Interessi protetti  -  Redazione P&D  -  16/09/2024

La giustizia disciplinare dei magistrati nella lente dei giornalisti (e degli avvocati): da che pulpito viene la predica? - Francesco Lupia

Premessa

Ho tratto lo spunto per scrivere questo articolo da due correnti giornalistiche (che mi pare abbiano un certo seguito anche all’interno dell’Avvocatura), secondo le quali la giustizia disciplinare dei magistrati sarebbe troppo lieve, domestica ed accomodante. Si tratterebbe dunque dell’ennesima conferma dell’atteggiamento autoreferenziale e da vera e propria casta assunto dalla Magistratura italiana.

Nonostante il diverso approccio metodologico alla tematica, tali correnti mi sembrano condividere le conclusioni a cui giungono sulla giustizia disciplinare dei magistrati e che si potrebbero così riassumere:

1) troppo tenue;

2) poco trasparente;

3) totalmente domestica.

Ne emerge così effettivamente un quadro piuttosto nitido, al cui centro sono posti i magistrati, unica categoria di professionisti non seriamente censurabile sotto il profilo disciplinare.

Nonostante il titolo ironico che ho deciso di assegnare a questo articolo, la sua finalità è più profonda.

Mi è parso opportuno infatti analizzare ambedue questi approcci, al fine di verificarne la correttezza metodologica e, dunque, quella delle conclusioni a cui essi addivengono.

1. Una giustizia disciplinare troppo tenue

A. La corrente “statistica”.

La prima corrente adotta un metodo di analisi che potremmo definire statistico.

Tramite esso si evidenzia, mi pare, sia un numero di sanzioni comminate dalla sezione disciplinare del CSM ritenuto troppo modesto rispetto a quello degli esposti pervenuti, sia la tendenza ad infliggere pene moderate da parte di tale organo.

Sebbene l’argomento matematico sia suggestivo, ritengo che esso si traduca in un approccio epistemologicamente scorretto.

All’interno di una categoria professionale la presenza di un numero di condanne disciplinari modesto costituisce infatti un dato ambiguo. 

Esso invero si presta ad essere interpretato sia come espressione di tendenziale diligenza e rigore dei suoi membri, sia come indice di amministrazione domestica (morbida e corporativa) da parte degli stessi della propria giustizia disciplinare. Lo stesso deve dirsi per l’entità delle pene comminate.

Sino a prova contraria, nessuna delle due interpretazioni del dato statistico può stimarsi più attendibile dell’altra.

Volendo tuttavia accogliere fideisticamente la seconda, fatta propria dalla corrente giornalistica in esame, si dovrebbe partire dall’assunto (indimostrato) secondo cui il tasso di fondatezza degli esposti disciplinari è omogeneo in tutte le categorie professionali.

Una simile affermazione tuttavia ne presuppone necessariamente un’altra. E cioè che il tasso di illiceità disciplinare (cioè il tasso degli illeciti disciplinari effettivamente commessi) sia  pressochè eguale in tutte le categorie professionali.

Solo in tale modo, infatti,  è possibile ricavare il corollario secondo il quale il dato percentuale di condanne (o meglio di denunce ritenute fondate) deve essere simile per ognuna di esse.

Un esempio di questo approccio statistico mi sembra si possa rintracciare nell’articolo di Giovanni Maria Jacobazzi, intitolato “Sanzioni disciplinari, una rarità: nel 2023 sono state inflitte solo a 15 toghe” (rinvenibile su https://www.ildubbio.news/giustizia/sanzioni-disciplinari-una-rarita-nel-2023-sono-state-inflitte-solo-a-15-toghe-aaaq2yjv, ma si veda anche quello di Francesca Spasiano https://www.ildubbio.news/carcere/poche-condanne-molte-archiviazioni-e-la-giustizia-in-casa-delle-toghe-d47z23r8). 

