il legislatore ha deciso di seguire con la L. 6/2004 sull"Amministratore di Sostegno, nell"offrire una nuova forma di tutela e protezione alla "persona" in situazione di fragilità fisica e/o psichica. Con questo provvedimento normativo si sposta l"attenzione dalla tutela del patrimonio del soggetto in situazione di disagio – tipica dei precedenti, obsoleti e rigidi strumenti di protezione dell"interdizione e dell"inabilitazione – alla tutela e alla "cura" effettiva della "persona", permettendo alla stessa una personale partecipazione giuridica (sempre ove possibile), o un proficuo e ponderabile affiancamento in caso di soggettivo e concreto bisogno di assistenza (v. in particolare: Cass. Civ. Sez. I, 12.06. 2006, n. 13584, in De Jure; Corte Cost., 09.12.2005, n. 440, in Giur. Cost. 2005, 6,  c. 4746; v. inoltre sul tema in dottrina: A. Venchiarutti, Il discrimen tra amministratore di sostegno e interdizione: dopo la corte costituzionale si pronuncia la Corte di cassazione, in Dir. Famiglia 2007, 1, pag. 127 e ss.; P. Cendon e R. Rossi, L"interdizione va abrogata, in www.altalex.it, 25.01.2007; P. Cendon, Un nuovo diritto per i malati di mente, in www.personaedanno.it, 20.01.2004).

È possibile riflettere sulla richiamata novella legislativa (L. 6/2004) e constatare quanto questa sia frutto di un lungo percorso giuridico e sociale, che ha portato all"abbattimento di schemi di azione e di pensiero ormai dati per acquisiti e talvolta saturi di pregiudizi. È altresì possibile ritenere come attraverso questa normativa il diritto è stato - in un certo senso - costretto a modernizzare il proprio rapporto con la realtà, offrendo innovative soluzioni ai bisogni di tutela ed assistenza riconosciuti nella società. L"emanazione di questo provvedimento può essere tangibile prova di quanto sia inoltre venuto a mutare il modo di percepire l"infermità di mente, a livello giuridico e sociale. Si coglie infatti nelle disposizioni della citata legge, e nelle più recenti applicazioni giurisprudenziali in argomento, l"abbandono di quella equazione "malattia mentale uguale incapacità", ossia l"abbandono dell"anacronistica riconduzione delle due situazioni ad un unico ed identico status.

Per ciò che concerne in particolare i disabili psichici, a ben guardare, un primo passo diretto a riconoscere priorità alle esigenze di cura ed assistenza della "persona" (in luogo di una protezione dei terzi "dalla" persona) era stato compiuto con la L. 180/78. Gli innovativi principi della richiamata riforma (L.180/78) avevano infatti indotto a capovolgere il precedente assetto del trattamento della malattia mentale: lo scopo custodialistico del citato trattamento veniva ad essere superato dalla necessità terapeutica dello stesso; la regola dell"obbligatorietà del ricovero veniva ad essere rovesciata a favore della regola del trattamento extraospedaliero; in definitiva, l"ordinaria volontarietà del trattamento prevale sulle ristrette e tassative ipotesi di ricorso a T.S.O. individuate dalla legge. In altri termini, l"imperativo è: cura e non custodia; ove si dovesse ritenere necessario un breve e regolamentato ricovero coatto questo dovrà essere funzionale alla stessa cura della malattia.

Si sostiene con fermezza quanto il malato di mente debba tornare ad essere considerato quale "persona" soggetto di diritti; e con ciò un soggetto da curare e da reintegrare in società.

La contestuale espressa abrogazione dei reati che punivano il medico per omessa custodia, omessa denuncia di dimissione o di ricovero del malato di mente (artt. 714, 715, 717 c.p.), attuata dall"art. 11 della legge Basaglia, ha fatto venire meno il presupposto "normativo" per l"individuazione dell"obbligo di sorveglianza sugli infermi di mente. In altri termini, viene a mancare cioè quella specifica norma nell"ordinamento che prevede questa custodia come obbligatoria, e individua in dettaglio il soggetto responsabile e i confini di siffatta responsabilità; ma l"obbligo di sorveglianza in realtà non scompare dal sistema, viene solo a rinnovarsi.

