-  Comand Carol  -  30/09/2014

IN TEMA DI SEQUESTRO PREVENTIVO E PROVA DEL FUMUS - Carol COMAND

L'articolo 321 c.p.p. dispone che quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, sia possibile disporne il sequestro anche prima che sia esercitata l'azione penale.

Tale specie di sequestro prende il nome di sequestro preventivo ed è solitamente adottato per esigenze di prevenzione.

I presupposti per l'adozione di un provvedimento di sequestro contemplati dal primo comma dell'art. 321 c.p.p. individuano quello che viene di norma definito come periculum in mora. Lo stesso articolo, d'altra parte, non contempla il requisito della sussistenza della gravità indiziaria esplicitamente previsto dall'art. 273 co. 1 c.p.p. (recante le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari), ciònonostante, in dottrina, pare pacifico che anche il c.d. fumus commissi delicti del reato debba essere preso in considerazione.

L'art. 273 co. 1, in particolare, prescrive che nessuno possa essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi indizi di colpevolezza.

Da ciò parrebbe discendere che gli indizi relativi all'attribuzione del fatto al presunto reo (almeno a titolo di colpa, ove sufficiente), oltre a dover essere molteplici (certamente più di uno) e gravi (o non meramente ipotetici), data la peculiare formulazione della norma, debbano essere valutati utilizzando il metodo c.d. induttivo (in quello che parrebbe potersi definire come "senso generico").

Fatte queste brevi premesse si prendono in considerazione due recenti sentenze (entrambe relative a fattispecie introdotte o modificate dalla l. 20 luglio 2004, n. 189) che paiono porre in evidenza alcune peculiarità proprio nell'accertamento della sussistenza del c.d. fumus.

La prima è Cass. Pen., sez. III penale, 4.6-16.9.2014, n. 37859 in cui la Corte veniva adita a seguito di rigetto dell'appello avverso il rigetto dell'istanza di revoca relativa al provvedimento di sequestro di una canile rifugio e di un canile sanitario per il reato di abbandono di animali, - detenzione in maniera incompatibile e produttiva di gravi sofferenze - di cui all'art. 727 co. 2 c.p..

Il Tribunale delle libertà respingeva l'appello proposto ponendo in evidenza come "alcun rilievo la difesa avesse mosso circa il sovraffollamento in cui si trovavano gli animali ricoverati nelle strutture in sequestro in numero di 693 unità nel canile rifugio (a fronte di una capienza massima di 200 unità) e in numero di 194 nel canile sanitario (a fronte di una capienza massima di 20 unità)".

Le violazioni rilevate erano relative al numero di cani, alla superficie a disposizione di ciascun animale ed alla totale assenza di un reparto di isolamento.

L'unico motivo di ricorso, formulato ai sensi dell'art. 606 co. 1 lettere b) e c), si duole che il giudice di appello abbia fatto discendere al sussistenza del fumus non da considerazioni obiettive e materiali ma da parametri ricavati da normativa regionale di settore non integrante il precetto penale.

La Corte di Cassazione, ritenendo il ricorso infondato, ha rilevato come nel testo del provvedimento del giudice di appello, ritenuto congruamente motivato, si fosse tenuto conto delle condizioni nelle quali gli animali erano custiditi nonché delle effettuate scelte imprenditoriali. Essa ha inoltre chiarito che la norma incriminatrice è applicabile a prescindere dai parametri che possono essere previsti da una legge regionale ma che l'eclatante violazione di questi ultimi, ben può costituire un solido indizio per integrare il fumus commissi delicti del reato.

Nella seconda pronuncia, Cass. Pen., sez. III, 27.3-29.4.2014 n. 39159 (attualmente consultabile presso il sito della Corte di Cassazione) il decreto di sequestro di cui si è chiesto il riesame a cui è seguito il ricorso in cassazione, riguarda invece alcuni delfini e l'imputazione comprende, oltre all'art. 727 c.p. anche il delitto di cui all'art. 544 ter c.p. (si contestava la collocazione in ambienti inadatti e la somministrazione di sostanze nocive).

Con particolare riferimento a quest'ultimo delitto la difesa lamenta il difetto degli elementi costitutivi del reato per essersi il giudice basato solo su alcune circostanze esposte da personale ministeriale e difetto di motivazione riguardo alla sussistenza dell'elemento soggettivo.

Premessa la necessità, in quanto antecedente logico del provvedimento cautelare, di prendere in considerazione anche le ragioni che conducono a ritenere che il fatto costituisca reato, per quanto concerne l'elemento soggettivo la Corte ritiene che solo ove questo risulti all'evidenza insussistente "potrà essere rilevata l'infondatezza del fumus commissi delicti" e "perchè possa dirsi integrata la fattispecie codicistica è necessaria la volontarietà della condotta lesiva in danno dell'animale ovvero, la volontarietà di una condotta che sottoponga lo stesso animale a sevizie o comportamenti o lavoro o fatiche insopportabili".

Rilevato d'altra parte che anche la semplice collocazione di animali in ambienti inadatti possa ritenersi condotta rilevante sul piano penale, prende in considerazione le prescrizioni (volume d'acqua, caratteristiche della vasca, alimentazione) contenute nel D.M. n. 469/01 relativo alla specie di delfini Tursiops Truncatus e, fra l'altro considera che la difesa nulla deduce riguardo alla situazione di criticità che risulta essere nota alla direzione del delfinario.

Senza che paia necessario distinguere fra il reato ed il delitto addebitati, la Corte si limita dunque ad affermare che ci si trovi innanzi a circostanze in presenza delle quali "correttamente il tribunale ha escluso l'inconfigurabilità ictu oculi del dolo da parte del M. che, nonostante tali informazioni ed avvertenze" avrebbe persistito nel mantenere lo status quo "sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista della salute dei delfini".

Riprendendo le fila di quanto esposto in precedenza, parrebbe possibile osservare, anche avuto riguardo a quanto posto in evidenza, con riferimento al dolo, dalla seconda delle menzionate pronunce, che per la sussistenza del c.d. fumus nel reato de quo il giudice non tanto sia chiamato a valutare le prove di un comportamento difforme da quanto prescritto, quanto a valutare - in assenza di cause di giustificazione - l'incompatibilità di condotte di fatto tenute con il comportamento normalmente richiesto. (c.c.)

 

 

 

 

 




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