-  Redazione P&D  -  16/10/2016

Introduzione ad un volume di scritti guridici minori - Francesco Gazzoni

Due professori di università si incontrano e uno comincia a raccontare all"altro dei suoi successi e dei suoi numerosi impegni accademici. Sono stato chiamato dalla tale facoltà, ho tenuto una Lectio magistralis a Vattelappesca e una conferenza a Zuzzurellonia, sono stato relatore al convegno di Truffopoli dove erano riuniti tutti i professori della materia per decidere i vincitori del prossimo concorso, di cui sono poi stato commissario, e così via in un delirio di autocompiacimento esaltativo. Alla fine dell"elencazione si rivolge all"altro e gli dice: «Ma ora parliamo di te. Ti è piaciuto il mio nuovo libro?».

Il bello della storiella è che il professore che subiva sarebbe potuto essere l"aggressore, se solo fosse riuscito a prendere per primo la parola, perché i professori di università sono, se non tutti, per la stragrande maggioranza presuntuosi e soprattutto vanitosi e spesso palloni gonfiati, sempre in cerca di applausi, in piena crisi narcisistica, come i bambini, che anelano al rassicurante complimento della mamma («Sei il più bravo e il più bello e la mamma ti vuole bene!»).

La categoria dei professori, dunque, ha elaborato talune consuetudini, volte a titillare e accarezzare la presunzione e la vanità. Così è per la Prolusione al corso, che non è una vera prima lezione, ma una chiacchiera su un tema scelto dal professore, al fine di dimostrare la propria bravura. I più raffinati, non contenti, si sono inventati la Lectio magistralis di commiato, che, ad onta della terminologia da funerale, serve all"esaltato, con un passo nel baratro della pensione, di nuovo a straparlare di questo e di quello, al fine di tentare di dimostrare, soprattutto a se stesso, di non essere ancora del tutto rimbecillito.

Vi sono poi gli Scritti in onore, con cui si tenta di mitigare lo sconforto del professore pensionando, cui viene sottratto per sempre il microfono. Quel microfono grazie al quale per anni e anni aveva potuto alla fine della lezione congratularsi con se stesso («Oggi ho fatto una bella lezione!»). La lezione infatti serve ai professori per compiacersi del proprio forbito eloquio e non già per tentare di far comprendere qualcosa agli studenti, i quali non capiscono un bel nulla di quelle elucubrazioni svolte nell"iperuranio.

Ma gli Scritti in onore talvolta si trasformano in Scritti in memoria, perché i contributi, scritti di malavoglia dai colleghi del pensionando, tardano e il pensionando fa a tempo a morire. Senza contare che talvolta la morte anticipa i tempi e l"onorato non è un pensionando, ma uno sfortunato, prematuramente scomparso.

L"apoteosi della vanità narcisistica è poi la concessione al pensionando del titolo di Emerito, su cui mi sono intrattenuto in altra occasione (v. La favola degli omaggi e degli emeriti, in Favole quasi-giuridiche, Key editore).

Vi è infine la consuetudine di pubblicare i c.d. Scritti minori. Il professore, infatti, pensa che i propri saggi e saggetti scritti nel corso degli anni meritino di essere raccolti in un volume, al fine di salvarli da un possibile e non di rado meritato oblio, essendo sparsi qui e là nelle varie riviste.

Un tempo Prolusioni, Lectio magistralis, Scritti in onore, Scritti in memoria, Emeritato e Scritti minori erano riservati ai pochi Maestri, mentre oggigiorno "cani e porci" ottengono i riconoscimenti ed esaltano se stessi in un"orgia autoreferenziale di categoria, senza nessuna vergogna.

Personalmente sono riuscito fino ad oggi ad evitare tutto (specie gli Scritti in memoria!), ma ora cado anch"io, pubblicando i miei Scritti minori. A mia parziale discolpa dirò che avevo un contratto per pubblicarli, insieme ad altri scritti inediti a carattere quasi-giuridico, con uno dei più importanti editori italiani, ma ho chiesto e ottenuto di risolvere consensualmente il contratto, dopo che l"editore voleva escludere gli inediti, che erano quelli che a me stavano a cuore. Degli altri, francamente, non mi importava un bel nulla.