L"affidamento concreto di un incapace naturale ad altro soggetto idoneo ad assisterlo e/o sorvegliarlo, legato inoltre a questo incapace da una relazione significativa, non resta privo di conseguenze giuridiche (v. Cass., 01.06.1994, n. 5306, in Resp. Civ. Prev. 1994, 1067; Cass., 12.05.1981, n. 3142, in Giust. Civ. Mass. 1980, fasc. 5); tanto più ove il soggetto affidato sia affetto da patologia mentale e suddetto affidamento sia effettuato a persona legata al malato da una relazione "terapeutica" (v. Cass., 16.06.2005, n. 12965, in Giust. Civ. 2006, I, 72; App. Trieste, 22.09.2001, in Studium Iuris 2002, c. 1018). Il rapporto terapeutico che si instaura tra medico e paziente può infatti ragionevolmente essere fonte di doveri di protezione nei confronti del soggetto che si affida alle cure mediche, e la stessa L. 180/78 disciplina il trattamento della malattia mentale basando le proprie affermazioni sul presupposto di una "dovuta cura" e "recupero" del paziente psichiatrico; compito che indiscutibilmente viene ancora a gravare sulle Istituzioni (v. Cass. Pen. Sez. IV, 14.11.2007, n. 10795, in Foro It. 2008, 5, c. 279). Le novità attengono prettamente le modalità di attuazione del trattamento, si capovolge il rapporto tra cura e custodia attraverso il prevalere della prima sulla seconda.

La centralità della persona si riscontra anche in tema di scelte di cura, nel riconoscimento della possibilità del malato di decidere in ordine alle terapie da effettuare e all"eventuale proprio ricovero; questa presunzione di capacità naturale del soggetto affetto da infermità mentale si sostituisce alla precedente contraria presunzione. In linea generale, nelle situazioni ordinarie, il primo soggetto competente ad effettuare la scelta sul trattamento sanitario da attuare in concreto, deve necessariamente essere lo stesso paziente affetto da patologia psichiatrica che vi si deve sottoporre, ed è a lui affidata la determinazione sulle successive scelte terapeutiche proposte dai medici che lo hanno in cura. Tuttavia, ci sono casi nei quali si riscontrano effettive (anche solo temporanee) difficoltà intellettive e/o volitive che incidono sulla capacità di discernimento del malato, rendendo impossibile l"assunzione di una libera e consapevole scelta. In questi casi potrebbe farsi un adeguato impiego delle potenzialità insite nella figura dell"Amministratore di Sostegno. Infatti, secondo le affermazioni giurisprudenziali, a detto Amministratore di Sostegno può essere attribuito il potere di esprimere il consenso al trattamento sanitario in favore del beneficiario della misura (v. Trib. Cosenza, 28.10.2004, in Giur. Merito 2005, 6, c. 1319; Trib. Modena, 28.06.2004, in D&G 2004, 30, 75; Trib. Milano, 05.04.2007, in www.personaedanno.it).

In questo senso, laddove l"infermo di mente sia beneficiario della misura dell"Amministratore di Sostegno, potrebbe anche ammettersi che vi siano ben due "angeli custodi" per l"infermo di mente: da un lato, il citato Amministratore di Sostegno quale custode della cura (in senso lato) della persona e dell"assistenza alla stessa; dall"atro lato, i Servizi di cura delle malattie mentali e il terapeuta, intesi quali effettivi custodi della salute e della cura (in senso stretto) della malattia del paziente. Soggetti che affiancano l"infermo, ciascuno con proprie e distinte competenze, ambiti di azione, poteri, strumenti, e con ruoli differenti, ma entrambi agiscono con l"intento di mantenere l"equilibrio psico-fisico-relazionale del soggetto affetto da patologia mentale, accrescendone il più possibile l"autonomia e coinvolgendolo nel proprio progetto di cura. Se entrambe le risorse messe a disposizione dalla normativa vigente – Amministratore di Sostegno e sanitario (ciascuno nell"ambito di propria competenza) – venissero sfruttate al meglio, se si riuscisse (come auspicabile e come più volte tentato) a garantire una ponderata cooperazione e interazione tra questi diversi soggetti, si limiterebbero fortemente gli spazi per cui talvolta viene da alcuni sostenuto che vi sia stato un totale "abbandono del malato a se stesso". In sostanza la soluzione che riduca la percezione di questo "abbandono" potrebbe già in gran parte trovarsi entro le righe delle norme del nostro diritto positivo vigente.