L’Autore, partendo dalla relazione del Procuratore Generale della Cassazione Luigi Salvato, rileva  Non tutte le segnalazioni che arrivano ai due uffici determinano, va ricordato, l’avvio dell’azione disciplinare: la stragrande maggioranza di esse, infatti, verrà archiviata nel cosiddetto “predisciplinare” da parte dello stesso pg che, a suo insindacabile giudizio, decide quale procedimento mandare avanti e quale no…..Nel 2023 sono stati 15 i magistrati condannati in sede disciplinare dal Csm…  In tutto 15, come detto, sono state invece le sentenze di condanna. Esse hanno comportato nel 53,3 per cento dei casi la sanzione della censura, nel 26,7 per cento la perdita di anzianità, nei restanti casi sanzioni più gravi, tra cui due rimozioni.” A tale menzione segue poi un puntuale richiamo dei dati numerici estratti dalla suddetta relazione.

La prima criticità che va evidenziata in questo metodo d’indagine (oltre a quelle già rimarcate) è l’assenza del dato comparativo.

Invero, anche partendo dall’assunto indimostrato che la percentuale di condanne disciplinari deve essere tendenzialmente omogeneo per ogni categoria professionale, al fine di giungere ad un giudizio di pochezza di quella dei magistrati, costituisce un passaggio imprescindibile la comparazione con quella di altri professionisti.

Molto o poco sono infatti espressioni che implicano un termine di riferimento.

Ebbene, non mi pare che nell’articolo citato (né in altri similari) una tale operazione venga effettuata.

Ed in questo sta la seconda fallacia del metodo in esame.

Volendo tuttavia comunque proseguire nell’applicazione di quest’ultimo, per rigore di analisi sarà necessario integrare  i dati indicati  nell’articolo summenzionato con quelli riportati nella relazione del Procuratore Generale “Il numero dei provvedimenti emessi dal CSM è stato pari a 92; tra essi 68 decisioni definitorie del procedimento” (15 condanne, 20 assoluzioni, 6 non doversi procedere e 27 ordinanze di non luogo a procedere) “L’11,1% delle ordinanze di non luogo a procedere (pari a 27 ordinanze) è stato emesso per cessata appartenenza all’ordine giudiziario mentre il 3,7% (1 sola ordinanza) per la scarsa rilevanza del fatto, ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109/2006. Il restante 85,2% delle ordinanze di non luogo a procedere ha visto l’esclusione degli addebiti. Tra le sentenze di non doversi procedere, 3 sono state emesse per cessata appartenenza all’ordine giudiziario, 2 per dispensa dal servizio ed 1 per estinzione del procedimento, mentre tra le sentenze di assoluzione, circa il 40% (8 su 20), hanno visto l’applicazione dell’esimente della scarsa rilevanza del fatto, a norma dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109/2006. In 15 casi sono state emesse sentenze di condanna. Esse hanno comportato nel 53,3% dei casi la sanzione della censura, nel 26,7% la perdita di anzianità, nei restanti casi sanzioni ancora più gravi, tra cui due rimozioni” (rinvenibile su https://www.procuracassazione.it/resources/cms/documents/Intervento_del_Procuratore_generale_sullamministrazione_della_giustizia_nellanno_2023_1.pdf).

In sintesi, su essi 68 decisioni definitorie adottate nel 2023 dalla sezione disciplinare del CSM, 15 sono state di condanna.

La percentuale è dunque pari al 22,1%,ma è destinata a salire se, come mi pare corretto, si escludono dalla cifra iniziale (68) tutte le decisioni di rito  (e dunque le 27 ordinanze di non luogo a procedere emesse per cessata appartenenza all’ordine giudiziario e le 5  sentenze di non doversi procedere emesse per cessata appartenenza all’ordine giudiziario e   dispensa dal servizio).

Sottratte queste 32 pronunzie di rito dalle 68 decisioni, risulta come su 36 decisioni di merito 15 siano state di condanna ,20 di assoluzione ed 1 per estinzione del giudizio.

Dunque oltre il 40% sentenze sono state di condanna.

Seguendo un ordine crescente di gravità,in 8 casi la sanzione è consistita nella censura (53,3%), in 4 la perdita di anzianità (26,7%), in 1  la sospensione dalle funzioni (6,7%) ed in 2 la rimozione (13,3%).

Ebbene, giunti a questo punto dovremmo comparare questo dato con quello relativo ad altri professionisti.

La scelta è se assumere come termine di raffronto altri pubblici dipendenti, liberi professionisti operanti nel settore della giustizia o ancora altre categorie professionali.

Inizierei dai secondi.

Prendiamo dunque a termine di comparazione la classe forense.

