-  Luca Leidi  -  16/02/2016

IMPUGNABILITA' IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ART.348TER CPC - Cass. s.u. n.1916/16 - Luca LEIDI

- impugnabilità dell"ordinanza di declaratoria di improcedibilità ex art.348-ter c.p.c.
- error in procedendo dell"Appello ricorribile in Cassazione ex art.111 Cost.
- sindacabilità della decisione che nega alla parte il giudizio d'Appello

 

La recentissima pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite (sentenza n.1916 del 2 febbraio 2016) è volta a dirimere un contrasto giurisprudenziale manifestatosi nel 2014. In realtà, il contrasto de quo si manifestò già dall"introduzione nel codice di procedura civile delle due norme (rispettivamente, artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.) ad opera dell"art.54 D.L. 22 giugno 2012 n.83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012 n.134. In sostanza: tali articoli disciplinano l"ipotesi in cui, "fuori dai casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l"inammissibilità o l"improcedibilità dell"appello, l"impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta" (art.348-bis, co.1, c.p.c.). Nel dichiarare tale inammissibilità, il Giudice dell"Appello deve procedere con ordinanza "succintamente motivata" prima di procedere alla trattazione della causa (art.348-ter, co.1, c.p.c.); il comma 3 di quest"ultima norma prescrive che "Quando è pronunciata, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell"art.360, ricorso per cassazione. (…)". I Giudici di Piazza Cavour, sez.II, chiamati a dirimere la questione de facto, con ordinanza interlocutoria n.223 del 2015 hanno rimesso gli atti al Primo Presidente, al fine di dirimere tale ermeneutica controversia. Nodo della questione è il seguente: l"ordinanza di declatoria della inammissibilità dell"Appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento, è impugnabile (o no) in Cassazione? Il contrasto emerso in seno alla Corte di legittimità verte proprio su questo punto.

Secondo un primo orientamento (Cass. civ., sez.VI, 27 marzo 2014 n.7273), tale ordinanza, se emanata per manifesta infondatezza nel merito del gravame, non è ricorribile per cassazione, non avendo carattere definitivo, consentendo, il comma 3 dell"art.348-ter, di impugnare per cassazione il provvedimento di prime cure. Viceversa, avverso tale ordinanza si ritiene ammissibile il ricorso per cassazione nel caso in cui dichiari l"inammissibilità dell"appello per ragioni processuali, avendo essa carattere definitivo e valore di sentenza, non potendo, la declaratoria di inammissibilità dell"appello per questioni di rito, essere impugnata con provvedimento di primo grado.

Secondo altro orientamento (Cass. civ., sez.VI, 17 ottobre 2014 n.8940), il ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario, non è mai esperibile avverso l"ordinanza che dichiari l"inammissibilità dell"appello ai sensi dell"art.348-bis c.p.c. e ciò a prescindere dalla circostanza che essa sia stata emessa nei casi in cui ne è consentita l"adozione, ovvero al di fuori di essi, ostando, quanto all"esperibilità del ricorso ordinario, la lettera dell"art.348-ter, co.3, c.p.c., e, quanto al ricorso straordinario, la non definitività della stessa. Così i termini del contrasto.

Ab origine, le intenzioni del Legislatore nell"introdurre gli artt.348-bis e 348-ter c.p.c., come risultano dalla Risoluzione illustrativa del D.L. n.83/2012, erano volte alla creazione di un ennesimo strumento di semplificazione ed accelerazione del processo civile.Tuttavia, come osservato dalle Sezioni Unite oggetto di studio del presente lavoro, non sempre la volontà del Legislatore coincide, poi, con la volontà della legge come realizzata nel testo legislativo. Continua la S.C. affermando – e pare proprio adatto al caso oggetto di specie per i risvolti infra indicati – l"interpretazione c.d. "autentica" del Legislatore non rappresenta di certo criterio ermeneutico unico e prevalente, essendo peraltro appena il caso di sottolineare che l"intentio auctoris non potrebbe giammai legittimare una lettura delle norme in ipotesi contraria alla Costituzione. I Germellini pongono la loro attenzione al dettato dell"art.111, co.7, Cost., a norma del quale "contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge". Questa Corte, attraverso pronunce costanti nel tempo, ha già da tempo chiarito che un provvedimento, ancorché emesso in forma di ordinanza o di decreto, assume carattere decisorio (requisito necessario per proporre ricorso ex art.111 Cost.) quando pronuncia o, comunque, incide con efficacia di giudicato su diritti soggettivi, con la conseguenza che ogni provvedimento giudiziario che abbia i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti nonché della definitività - in quanto non altrimenti modificabile - può essere oggetto di ricorso ai sensi dell'art.111 Cost. (tra le prime, Cass. n.2953 del 1953).

