Famiglia, relazioni affettive  -  Redazione P&D  -  25/07/2019

La consulenza tecnica nella determinazione degli affidi: prospettive di genere - E. Reale e V. D'Angelo

1. PREMESSA 

Molti paesi europei, tra cui l'Italia, hanno fatto indubbiamente passi avanti nelle misure per sostenere la parità di genere e l'avanzamento delle donne nell'equa distribuzione degli incarichi dirigenziali e politici (le quote rosa ne sono un esempio); non solo, sono molte anche le Risoluzioni per attuare la parità di genere nell'assistenza, nelle cure, nella prevenzione delle malattie e nella ricerca medica. 

Se questo é il panorama generale, rimane tuttavia un nervo scoperto quello relativo alla condivisione delle responsabilità familiari e alla partecipazione dell'uomo ai carichi di lavoro domestici e di cura. In questo campo, abbiamo solo alcuni segnali positivi come una proposta sul congedo obbligatorio per gli uomini, comunque di diversa entità di quello che spetta alla donna, dove oltre le cure materiali da dispensare, abbiamo un legame psico-biologico da salvaguardare che è il periodo dell'allattamento e della prima relazione di attaccamento del bambino, quella con la madre, nei primi mesi di vita. E’ indubbio che sulla parità di genere molto si è fatto, ma ancora molto c'e da fare, nel campo delle differenze lavorative tra uomo e donna: la parità salariale rispetto a medesimi carichi e funzioni, le progressioni di carriera garantite rispetto agli stessi output produttivi; il sostegno della genitorialità nelle iniziative di supporto alla relazione di cura ( asili nido e quant'altro)1. 

Al di là anche delle pronunce del mondo internazionale (le dichiarazioni e risoluzioni dell'ONU in materia di parità e di violenza contro le donne) e del consiglio d'Europa, con l'emancipazione femminile e l'ingresso nel mondo del lavoro produttivo, le donne hanno sempre richiesto ai partner una condivisione delle cure all'interno della famiglia. Nonostante ciò ad oggi il carico di lavoro familiare è ancora quasi per intero sulle spalle delle donne, tant'è che, nei dati europei sulla condivisione delle cure, l'Italia è maglia nera dell'Europa per il contributo degli uomini al lavoro domestico, e l'Istat segnala nel rapporto del 2014 (confermando i rapporti precedenti se non per lievissimi miglioramenti) che gli uomini svolgono un'ora e mezza di lavoro domestico a giorno, di fronte a 5 volte di lavoro in più delle donne (ma direi, ad esempio, che in queste ore non è stato compreso il raffronto del lavoro notturno con i bambini piccoli!)2 . Inoltre, le donne italiane lavorano più di tutte le altre donne dei paesi europei anche di quelli meridionali come la Spagna. Ciò è l'ovvio contraltare del dato che gli uomini italiani sono quelli che partecipano di meno alla condivisione del lavoro e delle responsabilità domestiche e di cura! 

Il divario di genere aumenta poi quando vi sono i figli, dove diventa più evidente la irrisoria partecipazione maschile al lavoro di cura: " in un’indagine ISTAT del 2006, essere madri, infatti, comporta un consistente incremento delle ore dedicate al lavoro familiare (6h e 47’), che cresce sensibilmente all’aumentare del numero di bambini. I tempi degli uomini, al contrario, non risultano variare in funzione della fase del ciclo di vita in cui si trova la famiglia, e la nascita dei figli coincide, piuttosto, con un maggiore coinvolgimento maschile sul piano lavorativo. Il contributo degli uomini al lavoro domestico e alla cura dei figli è così poco rilevante che, addirittura, l’assenza dei padri (nelle famiglie di madri sole) si traduce in una riduzione del lavoro familiare a carico della donna"3. Nell'ultima indagine Istat le variazioni dei tempi pur indicative di un lieve miglioramento non spostano di molto il problema della differenza marcata di ore dedicate al lavoro di cura tra donne ed uomini : " tra i 25 e i 64 anni le differenze si acuiscono maggiormente: il lavoro familiare rappresenta il 21,7% della giornata media delle donne (5h13'), contro il 7,6% di quella degli uomini (1 ora e 50 minuti)"4. 

Dal punto di vista delle donne ben venga quindi, come alleggerimento di un carico di lavoro, la partecipazione maschile alle cure domestiche e familiari, il fatto è che non vi sono leggi a riguardo che disciplinano questa partecipazione, la quale è affidata alla coppia ed all'apporto volontario degli uomini, partendo dal dato indiscusso che è la donna a partire dalla gravidanza, ad avere e percepire la responsabilità maggiore della cura dei figli. 