Il confronto non può essere effettuato attingendo alle statistiche relative alle sanzioni disciplinari comminate a tutti gli avvocati italiani.

Infatti il CNF mi ha confermato che simili dati non sono in suo possesso (avendo questi la funzione di giudice di appello delle decisioni assunte dai Consigli Distrettuali di Disciplina).

Tuttavia è possibile prendere in esame un campione significativo: il Lazio (l’unico distretto per il quale sia riuscito a trovare una relazione esaustiva resa pubblica dal suo CDD).

Ebbene, dalla relazione redatta dal Consiglio Distrettuale di Disciplina di Roma nel 2023 emerge come nel 2022 siano pervenute 1111 segnalazioni (esposti).

Nello stesso anno il Consiglio ha definito 962 esposti.

Di essi 846 sono state decise nelle assemblee plenarie con i seguenti esiti: 612 sono stati giudicati manifestamente infondati (decisione sostanzialmente equivalente all’archiviazione del Procuratore Generale per i magistrati), per 61 è stata dichiarata la prescrizione, per 11 il non luogo a provvedere, 36 si sono conclusi per cancellazione dall’albo e 27 per decesso. Invece 82 sono state decise con provvedimenti di sezione con i seguenti esiti: 32 infondatezza, 39 prescrizione, 3 decesso dell’incolpato e 2 non luogo a provvedere.

Seguendo la stessa logica applicata per la Magistratura, eliminate le decisioni di rito (prescrizione, cancellazione e decesso), restano 796 pronunce di merito.

Al fine di consentire una omogena comparazione con i numeri suindicati relativi al disciplinare dei magistrati, tuttavia, da esse occorre  sottrarre anche le archiviazioni per manifesta infondatezza, pari a 612 , in quanto assimilabili alle archiviazioni del Procuratore Generale della Cassazione ( perché emesse sull’accertamento dello stesso presupposto della manifesta infondatezza).

Restano 184 pronunce di merito.

Le condanne sono state le seguenti: 105 richiami verbali (la sanzione più lieve in assoluto), 3 avvertimenti,2 censure,18 sospensioni e nessuna radiazione.

Per un totale di 128 condanne e 56 assoluzioni (i dati sono stati estratti da https://www.ordineavvocatiroma.it/wp-content/uploads/2023/01/attivita%CC%80-istituzionale-CDD-Roma-2022-2.pdf).

Dunque quasi il 70% di condanne, contro il 40% della Magistratura.

Se dunque dovessimo affidare il giudizio di serietà della giustizia disciplinare solo al rapporto tra pronunce e condanne, la valutazione finale non potrebbe che essere quella di maggiore severità della giustizia disciplinare forense rispetto a quella giudiziaria.

Se poi (applicando il metodo statistico qui contestato) volessimo calcolare e comparare il rapporto tra denunce e condanne, la forbice si divaricherebbe ancora.

Il calcolo sarebbe statisticamente valido perché, se è vero che normalmente il CSM e CDD di Roma non definiscono gli esposti pervenuti nello stesso anno in cui essi sono depositati, è altrettanto vero che il numero degli stessi  è tendenzialmente stabile negli anni (con piccole fluttuazioni con non incidono sul valore medio).

Secondo la relazione del Procuratore Generale  il  numero complessivo delle esposti sopravvenuti nell’anno 2023 è pari a 1.854 (leggermente superiore a quello degli anni anteriori). Dalla relazione redatta dal Consiglio Distrettuale di Disciplina di Roma, come detto, emerge come nel 2022 siano pervenute 1111 segnalazioni.

Pertanto il tasso di segnalazioni che si sono tradotti in condanne per i magistrati è pari allo 0,8% circa, mentre per gli avvocati è pari al 11,5%.

E tuttavia, come accennato, il corollario della omogeneità delle percentuali di condanna presuppone logicamente l’affermazione secondo cui il tasso di illiceità disciplinare (cioè il tasso degli illeciti disciplinari effettivamente commessi) è  pressochè eguale in tutte le categorie professionali.

Stando così le cose, al fine di valutare serietà di un sistema di giustizia disciplinare, occorre comparare non tanto il rapporto tra esposti e condanne, ma tra numero di appartenenti alla categoria professionale e condanne. 