Gli inediti quasi-giuridici sono stati poi trasformati in favole e pubblicati ad iniziativa dell"amico Paolo Cendon, che mi ha ora chiesto di pubblicare anche quelli giuridici. Se ho accettato è perché si tratta di un editore on line, sicché non potrò essere annoverato tra i tantissimi professori che contribuiscono a deforestare l"Amazzonia per procurare carta da sporcare inutilmente di inchiostro.

Si obietterà che il cartaceo è possibile on demand, ma allora la colpa del contributo alla deforestazione sarà di chi lo richiederà e non mia. Ma questi stravaganti saranno quattro (o magari due o tre) gatti, onde, in ogni caso, l"insignificanza del danno.

Resta il fatto che la pubblicazione dei miei scritti minori non ha per me altro senso se non quello di avermi fatto passare un po" di tempo a rileggerli per un controllo finale dopo la scannerizzazione. Dei cinquantatré che sono, ne salvo due o tre o magari, con somma indulgenza, quattro o cinque. Gli altri sono noiosi o superati, senza un filo rosso che li unisca e lasci trapelare un percorso scientifico e soprattutto un pensiero personale, salvo, negli ultimi tempi, il gusto di oppormi alla deriva dei giudici anarchici e legibus soluti.

Il grande Marx (Groucho non Karl) diceva: «Non vorrei mai fare parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me». E allora io dirò che, mutatis mutandis, non vorrei mai fare parte del gruppo di persone che avesse acquistato questo libro.

Comunque sia di ciò, quale sequenza con cui proporre gli scritti all"ipotetico lettore, ho scelto quella dei libri del codice e quindi ho proceduto ratione materiae e non già ratione temporis. Forse ho sbagliato, perché, nel tempo intercorso tra il primo scritto del 1968 e l"ultimo del 2013, il modo di procedere nell"analisi, l"argomentare e soprattutto lo stile si sono modificati e si sarebbe potuto così giudicare se in meglio o in peggio.

Sennonché, per quanto riguarda lo stile, vorrei avvalermi di quel che scriveva Céline. Se lo faccio, ferma restando l"impossibilità di ricondurre lo stile degli scritti giuridici a quello letterario, non è certo perché ritenga paragonabile, pur nella diversità tra diritto e letteratura, il mio abborracciato modo di scrivere, al suo (inconfondibile e purtroppo posto al servizio anche di idee ripugnanti, pur restando uno dei più geniali del "900), ma perché mi sono ritrovato nel suo prendere le distanze dal linguaggio di una certa Accademia.

Scriveva Céline: «Un vero raffinato, raffinato per diritto, per costume, garantito, di solito deve […] sdilinquirsi sulla sfumatura… […] spompinarsi l"aggettivo… cristo! Inculare le mosche, frenetizzare l"insignificante, cinguettare in pompa magna, pavoneggiarsi, chicchirichire ai microfoni… Rivelare i miei "dischi preferiti" … i miei progetti di conferenze… Potrei, potrei certamente diventarlo anch"io, un vero stilista, un accademico "pertinente". È una questione di lavoro, un"applicazione di mesi… forse di anni… Si può ottenere tutto come dice il proverbio spagnolo: "Molta vasellina, tanta pazienza, e l"elefante incula la formica". Ma sono ormai troppo vecchio, troppo incancrenito sulla maledetta strada del raffinamento spontaneo… dopo una dura carriera di "duro tra i duri" per ritornare indietro ora! E andare anche a concorrere per la libera docenza di trine e merletti! Impossibile!».

Trovo inarrivabile, come sempre, il vocabolario di Céline e l"uso che egli fa dei verbi, con i quali potrei descrivere tanti miei colleghi, liberi docenti di trine e merletti, artisti del chicchirichì al microfono, magari con r moscia, che si pavoneggiano, cinguettano in pompa magna e si sdilinquiscono sulla sfumatura, spompinano l"aggettivo e soprattutto frenetizzano l"insignificante.

A differenza di loro, con il mio modo di pensare e di scrivere, per una nota a sentenza sono stato minacciato di querela da due incauti giudici, che hanno preteso la pubblicazione di una loro lettera di protesta, «con la stessa evidenza data alla nota». Ho quindi ritenuto giusto che il mio scritto in replica fosse l"ultimo della serie, perché testimone del mio andare controcorrente, da cane sciolto, refrattario ai modi e al linguaggio curiali.

Ho così costruito una carriera anti-accademica, con conseguente fallimento, sotto questo aspetto, ma non me ne pento ed anzi dirò, con Ennio Flaiano, che «l"insuccesso mi ha dato alla testa».




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