Il tema odierno è che oggi su questa realtà della divisione del lavoro domestico, che premia gli uomini e sovraccarica le donne, vanno ad impattare le decisioni del tribunale dei minori, che intendono imporre per sentenza, all'atto di una separazione, i tempi paritari ed una condivisione paritaria delle cure parentali. Questo determina anche - là dove non vi sia una storia di violenza ma solo una storia di non condivisione - uno sconvolgimento della vita di donne e minori. Non si può, attraverso una sentenza, intervenire da un momento all'altro perché cambi tutto nella vita del minore e delle donne fino a quel momento dedicate alla cura dei bambini, per delega dello stato (là dove mancano i servizi) e per mancanza di un lavoro sostenibile e conciliabile, nonché retribuito alla pari degli uomini 5. 

La consulenza sui temi delle controversie per l'affido deve in generale poter tenere insieme tutti gli aspetti di una realtà storica, andando a valutare, nel singolo caso e fino all'atto della separazione, gli oneri della cura sulle spalle di quale elemento della coppia gravavano in misura maggiore; inoltre deve avere come obiettivo, attraverso l’ascolto del minore el’ individuazione delle sue esigenze, quello di non sconvolgere la sua organizzazione vita (best interest del minore), ma di introdurre graduali cambiamenti per modulare tempi e criteri adatti al progressivo inserimento di quel genitore che, fino al momento della separazione, è stato di fatto meno presente o assente nella sua vita. 

2. IL LAVORO DI CURA AL CENTRO DELLA VALUTAZIONE NEI CASI DI CONTENZIOSO PER L'AFFIDO. 

Dopo aver esaminato l'insieme delle proposte di protocolli (Milano, Lazio ecc.) per la guida delle CTU in caso di separazioni e divorzi6, ed aver individuato che tali procedure confliggono in sostanza con quelle procedure previste dall'ordinamento giudiziario in caso di violenza e maltrattamenti sulle donne, abbiamo avviato una riflessione (che riportiamo come base anche di un confronto tra professionisti) che vuole riportare, al centro di ogni tipo di controversia, la consulenza di tipo valutativo e di genere (in modo che sia anche sempre possibile individuare dietro il contenzioso anche la presenza della violenza domestica non dichiarata e non immediatamente visibile) in cui siano ben rappresentati come e da chi dei due genitori i compiti di cura siano stati svolti fino al momento della separazione, 

In rapporto a questo nuovo punto di vista, i presupposti delle linee guida da noi citate ( protocollo di Milano7 e linee guida degli psicologi del Lazio) sono, secondo noi, un ostacolo al corretto rapporto tra consulente tecnico e giudice e, secondo noi, hanno portato ad un inquinamento delle prassi sia giudiziarie sia psicologiche. Da un lato, sempre più psicologi si ergono a giudici, sempre più psicologi colludono con il negazionismo della violenza a causa di questa dannosa teoria del criterio dell'accesso (che è quello di essere garante dell'accesso ai figli da parte dell'altro genitoreposto al centro della valutazione, come chiave di volta per superare la conflittualità di coppia nei contenzioni dell'affido) sempre più psicologi sono additati come 'nemici' di donne e minori; dall'altro lato, sempre più spesso i giudici sembrano appiattiti rispetto ad un sapere tecnico, abbandonando il loro ruolo (peritus peritorum) e il ragionamento giuridico per lasciare il posto ad interpretazioni soggettive, di stampo psicologico, non suffragate da prove e riscontri oggettivi. 

I giudizi sulle donne come madri simbiotiche, pervasive, iperprotettive, alienanti (tutte attribuzioni del materno) che oggi vediamo presiedere nella valutazione di molti consulenti, sono solo pregiudizi rivestiti di abiti pseudo-scientifici. Alla base di tutto ciò troviamo una pratica perversa che è l'intervento psicologico in ambito forense che si è assunto il compito non solo di valutare competenze genitoriali (a cui noi vogliamo aggiungere come parte integrante la valutazione della storia di queste competenze) ma anche di trasformare le relazioni familiari per eliminare la conflittualità, senza diagnosticare le cause della conflittualità e senza intervenire su di esse. 

Ritorniamo quindi ad esaminare le linee guida degli psicologi del Lazio che racchiudono i criteri di impostazione delle CTU nell'ascolto del minore e che ci riportano allo scenario di una consulenza non solo valutativa ma anche trasformativa:"Non esistono procedure codificate, ma esistono “prassi virtuose”, in quanto rispondono sia all’obiettivo del contesto giuridico-valutativo, che a quello clinico-trasformativo"8. 