Alla concreta commissione di un illecito disciplinare, infatti, potrebbe anche non seguire la formulazione di un esposto. E ciò per due ragioni, distinte ma strettamente collegate. La prima è costituita dal grado di competenza tecnica dell’utenza con la quale si confronta una certa categoria professionale, che potrebbe non essere in grado di constatare l’avvenuta commissione dell’illecito o, al contrario, ritenerlo integrato ancorchè esso non sia stato commesso. La seconda è rappresentata da un dato emotivo e psicologico: la percezione soggettiva (non tecnica) di aver patito un’ingiustizia e l’altrettanto soggettiva individuazione del responsabile. 

Orbene, ambedue questi fattori  incidono sul numero degli esposti proposti e spiegano (come si vedrà)  le reali ragioni dell’enorme divaricazione percentuale che esiste tra quelli  ricevuti dai magistrati e quelli destinati agli avvocati.

Il Lazio conta infatti  ben 42.763 avvocati (dunque oltre 4 volte i magistrati di tutta Italia) e tuttavia, come si è visto, nel 2022 sono pervenuti solo 1111 esposti.

Quanto ai magistrati, invece, secondo la relazione del Procuratore Generale “Il numero complessivo delle notizie sopravvenute nell’anno decorso (pari a 1.854) è stato superiore al numero medio di notizie pervenute nel quinquennio 2018 – 2022 (pari a 1.735)”.Nel 2023 i magistrati in servizio erano 8.882.

In sintesi, il rapporto per la Magistratura è di circa 2 esposti l’anno per ciascun magistrato, mentre per l’Avvocatura è di circa 1 esposto ogni 40 avvocati (sempre assumendo il Lazio come campione significativo).

A tal proposito  mi pare significativo richiamare un passaggio estratto da un comunicato del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma del gennaio 2024 “Il Coordinatori evidenziano che "le nuove segnalazioni pervenute sono state 409 da parte di cittadini, 234 da colleghi avvocati e 139 da uffici giudiziari e altri enti….. è assai incoraggiante quanto emerge dallo studio della statistica annuale, ovverosia il ridotto numero di segnalazioni tra avvocati per presunte violazioni dei cosiddetti "rapporti di colleganza".” (rinvenibile su https://www.facebook.com/COARoma/posts/esposti-disciplinari-analisi-dei-numeri-e-riflessioni-sulle-procedure-lufficio-d/710924351186072/).

Ciò significa che solo poco più del 50% degli esposti provengono da cittadini (normalmente clienti).

E’ ora possibile comparare tale dato con quello dei magistrati.

Viene in soccorso ancora una volta la relazione del Procuratore Generale, secondo la quale “Le archiviazioni predisciplinari ex art. 16, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 109/2006 anche quest’anno rappresentano il 95% del totale delle segnalazioni, sottolineando però che il 72,1% dei procedimenti archiviati è costituito da definizioni de plano mediante atti di segreteria, ai sensi dell’ordine di servizio n. 34/2020.”

L’ordine di servizio n. 34/2020 ha ad oggetto le archiviazioni disposte per esposti non circostanziati inviate da privati con il mezzo della posta elettronica non certificata.

Ebbene, poiché ogni avvocato è munito obbligatoriamente di pec, pare evidente come 72,1% degli esposti archiviati (pari a circa il 70% di quelli presentati) proviene sicuramente da cittadini non  appartenenti alla classe forense (cioè da soggetti che certamente non hanno contezza del contenuto del codice disciplinare dei magistrati, né una profonda preparazione giuridica che gli consenta di valutare le dinamiche dei processi che li hanno coinvolti).

La differenza statistica è significativa, ma non dirimente. Assai più rilevante di essa è infatti l’individuazione dell’oggetto degli esposti formulati ai danni rispettivamente dei magistrati e degli avvocati.

Quanto ai primi, mi sia concesso riprendere un passaggio tratto da “Il sistema disciplinare dei magistrati: una cosa seria” di Claudio Castelli “le fonti da cui derivano i procedimenti disciplinari sono molteplici: le ispezioni ministeriali, i rapporti dei dirigenti degli uffici, gli esposti e le denunce delle parti. Questi ultimi sono il numero più ampio e diffuso di segnalazioni ai titolari dell’azione disciplinare. Ha sempre più preso piede il ricorso alla denuncia disciplinare quale quarto grado di giudizio…. Esposti e denunce che prevalentemente riguardano decisioni non gradite…”.

