Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  12/03/2022

La Corte EDU condanna l’Italia per il mancato sostegno alle madri vittime di violenza domestica – Cedu, sez. I, 20 gennaio 2022 (n. 60083/19) – considerazioni sulla c.d. vittimizzazione secondaria - Chiara Bevilacqua

Sommario: 1. Incipit – 2. La vicenda giudiziaria – 3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte EDU – 4. Considerazioni sulla c.d. vittimizzazione secondaria

1. Incipit

Lo scorso 20 gennaio l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per violazione dell’art. 8 della CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare), avendo dichiarato una minore adottabile, senza prendere in considerazione altre soluzioni, meno drastiche, che avrebbero permesso di salvaguardare il suo rapporto con la madre, vittima di gravi maltrattamenti in famiglia. La sentenza si segnala per avere affrontato con ampiezza il tema della c.d. «vittimizzazione secondaria», ossia delle conseguenze negative, ulteriori rispetto alla commissione del reato, che la vittima può subire quale conseguenza indiretta della commissione del reato nei suoi confronti.

2. La vicenda giudiziaria

Il caso sottoposto all’attenzione della CEDU trae origine dal ricorso contro l’Italia, presentato da una donna, cittadina cubana, che agisce anche per conto della figlia. La donna ha anche altri due figli nati dal suo primo matrimonio e che vivono con i nonni. La figlia è nata da una relazione con Tizio terminata nel 2014. La ricorrente aveva chiesto assistenza motivata ai servizi sociali, denunciando di essere stata abusata da Tizio. Successivamente, la Procura della Repubblica avviava un procedimento nell’interesse della minore al termine del quale veniva disposto il collocamento della bambina e della madre dapprima presso una famiglia affidataria a Brescia e poi, dopo un anno, presso una casa-famiglia.

Grazie alle opportunità fornite dalla struttura, la ricorrente aveva trovato un lavoro a tempo indeterminato come addetta alle pulizie in una struttura alberghiera, riuscendo a rendersi economicamente indipendente e, nel giro di due anni, a separarsi definitivamente dal compagno violento. Qualche tempo dopo, aveva intrapreso una nuova relazione con un uomo, che sposò nel 2018 e dal quale ebbe un figlio.

Nel frattempo, nell’agosto 2014 la Procura della Repubblica invitava il Tribunale a valutare a capacità genitoriale dei due genitori, ordinando che la minore venisse «presa in carico».

Nel settembre 2015 la Procura della Repubblica chiedeva la sospensione della responsabilità genitoriale della madre, l'apertura di una procedura di adozione e il collocamento della minore in una famiglia affidataria. Nel dicembre 2015, con provvedimento immediatamente esecutivo, il Tribunale dichiarava la minore in stato di adottabilità ordinando che la bambina venisse affidata a una coppia in attesa della sua adozione considerando che la situazione era irreversibile. La decisione era basata sulle (sole) relazioni degli assistenti sociali, che avevano avuto modo di ‘valutare’ la madre e la minore all’interno della casa-famiglia.

La Corte d'Appello di Brescia respingeva il ricorso avanzato dalla madre e confermava la sentenza di primo grado. I giudici sottolineavano che anche se era possibile che la coppia potesse recuperare la capacità genitoriale in futuro, era tuttavia preferibile, nell'interesse immediato della minore, dichiararla in stato di adottabilità. 

Con sentenza del 12 febbraio 2019, depositata in cancelleria il 7 maggio 2019, la Corte di Cassazione respingeva il ricorso in quanto, pur dichiarando che la dichiarazione di stato di adottabilità non aveva tenuto conto della richiesta di perizia relativa alle capacità genitoriali della coppia, tale dichiarazione non poteva dirsi illegittima in quanto non vi era stata «assoluta mancanza di motivazione» nella sentenza in questione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che i giudici avessero indicato i motivi per respingere la richiesta di perizia, affermando che vi era stato un «lungo periodo di osservazione del comportamento di entrambi i genitori», che il ragionamento era stato «autonomo» e che si era basato su un'indagine preliminare completa.

Le ricorrenti (madre e figlia) sostenevano che le ragioni addotte dai giudici nazionali per dichiarare lo stato di adottabilità della minore non corrispondevano alle «circostanze del tutto eccezionali» richieste per recidere i legami familiari.

3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte EDU

La Corte Europea, investita della questione, ravvisa in quelle decisioni una intromissione non giustificata nella vita privata della famiglia e condanna pertanto l’Italia, ricordando che il rapporto tra madre e figlio è fondamentale per il corretto sviluppo psico-fisico del minore e, per questo, deve essere sempre tutelato, salvo che la rottura di tale relazione non sia indispensabile nell’interesse del minore stesso. Ciò posto, si sottolinea che, in caso di difficoltà all’interno della famiglia, l’Autorità pubblica ha il dovere di intervenire ma solo per favorire, se e appena possibile, il ricongiungimento familiare, che può essere interrotto solo in presenza di circostanze eccezionali. Secondo la Corte, nella vicenda in esame le Autorità nazionali si erano invece limitate a individuare le difficoltà della madre nel prendersi cura della figlia – dovute verosimilmente alla violenza domestica da lei subita e da cui, peraltro, con grande sforzo e coraggio era riuscita a sganciarsi, ricostruendosi una vita – senza però aiutarla a superarle, con un sostegno mirato a colmare le sue fragilità.