E ancora di più, si precisa nel passo successivo la vocazione in sede forense ad intervenite anche con una psicoterapia che metta mano ai vissuti profondi dei periziandi; vissuti che non possono in alcun modo essere oggetto di interventi in campo giudiziario e che devono rimanere solo esclusivamente legati al contesto clinico ed al rapporto duale con il paziente: "Come CTU, quindi, riteniamo che dobbiamo occuparci del diritto alla salute emotiva dei minori, proponendo un modello di integrazione dei diversi tipi di intervento e una 'presa in cura' che facendo 'lavorare' i genitori, pone il bambino al centro dell’intervento terapeutico, per non essere limitati al semplice ruolo di supporto alle strutture giudiziarie, attraverso interventi valutativi e di protezione o attraverso gli incontri assistiti. Gli incontri protetti, anche se hanno l’obiettivo di riavvicinare il bambino al genitore rifiutato, rischiano di essere insufficienti rispetto ai livelli più profondi che sono in gioco e la cui risoluzione rappresenta la conditio sine qua non del riavvicinamento relazionale"9.

Riportiamo poi nel riquadro altri elementi salienti delle linee guida degli psicologi del Lazio, che costituiscono a parer nostro un modo per sostituirsi del tutto al giudice; ciò avviene, ovvero quando i punti di vista dei genitori sul minore sono configgenti e gli psicologi si propongono come risolutori del contrasto, là dove sarebbe invece necessario l'apporto del giudice, con il suo bagaglio formativo e strumentale del ricorso a testimonianze e prove, per discernere quale dei due punti di vista si avvicini maggiormente alla realtà dei fatti ( e non solo dei vissuti) e quindi anche all'interesse del minore. Così si passa da un procedimento giudiziario, che si basa sull'analisi dei fatti e delle prove, ad un altro in cui i fatti sono interpretati e presentati al giudice in un'altra veste e cornice in modo da rendergli impossibile una personale visione ed opinione; da qui l'adeguamento sempre più frequente del giudice, incapace ad orizzontarsi in un contesto diverso da quello giudiziario, alle ipotesi ed indicazioni dei CTU. Come esempio vogliamo portare l'ultimo caso, quello di Padova (sentenza del 7.6.18, tribunale monocratico): un uomo condannato per maltrattamenti e violenze sulla partner, vede ribaltata la sua posizione attraverso una CTU che, nel tribunale civile, reinterpreta i fatti come narrati dai due periziandi in qualità di genitori, e che, capovolgendo le responsabilità e quanto accertato nel giudizio penale, attribuisce all'uomo l'affido esclusivo dei due minori. 

pastedGraphic.pngDalle linee guida: "Quando invece non c’è accordo, i genitori assumono una posizione potenzialmente configgente e non sempre in grado di garantire l’interesse del figlio per cui la "conoscenza" della volontà del minore deve essere attuata attraverso l’ascolto in quanto il genitore non può più dirsi, per previsione di legge, il legittimo sostituto processuale. Infatti, la rappresentazione delle esigenze del minore che ciascuno dei genitori dà nel corso del processo (specie in occasione dell’emanazione dei provvedimenti d’urgenza in sede presidenziale) non può essere accolta dal giudice, così come da essi espressa, soprattutto se le versioni proposte dai due genitori sono contrastanti e se siamo in presenza di una forte conflittualità come spesso accade. Le soluzioni contrapposte presentate al giudice possono essere poco attendibili o in contrasto con l’interesse del minore e non idonee ad un suo corretto sviluppo psicofisico. Ad esempio, divisione dei fratelli, modalità di permanenza del figlio con l’uno o l’altro dei genitori, organizzazione residenziale e ambientale, progetti educativi. Ricordiamo infine che il lavoro cui il ctu è chiamato a svolgere in questi casi si situa tra un contesto di tipo giudiziario/ valutativo, costituito dal giudice, le parti in causa e i loro rappresentati, ed uno di tipo trasformativo/clinico composto dagli ex coniugi/genitori e dal minore. L’obiettivo “clinico” è quello di evitare la cristallizzazione del conflitto, principale fattore di rischio per i figli di genitori separati e “fornire un senso alla vicenda familiare”. Attraverso i quesiti posti al consulente il giudice può non solo avere 'una fotografia' di quelli che sono i rapporti tra minore e ciascuno dei genitori, delle caratteristiche di personalità di questi ultimi ma anche delle indicazioni in merito alle migliori modalità di collocazione e frequentazione dei due genitori da parte del minore stesso. Soprattutto sembra utile che il Ctu valorizzi le competenze dell’uno e dell’altro genitore e individui gli interventi psicosociali da suggerire per facilitare la riorganizzazione delle relazioni familiari"10. 

Ancora: "Un simile obiettivo non può, evidentemente, essere raggiunto tramite una consulenza 'fotografia', ma necessita di un altro modo di impostare il lavoro del CTU: si è così passati a una consulenza trasformativa, diretta a far prendere coscienza di, e possibilmente a tentare di modificare, quegli elementi che ostacolano una genitorialità serena e condivisa" 

E ancora, si prospetta l'ingresso in consulenza anche dell'analisi del materiale onirico! 

