-  Comand Carol  -  09/10/2014

IN TEMA DI DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS - Carol COMAND

Parrebbe di qualche interesse una recente sentenza della Corte di cassazione attualmente consultabile presso il sito della medesima, ci si riferisce alla pronuncia della V^ sezione del 29.4 - 23.9.2014, n. 38734.

Da tale provvedimento si apprende che l'imputato è ritenuto responsabile, già nel primo grado di giudizio, del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione al fallimento di una società di persone di cui era socio.

La pronuncia viene confermata dal giudice di appello che, però, considerata diversamente la circostanza aggravante di cui all'art. 219 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, modifica l'entità della relativa pena.

Fra i motivi di ricorso, per quanto d'interesse, l'imputato denuncia l'inosservanza del divieto di reformatio in peius in quanto la Corte di appello, che non ha effettuato il bilanciamento tra le riconosciute circostanze attenuanti e la circostanza de qua similmente al giudice di primo grado, negata alla pluralità dei fatti la natura di aggravante e diminuita la pena per le circostanze attenuanti, aveva solo in seguito applicato un aumento a titolo di continuazione interna, "in assenza di impugnazione del pubblico ministero".

L'art. 219 co. 2, rubricato circostanze aggravanti ed attenuanti, dispone che le pene stabilite per negli artt. 216 (bancarotta fraudolenta patrimoniale, documentale, preferenziale) 217 (bancarotta semplice), 218 (ricorso abusivo al credito) sono aumentate fino alla metà se (n. 1) il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno dei menzionati articoli.

Nell'art. 597, disciplinante il divieto di reformatio in peius, si dispongono al comma 3° (comma di cui, per altro, può anticiparsi, si è recentemente proposta l'abrogazione - nei confronti della quale non si prende decisamene posizione -) alcuni limiti decisori quando appellante sia il solo imputato: al giudice risulta possibile una diversa qualificazione giuridica del fatto, anche più grave pur sempre rimanendo nei limiti della propria competenza, ma non gli è possibile irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l'imputato per una causa meno favorevole, revocare benefici.

Il comma 4° del medesimo articolo dispone, infine, che in ogni caso in cui sia accolto l'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, "la pena complessiva irrogata è corrispettivamente diminuita".

In relazione a quest'ultimo comma in dottrina si è d'altra parte osservato che sia aritmeticamente impossibile "n = (n + p)" ove p sia un numero diverso dallo 0.

Pare significativo, dunque, anche in riferimento all'art. 1 c.p., che la Corte adita abbia preliminarmente fatto chiarezza sulla natura, struttura o funzione della circostanza.

Essa in particolare ha ribadito che plurime condotte tipiche di bancarotta poste in essere nell'ambito del medesimo fallimento, pur mantenendo la propria autonomia ontologica, danno luogo ad un concorso di reati unificati ai soli fini sanzionatori ma ciò, "tale affermazione", solo in riferimento al profilo strutturale.

In quanto (ci si permette di riportare qualche breve stralcio della pronuncia) "per l'attuazione del cumulo giuridico, finalizzato all'unificazione quoad penam di più fatti-reato autonomi e non sovrapponibili fra di loro (c.d. continuazione fallimentare), il legislatore ha fatto ricorso alla categoria giuridica della circostanza aggravante, della quale la circostanza in questione presenta sicuri indici qualificanti" quali il nomen iuris e formula normativa utilizzata per l'individuazione della variazione sanzionatoria, la quale implicherebbe necessariamente l'applicazione dell'art. 64 c.p. .

Da tale qualificazione sul piano formale, se ne deriva che, per quanto la funzione strutturale sia affine a quella della continuazione "la circostanza in parola deve essere trattata alla stregua di ogni altra aggravante" e quindi (escluso che sia soggetta alla disciplina di cui all'art. 63 co. 3), poter rientrare nel giudizio di bilanciamento fra le circostanze (art. 69 c.p.).

Ciò premesso, l'organo giudicante, correttamente non soffermandosi a considerare il diverso caso in cui nel giudizio di appello, l'ipotesi di fatto diversamente circostanziato ritenuto nella sentenza di primo grado, implicherebbe l'operatività di quanto disposto dall'art. 604 co. 2 c.p.p. con conseguente possibilità di giudizio nel merito e facendo uso delle norme relative al giudizio di cassazione, ha ritenuto tale parte dell'impugnazione inammissibile per manifesta infondatezza.

Osservato, infatti, che l'imputato ricorrente non avrebbe avuto ragioni per lamentare una reformatio in peius in realtà insussistente - data l'attenuazione del trattamento sanzionatorio - si ritiene che l'errore nel quale è incorsa la corte di merito non possa essere emendato in questa sede "per mancanza di impugnazione del pubblico ministero".

Parrebbe in conclusione che, nelle pronuncia de quo, la Corte abbia esattamente ritenuto di non poter disporre dell'oggetto dell'impugnazione, rimanendo vincolata a quanto dedotto attraverso i relativi motivi. (c.c.)




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