In particolare, secondo la Corte, nel caso concreto è mancata da parte dei giudici una «évaluation sérieuse et attentive de la capacité de la première requérante à exercer son rôle de parent»: anziché ricorrere a ogni strumento processuale a disposizione per valutare il migliore interesse della minore, era stato fatto unicamente e acriticamente riferimento alle relazioni dei servizi sociali, nelle quali erano tra l’altro presenti valutazioni che prescindevano dalla capacità della donna di essere una buona madre, consistendo più che altro in giudizi sul suo modo di vivere (la sua vita intima, la sua scelta in merito al concepimento di un altro figlio, la modalità con cui utilizzava i social network), ben lontani da poter essere posti a fondamento di una decisione così drastica come quella relativa alla adottabilità di una minore.

Date le circostanze particolari di questo caso, il fatto che la procedura di adozione non fosse stata ancora conclusa e l’urgente necessità di porre fine alla violazione del diritto al rispetto della vita familiare della madre e della figlia, la Corte ha invitato le Autorità nazionali a riconsiderare, in breve tempo, la situazione alla luce di questa sentenza e vagliare la possibilità di determinare un avvicinamento tra di loro tenendo conto della situazione attuale della minore e del suo superiore interesse.

La forma più appropriata di riparazione per una violazione dell'articolo 8 CEDU in un caso come quello sub-iudice, dove il processo decisionale dei giudici nazionali aveva portato alla dichiarazione di adottabilità della figlia, era di garantire che le ricorrenti fossero rimesse nella posizione in cui si sarebbero trovate se questa disposizione non fosse stata ignorata (cfr. par. 101: «La Cour estime que la forme la plus appropriée de redressement pour une violationde l’article 8 de la Convention dans un cas comme celui de l’espèce, où le processus décisionnel mené par les juridictions internes a conduit à la déclaration d’adoptabilité de la seconde requérante, consiste à faire en sorte que les requérantes se retrouvent autant que possible dans la situation qui aurait été la leur si cette disposition n’avait pas été méconnue»).

4. Considerazioni sulla c.d. vittimizzazione secondaria

Non è la prima volta che tale prassi della giurisprudenza italiana viene censurata dalla Corte EDU, ma la situazione appare particolarmente grave quando a perdere i propri figli sono donne con storie di violenza e abusi alle spalle che, anziché essere aiutate e tutelate dalle Autorità, vengono disincentivate dal farvi ricorso per il timore di subire altre conseguenze negative. È del resto diffusa nella giurisprudenza italiana la prassi di ritenere inidonea (e, soprattutto, senza speranze di recuperare la sua capacità genitoriale) la madre vittima di violenze. Un esempio di questo orientamento si può rinvenire in una recente pronuncia della Cassazione civile, con la quale si è dichiarata l’adottabilità di un minore vissuto in una famiglia in cui per anni il padre, da sempre dedito all’uso di alcolici, ha violentemente maltrattato la moglie, anche alla sua presenza. La Cassazione, confermando le decisioni del Tribunale per i minori e della Corte d’Appello, ha ritenuto che la donna avesse tenuto «un comportamento abbandonico», per aver lasciato che «il minore vivesse a lungo in un clima violento, senza compiere nessuna seria iniziativa per offrirgli una vita accettabile». 

Altra pronuncia meritevole di menzione è la sentenza della Corte EDU del 27 maggio 2021,  in merito al linguaggio sessista utilizzato contro le vittime di violenza. Innanzitutto si ribadisce che i procedimenti e le sanzioni penali svolgono un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta a questo tipo di disuguaglianza. Ciò posto, è quindi essenziale che le Autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle proprie decisioni, esponendo le donne ad una vittimizzazione secondaria mediante l’uso di commenti colpevoli e moralizzanti che possono scoraggiarne la fiducia nella giustizia.

Questa deprecabile prassi è stata oggetto di profonde riflessioni anche a livello comunitario.

La Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, dell'11 maggio 2011, all'art. 18, stabilisce che gli Stati firmatari si impegnano ad «evitare la vittimizzazione secondaria».

Essa consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all'apertura di un procedimento giurisdizionale.

La vittimizzazione secondaria è una conseguenza spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere, e l'effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa.

Ritenere che una donna vittima di violenza sia inadatta dal punto di vista genitoriale, a causa della condizione di difficoltà in cui si trova proprio a causa degli atti criminosi dalla stessa subiti, integra oggettivamente una forma di vittimizzazione secondaria, in quanto responsabilizza la donna per i maltrattamenti subiti.

Pertanto, è evidente che una pronuncia di stato di abbandono di una minore non possa essere in alcun caso fondata sullo stato di sudditanza e di assoggettamento in cui vive la madre, per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dal proprio partner.

Sebbene il cammino sia ancora in salita, la pronuncia della Corte Europea rappresenta un piccolo ma importante passo avanti, ribadendo la necessità di una formazione specifica degli operatori giudiziari, atta a prevenire visioni stereotipate, anacronistiche e sessiste e fenomeni di vittimizzazione secondaria.




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