"È evidente, quindi, che i sogni non possono certo aiutare a scoprire la “verità” dei comportamenti allegati dalle parti, che si rinfacciano una serie di offese e di ferite; possono però aiutarci a collocare la vicenda esteriore sullo sfondo dei vissuti interni e delle dinamiche intrapsichiche. 

L’utilizzazione del materiale onirico, quindi, è molto utile in sede peritale in quanto consente di formarsi un quadro molto più dettagliato della situazione, aiutando il consulente a comprendere l’impatto sul mondo interiore degli eventi verificatisi nella battaglia giudiziaria; tale valutazione permette inoltre di capire 'che cosa ' sia possibile chiedere alle parti e cosa invece le parti non possano tollerare, o possano tollerare solo godendone masochisticamente, nel senso della collusione”11. 

Introdurre il materiale onirico in una consulenza forense è decretare la morte del procedimento giudiziario e del diritto! 

Con l'aiuto della lettura di queste linee guida, ci siamo formati l'opinione che la prospettiva clinico trasformativa delle consulenze inaugurata in Italia a partire dagli anni duemila, abbia invaso le aule giudiziarie con una prospettiva psico-centrica che:
a) non si addice al contesto della giustizia, che deve rimanere ancorato ai fatti ed alle prove; 

b) non risponde neanche ai criteri di una corretta prospettiva clinica.
Si è passati dalla valutazione dei comportamenti alla valutazione dei non detto, dei vissuti, dell'inconscio, ed altro, che erano oggetto esclusivi del rapporto duale tecnico-paziente con l'obiettivo personale di una presa di coscienza individuale senza ricadute giudiziarie. In ambito giudiziario l'obiettivo della presa di coscienza dei propri stati emotivi interni o dei conflitti intrapsichici diventa induzione all'auto-accusa, mortificazione, colpevolizzazione, una sorta di gogna giudiziaria, ma anche travisamento costante e pericoloso del piano della realtà e dei fatti realmente accaduti. 

"La medicina e le sue consorelle (psicologia e psichiatria) stabiliscono sempre un rapporto duale, dove il committente è sempre uno, un solo paziente alla volta senza interposizioni di terzi, neanche dei familiari (solo quando vi è un minore si fa riferimento all'adulto responsabile della cura), perché queste interposizioni risulterebbero fuorvianti sia a livello della comprensione e valutazione diagnostica del disagio individuale, sia a livello della definizione della cura. Immaginiamo possibile forse che un paziente con disturbo cardiovascolare possa essere intervistato sui suoi sintomi e difficoltà non direttamente ma attraverso un terzo che garantisca più oggettività nel riferire e rappresentare i segnali del suo disagio? Non sarebbe possibile. Soggettività ed oggettività in medicina per molti versi coincidono ed anche i vari test diagnostici se non sono riportati al quadro clinico generale, anche soggettivamente percepito, risultano inefficaci alla comprensione dello stato individuale di una malattia/disagio. 

In sintesi la funzione di diagnosi e cura delle scienze umane ha valore in rapporto alla relazione diretta con il paziente; ogni deviazione da questo rapporto altera la funzione ma anche i costrutti scientifici di queste scienze, creando le premesse per distorsioni concettuali, errori valutativi, sotto o sopravalutazioni, ma soprattutto aprendo le porte a pregiudizi personali. 

Quando si chiedono alle scienze cose diverse dalla loro mission si ha come effetto una serie di forzature nei loro costrutti, teorie e procedure tecniche.
Nei procedimenti tipici della decisione sulle modalità dell'affido pesa la mancanza di regole proprie del mondo giudiziario e la delega agli psicologi presunti interpreti di una scienza che garantisca le scelte di cui il mondo giudiziario non vuole assumersi la responsabilità, ritenendo (e sbagliando in ciò) che la valutazione delle relazioni intime debba essere sottratta alla ordinarietà delle procedure per quanto riguarda aspetti come la violenza e l'abuso, ecc.. 

La responsabilità di diagnosticare i comportamenti reati (penale) o inappropriati al ruolo genitoriale (civile) spetta al mondo giudiziario, lo psicologo può fare solo in certe circostanze da mediatore nel processo che vede la relazione tra giudice e singolo individuo a partire dal rendere più comprensibile la posizione/testimonianza di un singolo attore del procedimento, adulto o minore che sia.
In sostanza lo psicologo non potrà mai avere un ruolo super-partes nei procedimenti civili dell'affido o nei procedimenti penali (per districare il rapporto tra autore di un crimine e persona offesa quando la relazione sia intima), perché non può rappresentare contemporaneamente sul piano intra-psichico e motivazionale più soggettività che sono in conflitto di interesse tra di loro. Questo è il ruolo proprio del giudice e della giustizia. 