Ma il contrasto non verte sul concetto di "decisorietà", nè sul fatto che tale carattere sia riscontrabile nell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c., bensì sul significato da attribuire al presupposto della "definitività" in quanto, come già evidenziato, secondo la Cass. n.7273/2014 esso sussisterebbe in relazione all'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c.perchè l'eventuale error in procedendo in cui sia incorso il Giudice d'Appello nel pronunciare l'ordinanza in esame, non potrebbe essere fatto valere nel ricorso avverso la sentenza di primo grado ma solamente mediante ricorso straordinario, dovendo in mancanza escludersi la possibilità di rimettere in discussione la tutela che compete alla situazione dedotta nel processo; mentre, secondo l"orientamento espresso dalla Cass. n.8940 del 2014 (pur non dubitando del carattere decisorio della medesima siccome emessa in un processo civile iniziato a cognizione piena, che è la tipica sede della "cognizione decisoria") nega la ricorribilità dell'ordinanza in questione per mancanza del presupposto della definitività, tale da ritenersi solo quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, con la conseguenza che finchè quest'ultima sia ridiscutibile - nella specie con il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado - difetterebbe la definitività idonea a giustificare il ricorso straordinario.

Il Collegio ritiene, ai fini che in questa sede rilevano, che tale ultima accezione del concetto di definitività non sia condivisibile. Ciò innanzitutto in quanto essa non trova riscontro nel dato normativo costituzionale e neppure nella legislazione processuale ordinaria nè può ritenersi confermata dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (si vedano le sentenze nn. 3073 e 11026 del 2003). In tali sentenze, affermano le Sezioni Unite, "può desumersi dunque, a contrario, che, giusta la natura strumentale delle norme processuali, sussiste il presupposto della "decisorietà" con riferimento alle pronunce sull'osservanza delle norme processuali se queste sono emesse nell'ambito di processi su diritti soggettivi, ma da tali principi non possono certamente trarsi argomenti a sostegno di una accezione ristretta del diverso e concorrente presupposto della "definitività", senza che possa indurre a diverse conclusioni l'estrapolazione, dalle sentenze citate, di singole affermazioni in assenza di considerazione del contesto (peraltro in entrambi i casi non contenzioso) di riferimento." (Cass. S.U. n.1914/2016, cit.).

La linea interpretativa proposta dalla sentenza n.8940/14 cit., troncando la potenziale corrispondenza tra l'ambito della decisorietà e quello della definitività attraverso una operazione ermeneutica non avallata dalla lettura dei citati precedenti delle Sezioni Unite, finisce per proporre una interpretazione ingiustificatamente riduttiva dell'art.111 Cost., co. 7, che rischia di finire di fatto per ridurre l'ambito della denunciabilità, ai sensi dell'art. 111 cit., delle violazioni della legge processuale.

La tesi in discussione non trova conforto neppure nella interpretazione e applicazione, certamente non riduttive, che la stessa Cassazione ha dato dell'art. 111 Cost., a partire dalla già citata Cass. n. 2953 del 1953, fino alla più recente S.U. n. 8053 del 2014, che, decidendo sulla questione di massima di particolare importanza della applicabilità al giudizio tributario in cassazione delle modifiche apportate all'art. 360 c.p.c. dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, ha dato un'ampia lettura dell'art.111 Cost., co.7, proprio in materia di denuncia di violazione di norme processuali.