Qualora però si voglia discutere in modo specifico dell"azione di prevenzione di gesti etero lesivi e dannosi dell"infermo di mente, a seguito dell"aggravarsi di quadro patologico, si focalizza l"attenzione sulla salute del malato psichiatrico e sul ruolo dei terapeuti, ed al riguardo occorre necessariamente offrire al concetto di sorveglianza un nuovo significato, rispetto a quello che era proprio di un"epoca più remota.

In conclusione, a seguito della L. 180/78 si è imposta una nuova lettura della figura del "soggetto tenuto alla sorveglianza", così come era stata codificata dalla normativa del codice civile del 1942, in particolare per ciò che concerne l"art. 2047 c.c. La qualifica di sorvegliante si rinnova e passa dalla definizione di soggetto tenuto alla custodia del malato di mente a quella, ben più significativa e incisiva, di custode della salute della persona affetta da patologia mentale.

Questa svolta è stata consentita dalla necessità di rinvenire un fondamento normativo allo stesso obbligo di sorveglianza; tuttavia, detto fondamento deve conciliarsi con la nuova impostazione del trattamento della malattia mentale e con l"immagine della patologia psichiatrica della quale ha voluto essere portatrice la riforma. A tale scopo si è inteso attingere soprattutto ai valori ed ai principi espressi dalla Costituzione, attraverso un particolare riferimento agli artt. 2 e 32 Cost.

Dall"impostazione che vede il sorvegliante identificarsi nel custode della salute e della cura della persona si fa derivare, come logica conseguenza, la sua posizione di garanzia (v. anche: Cass. Pen. Sez. IV, 14.11.2007, n. 10795, in Foro It. 2008, 5, c. 279).

Costui può essere inteso quale figura garante, sia in relazione alla tutela delle posizioni che fanno capo allo stesso malato sia nei confronti dei terzi estranei al rapporto terapeutico, in considerazione del fatto che il ruolo rivestito da tale soggetto comporta l"aspettativa, anche nei confronti di terzi, che il paziente infermo di mente non sia un soggetto abbandonato a se stesso, ma sia affidato e assistito da qualcuno.

Si intuisce quanto possa essere rilevante l"affidamento che lo stesso infermo di mente ed i terzi possano fare in ordine alle competenze professionali dei singoli operatori sanitari, all"organizzazione efficace delle strutture che si occupano del trattamento delle malattie mentali. Di conseguenza, a loro volta, le citate strutture ed il proprio personale debbono garantire degli standard di sicurezza riferibili alle ordinarie regole del buon esercizio dell"attività medica, nonché alle regole imposte dalla legge.

È ragionevole dunque ammettere che i soggetti maggiormente idonei al compito di prevenzione di fatti dannosi ad opera dell"infermo di mente possano essere tuttora ricercati nella categoria di soggetti che professionalmente si occupino della cura della malattia mentale. Questi ultimi soggetti, in effetti, possedendo delle competenze mediche (oltreché terapeutiche in senso lato, nonché farmacologiche) ed esercitano in strutture adeguate alla cura e al trattamento della patologia. Sulla base di questi presupposti è possibile ritenere che costoro siano in grado - più di altri - di prevenire il gesto lesivo del malato, almeno laddove questo sia sostanzialmente riconducibile ad un"estrinsecazione della particolare patologia della quale è affetto il paziente, ed il medesimo paziente sia stato preso in carico, seguito e curato dai Servizi di cura competenti.




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