Non solo questo non è il ruolo dello psicologo ma lo psicologo non ha gli strumenti per fare ciò: infatti gli strumenti della sua scienza, ripetiamo, sono appropriati nella relazione con il paziente, e nella valutazione che riguarda la salute del singolo e la costellazione del suo mondo interno, ma divengono inappropriati e al minimo confusivi quando applicati ad altre condizioni, come ad esempio il campo degli accertamenti fattuali, proprio del procedimento giudiziario sia penale che civile"12. 

Una prospettiva clinica è, come dice l'APA, ancorata al punto di vista di una persona singola, il committente , e non può assumere un punto di vista contemporaneamente centrato su più persone13. Infatti si assiste generalmente, in queste consulenze di tipo clinico-trasformativo, al posizionamento di fatto del consulente su uno dei periziandi adulti venendo perciò meno al criterio giuridico della imparzialità e neutralità. Inoltre frequentemente il posizionamento del consulente avviene sulla figura paterna, nell'intento di ripianare la storica diseguaglianza nel lavoro di cura; diseguaglianza che non può essere ripianata con una sentenza, e per di più quando la coppia si separa, ma che dovrebbe prevedere a monte misure di sostegno ed educazione alla paternità. 

Infine, nell'ottica trasformativa, bisogna avere un progetto, una finalità verso cui orientarsi e se la finalità è la condivisione genitoriale, questo fine trasformativo annullerà le difficoltà, negherà valore agli ostacoli di qualunque natura essi siano, e verrà meno al compito principale di riferire al giudice le attuali condizioni della separazione e le posizioni ed i rischi presenti per il minore che certo non possono essere superati da un intervento clinico (per altro di tipo coattivo, contravvenendo all'articolo 32 della Costituzione) in corso di consulenza. 

Inoltre, si assiste ad un perdurare semi infinito di tale consulenze (alcune durano anche un anno, con un ingente impiego di risorse economiche spesso private e spesso ingenti ed anche con ingiusti profitti) nella pretesa appunto di consegnare al giudice un prodotto, non solo valutato, ma anche trasformato andando contro le regole dello stesso codice deontologico degli psicologi che impone che siano diversificate le competenze valutativo-forensi dalle competenze clinico-trasformative (terapeutiche). 

Il giudice poi in questa tipologia di consulenza sarà informato solo sulle resistenze opposte all'intervento trasformativo, il che non costituisce la base del best interest del minore, su cui deve pronunciarsi una sentenza di affido. 

La Malagoli Togliatti parla ad esempio di una procedura che è divenuta modalità corrente delle CTU nei termini seguenti: "La procedura ltpc (Lausanne Trilogue Play clinico) consente di orientare il clinico rispetto ad eventuali interventi da effettuare successivamente alla consulenza tecnica d’ufficio. In tal senso il ltpc crea un continuum tra giudizio e intervento di sostegno, all’interno di una consulenza clinico trasformativa, basata su una visione evolutiva del processo di separazione. L’obiettivo è di aiutare i genitori a trovare modalità relazionali ed educative non competitive e contrapposte, che garantiscano al figlio un senso di coerenza e continuità tra i due mondi"14 

Passano in questo modo in secondo piano la realtà dei fatti ed i comportamenti degli adulti e del minore, ha valore solo la capacità del CTU di trasformare (in un tempo dilatato della valutazione) i modi di vedere e di pensare dei genitori.
Appare chiaro che una consulenza che diventa intervento terapeutico trasformativo pre- formato in una unica direzione (l'azzeramento del contrasto), non può che condurre inevitabilmente a occultare gli ostacoli reali e ( anche nel caso) insuperabili alla bi-genitorialità e di negare valore alla base storica dell'evoluzione delle cure parentali nella coppia fino alla separazione. 

Abbiamo assistito in questi anni ad un travisamento del percorso giudiziario nelle aule del tribunale civile, e ad una delega dei giudici ai tecnici. E' il momento invece di fare un passo indietro da parte dei professionisti; essi devono riassumere separatamente le due vesti di valutatori da un lato e dall'altro di terapeuti, a secondo delle loro specifiche competenze e del contesto in cui sono chiamati a svolgere la loro funzione. 

E' secondo noi distruttiva l'esperienza di unire le due finalità e le due mission; appare a questo riguardo anche sottostimato o non considerato il richiamo deontologico agli psicologi in veste di CTP e CTU a non svolgere contemporaneamente funzioni terapeutiche perché ciò costituirebbe una sovrapposizione di funzioni e ruoli con un probabile conflitto di interesse (come ad esempio assumere la doppia veste di CTU e di terapeuta/mediatore della famiglia). 