Le Sezioni Unite odierne, propendendo per l"abbandono della rigida posizione delineata dalla Cass.8940/14 cit., ritengono "anche in ragione della giurisprudenza costituzionale in proposito - che il ricorso straordinario per cassazione costituisca garanzia rafforzativa dell'effettività della tutela giurisdizionale di cui al primo comma dell'art. 24 Cost. - consistente nel diritto al controllo di legalità da parte della Suprema Corte - e, corrispondentemente, che l'art. 111 Cost. cit., comma 7 costituisca "norma di chiusura" del sistema delle impugnazioni.".

Nel ricorso in Cassazione, continua la S.C., "deve trovare spazio e ragione sia la funzione nomofilattica della Corte di cassazione sia la tutela del singolo cittadino contro le violazioni della legge commesse dai giudici di merito"(Cass.1914/16 cit.). Non è possibile – ma neanche auspicabile – escludere la possibilità ad ogni individuo di poter impugnare sempre, per le violazioni di leggi commesse dai Giudici di merito, i provvedimenti decisori che non siano altrimenti modificabili o censurabili.

Come sottolineato da giurisprudenza costante sul punto, si deve evidenziare la natura garantistica del ricorso per Cassazione e sottolineare che l'art. 111 Cost., ammettendo sempre il ricorso straordinario, senza esclusioni, ne attribuisce il potere a tutte le parti del giudizio di merito "quando siano consumate o non siano consentite altre forme di gravame" (tra le altre, Corte Costituzionale nn. 1 del 1970 e 173 del 1971).

Più recentemente gli stessi Giudici Costituzionali (Corte Cost. sent. n. 207 del 2009), hanno colto l'occasione per soffermarsi sul giudizio di cassazione e sul ruolo che esso assume nel nostro sistema processuale,nonchè per affermare che la garanzia del giudizio di cassazione si qualifica in funzione dell'art.111 Cost., che prevede "quale nucleo essenziale del giusto processo regolato dalla legge" il principio secondo cui contro tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge (Corte Cost. sent. n. 395 del 2000).

Il soccombente che si è visto dichiarare inammissibile l'appello con l'ordinanza di cui all'art. 348-ter c.p.c., proponendo ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado (ai sensi del terzo comma dell"art.348-ter c.p.c.) può ovviamente soltanto dedurre motivi attinenti a quella decisione e non può quindi far valere censure riguardanti eventuali errores in procedendo commessi dal Giudice d'Appello, posto che per poter conseguire una pronuncia su tali eventuali errori l'unica possibilità sarebbe quella di impugnare il provvedimento che pone termine al procedimento di Appello, ossia l'ordinanza declaratoria dell'inammissibilità dello stesso. Se tale ordinanza non fosse impugnabile non sarebbe perciò in alcun modo sindacabile la decisione che "nega" alla parte il giudizio d'appello.

E' vero che non è previsto alcun diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio di secondo grado inteso come diritto ad un nuovo esame della causa nel merito onde il legislatore ordinario ben avrebbe la possibilità di eliminare completamente il giudizio di appello ovvero di escluderlo in relazione a specifiche controversie ed a cagione delle relative peculiarità o ancora, come nella specie, di prevederne l'inammissibilità sulla base di un giudizio prognostico affidato al Giudice d'Appello nella ricorrenza di determinate circostanze e nel rispetto di una specifica procedura.

In tale ultimo caso, tuttavia, "l'esclusione di ogni possibile controllo sul rispetto di limiti, termini e forme previsti dal legislatore per la decisione prognostica affidata al giudice d'appello equivarrebbe a lasciare al mero arbitrio di quest'ultimo la possibilità che la parte fruisca di un giudizio di secondo grado, in quanto la mancanza di ogni possibile impugnazione - sia pure straordinaria - finirebbe per determinare di fatto l'impossibilità di verificare la correttezza della decisione, e, a fortiori, la "giustificatezza", rispetto a regole date, della disparità di trattamento tra coloro che hanno potuto fruire dell'appello e coloro che non hanno potuto fruirne." (Cass. 1914/2016 cit.).

