Danni  -  Redazione P&D  -  14/01/2022

Impressionii generali rileggendo una (buona) sentenza veneziana di vent'anni fa - P.C.

Va detto subito come la sentenza del giudice veneziano appaia largamente persuasiva.

Non mancano beninteso, guardando al modo in cui il testo è strutturato, ombre o durezze di tipo stilistico.

Linguaggio talora pomposo (“è culturalmente evidente”; “aprono la strada al tema ragionevolmente più delicato”), comunque ridondante e circospetto (“non rileva in questa sede tentarne di dedurne le ragioni”).

Sovrabbondanza di avverbi (“se l’art.30 della Costituzione fosse eticamente interpretato nessun genitore, ragionevolmente, andrebbe, astrattamente, esente da censure”), qua e là abuso di litoti (“non appare imprudente ritenere”; “non essendo estranea alla esperienza di ordinamenti pur vigenti nel ventesimo secolo l’individuazione di un ruolo non solo meramente sostitutivo …”; “come nel caso di specie, ove non si controverte di una non corretta gestione”; “appare essere, nel suo complesso, in parte non esente da contraddizioni in termini”).

Fraseggi continuamente spezzettati, sintassi non sempre limpida e scorrevole (“ad esso e alle sua diramazione autoritative, anche alla giurisdizione, certo non è dato un potere di valutazione, in chiave di dover essere, per così dire eticheggiante delle modalità dell’esercizio delle funzioni genitoriali”).

Tono ogni tanto burocratico o cibernetico (“accertata capacità … di correlazionarsi con la vita e con i rapporti sociali e sentimentali senza presentare profili apprezzabili in punto disagi clinicamente manifesti”; “ai genitori l’obbligo, forse meglio dire il compito, di contribuire, per quanto possibile, alla loro educazione, con progressivo prudente inserimento di dati utili, per quanto di ragione, ad uno sviluppo sereno del bambino”); espressioni involute e labirintiche (“consente il riferimento al coacervo di ogni possibile voce risarcitoria”; “invero tale impostazione può essere utile ai soli fini, non certamente etici, di individuare l’ambito di una lesione, salva la relativa qualificazione, e tentare, assumendone provati i fatti costitutivi, una quantificazione possibile, anche in via ineludibilmente equitativa”), ai limiti dell’ermetismo (“qualsiasi ne fosse stato, se esercitato, il contenuto e il precipitato”). Inclinazione ai personalismi (“il rischio, palese per chi scrive, è, allora, la lettura distorta delle norme citate”), gusto per le parole difficili, non sempre usate a proposito (entificazione, contestualizzzaione), qualche concessione populistica (“le parole e le definizioni servono alla dottrina più che agli uomini e alle donne che agiscono per la tutela dei propri diritti”).

La sostanza della decisione è comunque da approvare senza riserve - il che vale, sottolineiamo, sia con riferimento ai profili dell’an respondeatur (il fatto di ravvisare nella condotta omissiva del padre un illecito aquiliano), sia per quanto concerne i momenti del quantum (il distinguere fra questa e quella posta dannosa, l’indisponibilità a risarcire le voci non provate, il non fermarsi alla generica dizione di danno non patrimoniale).

C’è anzi da chiedersi - tenendo presenti gli atteggiamenti generali di alcuni fra i nostrri interpreti, nel corso dell’ultimo periodo - fino a che punto di quelle imperfezioni il giudice veneziano sia davvero colpevole. E’ facile che il linguaggio sgorghi fluentemente, nella stesura di un testo, sintantochè fra teoria e pratica regna l’armonia. Difficile evitare goffaggini, invece, allorché la tipologia delle ripercussioni lamentate in concreto dalla vittima e il quadro degli orientamenti teorici – quale propugnato dai notabili del settore - si collocano su mondi diversi.

Scriveva Stefano Rodotà nella sua monografia sulla r.c. del 1964: “Non dunque angusta negli orizzonti, ma cieca addirittura una scienza giuridica che si rifiuta di prender atto del trascorrere del tempo, e contempla inerte un tipo giuridico in cui si ritengono fissate definitivamente le modalità di disciplina di una certa materia” .

Erano il quel contesto parole riferite alla colpa, ossia alla riluttanza di tanti interpreti ad ammettere come normale, in quegli anni, il ricorso a criteri di imputazione diversi da quello tradizionale.

Si tratta però - occorre dire - di un giudizio che conserva sul terreno metodologico forti elementi di attualità; ci vuol poco a riconoscere storture analoghe nel modo con cui tanti illustri interpreti si avvicinano, tutt’oggi, alle questioni del danno alla persona.




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