Questo accentramento di competenze dei CTU ha portato ad uno sviamento del potere della consulenza che è entrata invasivamente nella vita delle persone ma soprattutto nella vita delle madri: da un lato, a sviscerare i vissuti ed i desideri che sottostanno ai comportamenti di cura, e trovando nelle pieghe di questi vissuti la mancanza di fiducia verso l'altro ( il partner); dall'altro, a sostenere un futuribile desiderio (e non ancora dimostrato come competente) del padre di essere in relazione con il figlio alla stregua della madre. 

Ma in un qualsiasi concorso fondato sulle competenze daremmo forse un posto a chi le competenze non le ha o non le ha mai sperimentate e promette solo di acquisirle in futuro? A ciò aggiungiamo a questa contrapposizione di competenze alla cura, tra madre e padre, il peso preponderante della volontà del bambino (di quello che è stato ed è oggetto di cure), che facciamo se la sua volontà oggi è quella di stare con chi lo fa sentire più sicuro o che ha mostrato in pratica maggiore competenza alla relazione con lui? Non lo dovremmo forse ascoltare e seguire nel suo desiderio e poi provare a tastare nel tempo futuro se il padre è in grado di guadagnarsi e meritarsi la fiducia che oggi il bambino non gli accorda? 

A questo ragionamento che vale erga omnes si aggiunge il discorso sulle situazioni in cui oltre la valutazione della cura e della competenza alla cura, vi sono comportamenti che si qualificano come un vero e proprio maltrattamento sulla donna e sui minori, che rischiano di rimanere sempre sotto traccia con metodologie in cui si presume di poter trasformare sempre, in modo onnipotente, i dati di partenza, senza sentire il dovere di fare i conti con la storia pregressa della coppia in tema di comportamenti e competenze parentali.

3 APPROPRIATEZZA DEI PERCORSI VALUTATIVI: RIPARTIRE DALLA MONOGENITORIALITÀ FEMMINILE (DATO DI FATTO STORICO PRESENTE NELLA REALTÀ ITALIANA) 

Quando parliamo di mono-genitorialità di fatto nella vita della coppia, parliamo di situazioni in cui il padre (nella tradizionale divisione dei ruoli) ha lasciato alla madre il ruolo di occuparsi della casa e dei figli, conciliando (quando possibile) i tempi della cura dei figli con i tempi del lavoro esterno o meno. In ogni caso, per motivi biologici non superabili o negabili, e poi per motivi sociali, le donne hanno accumulato all'atto della separazione maggiori competenze nella cura dei bambini e maggiori competenze nella relazione empatica che è un elemento imprescindibile della cura in generale. 

La mono-genitorialità di fatto delle donne - sia lavoratrici sia casalinghe - ha portato in molti casi ad un rapporto preferenziale da parte del bambino che si sente più sicuro, maggiormente accudito e compreso nelle sue esigenze dalla madre. Si assiste, in questi casi, ad una grottesca distorsione della realtà. E' grottesco parlare di questa realtà di fatto etichettando le madri come “madri simbiotiche”, iper-presenti nella vita dei figli, ma di fatto non si guarda e non si analizza il loro lavoro di cura comprensivo del lavoro di supporto alla socializzazione ed all'integrazione socio-scolastica del minore. Basterebbe guardare a questi fattori per far decadere il giudizio di madre simbiotica che si attaglia ad una madre che impedisce al proprio figlio di crescere lontano de lei, con gravi turbe del comportamento altrove visibili e testimoniabili per terze persone (insegnanti ad esempio). 

Questa in genere la realtà all'atto di una separazione in Italia, ne fanno fede - al livello socio economico - le posizioni delle donne situate nella parte più bassa dei livelli occupazionali e salariali, nonché i dati sulla divisione di genere del lavoro domestico. 

Se questo è il dato di partenza non si può, all'atto della separazione, azzerare tutto e fare come se prima non vi fosse stato nulla. Già da tempo la Corte di Cassazione ha indicato la strada maestra sia ai giudici sia ai consulenti per valutare le modalità dell'affido secondo quanto avveniva prima della separazione. E tale criterio è secondo noi la base per una valutazione corretta dei diritti dei bambini e degli adulti nelle statuizioni del'affido. 

"In tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell'esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell'unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità a un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione"15. 

La valutazione dei consulenti quando chiamati in questioni conflittuali (senza emersione di violenza, o con una violenza sotto traccia) potrà essere centrata sull'analisi della storia passata della famiglia con la statuizione delle competenze genitoriali fin lì raggiunte da cui derivano anche diverse forme di attaccamento del bambino. 

Il consulente in una situazione in cui la storia indica il legame preferenziale del figlio con la madre, potrà ipotizzare per il padre, se fino a quel momento poco presente nella vita del figlio (ma desideroso di instaurare da quel momento in poi una relazione autonoma ed autentica con un graduale inserimento nella sua vita), la realizzazione di un percorso minimo di educazione alla cura con al centro la possibilità di porsi dal punto di vista delle esigenze dell'altro. 