Rileva la Corte: "Peraltro, lasciare che, senza alcun potenziale controllo, il giudice d'appello resti arbitro di decidere se la parte possa o meno fruire del giudizio di secondo grado potrebbe in prospettiva determinare (anche se allo stato i primi dati sull'applicazione dell'istituto non sembrano avallare questa ipotesi, risultando al contrario uno scarso utilizzo del medesimo) una sorta di incontrollabile soppressione "di fatto" del giudizio d'appello, finendo in pratica per privare le parti di tale impugnazione anche oltre le ipotesi e i limiti previsti dal legislatore e per scaricare sulla Corte di cassazione questioni che (alla stregua della disciplina vigente, non contemplante una generalizzata ricorribilità "per saltum") potrebbero e dovrebbero essere "filtrate" attraverso il giudizio d'appello, mentre la previsione della impugnabilità dell'ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. ne faciliterebbe un utilizzo "fisiologico", evitando possibili arbitrii ed ingiustificate disparità di trattamento.".E ciò senza che in concreto si arrechi un aggravio particolarmente rilevante per la Corte di cassazione.

Nondimeno, rendere "incontrollabile" una decisione che, escludendo la possibilità di esperire un giudizio di secondo grado ha indiscutibilmente la potenzialità di determinare l'esito della lite (o comunque influire in maniera rilevante su di esso) significherebbe sottrarla al fisiologico percorso potenzialmente "correttivo" assicurato attraverso il sistema delle impugnazioni (anche "straordinarie") e consegnare quindi le ragioni della parte che, senza il rispetto delle regole previste, sia stata privata del mezzo di gravame in parola, esclusivamente - concorrendone i presupposti - ad una eventuale azione risarcitoria, tra l'altro con indubbio effetto "moltiplicativo" del contenzioso.

Anche alla luce di tali considerazioni, valutate in riferimento alla particolare realtà processuale delineata dagli artt.348 bis e ter c.p.c., deve dunque ritenersi l'impugnabilità ex art.111 Cost. dell'ordinanza suddetta per vizi propri consistenti in violazione della normativa processuale.

La S.C., riunita in Sez.Un., preso coscienza del fatto che una tale risoluzione interpretativa potesse apparire sostanzialmente una riunione di mere teoria, ha voluto cogliere l"occasione per contemplare anche alcune particolari situazioni processuali in cui il problema si pone e/o si è posto. Infatti, da un lato, occorre rilevare che non tutti gli errores in procedendo astrattamente ipotizzabili con riferimento ad una decisione giurisdizionale sono tuttavia compatibili con la peculiare disciplina introdotta dagli artt. 348 bis e ter citati, e che, d'altro canto, non sempre avverso tali errori il ricorso straordinario si rivela l'unico rimedio esperibile.

Tra gli errores in procedendo denunciabili in relazione all'ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. vengono innanzitutto in rilievo quelli consistenti nel mancato rispetto delle specifiche previsioni rinvenibili nei medesimi artt. 348 bis e ter. A mero titolo di esempio:

- la pronuncia di tale ordinanza oltre il suddetto termine ovvero senza aver sentito le parti;

- violazione art.348-bis, co.2, punto 1: cause in cui è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero, a norma dell'art. 70 c.p.c., comma 1;

- violazione art.348-bis, co.2, punto 2: cause in primo grado che si sono svolte secondo il rito sommario di cognizione;

- violazione art.348-ter, co.2, per cui in presenza di un appello principale e di un appello incidentale, l'ordinanza di inammissibilità è pronunciata a condizione che per entrambe le impugnazioni ricorrano, appunto, "i presupposti di cui all'art. 348 bis, comma 1";

- violazione dei limiti dell"art.348-ter, co.1 (se pronunziata erroneamente con l"ordinanza citata);

- appello fondato su ius superveniens o su fatti sopravvenuti (ad esempio sopravvenienza di norme interpretative, sentenze della corte costituzionale, o fatti che avrebbero legittimato, avverso sentenze pronunciate in appello o unico grado, la denuncia di alcuni vizi revocatori);

- violazione art.112 c.p.c. in relazione ai vizi di omessa pronuncia (intesa come "totale pretermissione del provvedimento"), ultrapetizione ed extrapetizione;

- in generale, ad ogni altro provvedimento giudiziario nei limiti della compatibilità logica e/o strutturale dei medesimi con il contenuto tipico della decisione espressa nell'ordinanza suddetta.




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