L'inserimento del padre, se assente o poco presente fino a quel momento, non dovrà essere mai imposto al bambino e mai forzato, perché la prima qualità di un genitore è capire che se il bambino si oppone al desiderio di un adulto, sarà l'adulto a dover fare un passo indietro ed a modularsi sulle esigenze del figlio; si può stare ad esempio con il figlio anche accompagnandolo nelle sue attività abituali come lo sport o altro e non 'sequestrandolo' presso di sé per attività che interessano l'adulto, o solo per perequare i tempi trascorsi con la madre. 

Sulla perequazione dei tempi di vita del minore, vista come realizzazione della bi-genitorialità perfetta, si è da ultimo anche espresso il nostro ordine degli psicologi con una posizione che condividiamo pienamente: " ....(In) considerazione dell'’età del minore, si trascura il fatto che la collocazione perfettamente simmetrica nei tempi e nei luoghi del minore può determinare alterazione del regolare processo di sviluppo emotivo, sociale, e soprattutto cognitivo, con oggettivo rischio di danno a carico del minore. Il luogo prevalente di vita del minore, soprattutto in età infantile, deve essere uno ed uno solo, unico e privilegiato. L’interferenza dell’ambiente sul regolare processo di sviluppo del minore è ampiamente dimostrata dalla letteratura scientifica, al punto da influenzarne la salute"16. 

La perequazione perfetta dei tempi non può essere imposta per sentenza, ma deve discendere da accordi dei genitori che hanno condizioni di vita che non creano separazioni e brusche interruzioni nello stile di vita del minore, da ogni punto di vista, dall'ambiente fisico a quello socio-relazionale. La consulenza e le decisioni sull'affido non devono stravolgere la vita del bambino ma garantire che siano mantenuti, per quanto possibile, i legami con il contesto abituale di vita; all'interno di questo contesto (nel quale il minore è allocato senza danni attuali per il suo sviluppo) vanno poi pensati e definiti i contatti con il padre (che si assume di preferenza come genitore meno presente) che non devono essere calati dall'alto ed imposti fino a far deragliare lo stile di vita del minore ed infliggere a lui, anello debole della separazione dei genitori, i costi psicologici più elevati. 

In questo contesto di centralità dell'assetto di vita del minore fino all'atto di una separazione, la valutazione tecnica sul migliore affido potrà essere orientata a:
- definire i termini delle diverse posizioni dei genitori in relazione alla storia del legame familiare: 

 la competenza materna e la sua storia, da un lato e dall'altro la competenza paterna con la sua storia;

 il desiderio paterno di essere più presente nella vita del minore diversamente da prima. Il genitore che intende far valere il proprio diritto ad ampliare la sfera dei contatti con il minore deve essere aiutato a comprendere che non può agire questo diritto contro le esigenze del bambino (che ha avuto come figura di riferimento al madre fino a quel momento e deve poter essere condotto ad avere fiducia del padre) e che deve adottare attraverso congrui comportamenti paterni prima di tutto rispettosi della volontà del minore;

 l'allocazione attuale (con la storia della loro costruzione) delle risorse economiche della famiglia (per un eventuale progetto di redistribuzione) se ad esempio la madre, dedicata alle attività di cura, non ha visto crescere il proprio patrimonio personale venendosi così a trovare in una condizione oggettiva di dipendenza dall'ex-partner;

- rappresentare le competenze genitoriali, ponendo al centro il CRITERIO DELL'ASOLTO del bambino e dell'EMPATIA rispetto ai suoi bisogni e desideri;
- rappresentare la storia del bambino nel suo sviluppo socio-relazionale, fino al momento della separazione; 

- rappresentare il punto di vista del bambino sulla sua posizione nel nuovo assetto familiare;
- delineare quindi un contesto di affido che non si discosti eccessivamente dal precedente in modo da non alterare il ritmo di vita del bambino e (con questo limite) tenere in conto le esigenze ed i diritti del genitore (lavoro, nuova residenza, casa impegni ecc. ecc,) presso cui il minore non è collocato;
- rifuggire da proposte e soluzioni orientate a modifiche forzose dell'assetto di vita del bambino. 

In conclusione riteniamo, sulla base delle evidenze scientifiche nazionali ed internazionali, che le consulenze tecniche di ufficio, nei casi di affidamento di figli minori, debbano necessariamente tener conto di una prospettiva di genere che valuti il lavoro di cura prima della separazione, mettendo al centro (se non vi sono ostacoli alla condivisione delle cure parentali) l'assetto di vita precedente del bambino e le sue esigenze di stabilità; ponendo poi in secondo piano le esigenze degli adulti che vanno strutturate ed inserite nella vita del bambino con misure graduali di cambiamento senza esercitare forzature e pressioni traumatiche. 

Ciò significa stabilire un modus operandi dei consulenti stessi che, partendo da un’ottica di tipo valutativo e non trasformativo, possa delineare il tipo di lavoro di cura svolto fino a quel momento nei confronti della prole, la divisione di ruoli e la divisione di responsabilità tra la madre e il padre, con la definizione di eventuali profili di sovraccarico per la donna e di disimpegno del padre. 

In quest’ottica, sebbene il momento storico nei tribunali porti all’accettazione acritica e indiscussa del principio della bi-genitorialità, la realtà socio-culturale del nostro paese indica di fatto una mono-genitorialità (nella coppia non ancora separata) di stampo materno caratterizzante la maggior parte dei nuclei familiari italiani. 

Inoltre, l’ascolto del minore, laddove non sussista accordo tra i due genitori, diventa il criterio centrale per stabilire con chi il minore vuole risiedere ed in che modo la presenza dell'altro genitore (accettata e desiderata o al contrario rifiutata) debba essere modulata per non creare traumi aggiuntivi (a quelli che tutti presumano comporti la separazione tra genitori). 

Si tratta, in definitiva, di ribaltare i criteri fin ora utilizzati nelle consulenze: al centro non va posto il diritto alla bigenitorialità dell’adulto con le sue esigenze di rapporto con il figlio, ma il diritto del bambino all’ascolto dei suoi reali bisogni e, conseguentemente, alla definizione di tempi e modi di frequentazione del genitore non collocatario; tempi e modi che siano realmente rispettosi di tali bisogni e non orientati ad uno sconvolgimento del suo assetto di vita. 


1 E. Reale, A proposito delle Linee guida del Tribunale di Brindisi, Sezione Famiglia, in tema di affido condiviso e residenza alternata: una rilettura della Risoluzione del Consiglio d'Europa N. 2079 del 2 ottobre 2015. Persona e danno, 4.4.2017, Key editore.

2 confronta: E. Reale, U. Carbone (2009) il genere nel lavoro, Franco angeli, pag. 24 e segg. 

3 Ibidem, pag. 26

4 Istat (2016) I tempi della vita quotidiana

5 Istat (2015) "una donna su tre lascia l'impiego dopo avere avuto un figlio, succede al 30% delle madri e quasi a una su quattro delle under 65 (rispetto al 3% degli uomini).mentre tra le pensioni “rosa”, il 52,8% è sotto i mille euro": Audizione parlamentare di Linda Laura Sabbadini " Indagine conoscitiva sull’impatto in termini di genere della normativa previdenziale e sulle disparità esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne"

6 E. Reale e V. D'Angelo, Valutazione critica degli attuali protocolli esistenti in tema di consulenze psicologiche e controversie sull'affido dei minori, Persona e danno, 16/7/ 2019, Key editore.

7 Il protocollo di Milano nasce nel 2012 a margine di un convegno Verso un protocollo per l'affidamento dei figli. Contributi psico-forensi - tenutosi a Milano il 16 e il 17 marzo 2012, organizzato dalla Fondazione Guglielmo Gulotta, dall'Ordine degli Avvocati di Milano e dall'AIAF Lombardia

8 Ordine degli psicologi del Lazio (2012) Linee Guida per l'ascolto del minore nelle separazioni e divorzi, Malagoli Togliatti, lavadera, Capri, Rossi, Crescenzo ( a cura di) 

9 M. Malagoli Togliatti, A. Lubrano Lavadera, A. Ascolto dei minori, rifiuti e procedure. Editoriale 1Psicologia & Giustizia Anno XVI, numero 2 Luglio – Dicembre 2015 

10 Malagoli Togliatti et al: Le linee guida per l'ascolto del minore nelle separazioni e nei divorzi, Ordine degli Psicologi del Lazio, pag. 33

11 Verde e Passoni, la consulenza tecnica di parte nelle cause di separazione e divorzio fra psicologia forense e psicologia clinica, Psichiatria e psicologia forense , Rassegna italiana di criminologia, anno III, n. 3 , 2009 5

12 A. Mazzeo - E. Reale - M. S. Pignotti (2016) La manipolazione del processo attraverso le perizie - Trib. Cosenza, 

29/7/2015, in "Questioni di famiglia", Maggioli editore


13 codice deontologico APA: Principio E (rispetto dei diritti delle persone); (codice etico 3.05; 3.10) 

14 Malagoli Togliatti et al: Le linee guida per l'ascolto del minore nelle separazioni e nei divorzi, Ordine degli Psicologi del Lazio

15 Cassazione civile, sez. I,n° 31902 del 10 novembre 2018

16 CNOP, Parere in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bi-genitorialità, Roma, 7 febbraio 2019 


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