Come accennato, dunque, la divaricazione tra la percentuale degli esposti ricevuti dagli avvocati e dai magistrati è da imputarsi ad un fattore di difetto di competenza tecnica, cui è collegata una percezione emotiva e psicologica.

Il privato che soccombe in giudizio (civile o penale) molto spesso prova la sensazione (a torto o a ragione) di aver subito un’ingiustizia. Il suo bagaglio giuridico ovviamente non gli consente di comprendere se essa sia reale e, laddove lo sia, se sia da imputare ad una carente difesa del proprio legale, ad una difesa adeguata di quest’ultimo alla quale tuttavia segua una decisione sfavorevole ma correttamente argomentata da parte del giudice nell’esercizio della propria discrezionalità (c.d. alea del giudizio) o, infine, alla effettiva commissione di un illecito disciplinare funzionale da parte del magistrato.

In sintesi, come ben rilevato da Claudio Castelli, il cittadino spesso si sente ferito da quella che ritiene essere una decisione ingiusta ed ovviamente imputa istintivamente la responsabilità del torto subito a chi ha deciso. 

L’effetto finale è la presentazione di una pletora di esposti totalmente infondati, aventi ad oggetto la contestazione (normalmente assolutamente generica) del merito della decisione, più che l’esposizione di profili rilevanti sotto la lente disciplinare.

La stessa dinamica ovviamente non si ripropone per gli avvocati, poiché nell’immaginario del cittadino non è questi il responsabile del contenuto della decisione.

La conferma di tale ultima asserzione è data dall’esame dei massimari predisposti dai vari Consigli Distrettuali di Disciplina (si veda ad esempio http://www.ordineavvocatitreviso.it/sito/index.php?option=com_content&view=article&id=2209:consiglio-distrettuale-di-disciplina-massimario&catid=54:archivio-news&Itemid=98.)

 Sfogliando le decisioni assunte dal giudice disciplinare di primo grado è quasi impossibile imbattersi in esposti presentati da clienti che si dolgano della negligenza del proprio legale a cagione dell’esito decisorio sfavorevole.

Non costituisce allora una falsa analogia affermare che l’esposto disciplinare contro i magistrati è diventato in massima parte quella che è stata la denuncia per abuso d’ufficio in ambito penale: uno strumento improprio per contestare il merito di una decisione sgradita (“I cittadini che ritengono, a ragione o a torto, di avere subito un abuso dall’amministratore o dal funzionario pubblico, piuttosto che dal magistrato, dal direttore del carcere o dal medico del servizio sanitario nazionale o dal professore universitario o dal preside di un istituto scolastico, non fanno altro che denunciare un generico abuso d’ufficio”, così Prof.Gian Luigi Gatta in “L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione” pubblicato su Sistema Penale 19 Maggio 2023).

Stando così le cose, si comprende come il dato degli esposti contro i magistrati sia falsato dall’abuso che se ne fa. Eliminato quel 70% di esposti figli di un moto dell’animo del cittadino, ne restano 556,2.

II rapporto per la Magistratura diventa dunque di circa 1 esposto l’anno ogni 16 magistrati, mentre per l’Avvocatura è di circa 1 esposto ogni 40 avvocati.

I numeri cominciano ad avvicinarsi, ma non abbiamo terminato.

Tanto chiarito,infatti, al fine di comparare il rigore delle due giustizie disciplinari, non resta che tornare all’assioma che costituisce il presupposto del metodo d’indagine in esame: il  tasso di illiceità disciplinare (cioè il tasso degli illeciti disciplinari effettivamente commessi) è  pressochè eguale in tutte le categorie professionali.

Come accennato, stando così le cose, al fine di effettuare una comparazione non viziata da fattori percettivi tali da abbattere il numero degli esposti (pur a fronte di illeciti disciplinari concretamente commessi), occorre comparare non tanto il rapporto tra esposti e condanne, ma tra numero di appartenenti alla categoria professionale e condanne.

Se infatti i summenzionati fattori tecnici ed emotivi operano per i magistrati come elemento di abnorme moltiplicazione degli esposti, il contrario avviene per la classe forense.

In primo luogo, come accennato, incide l’incapacità del cliente di comprendere la condotta negligente del proprio avvocato (imputando l’esito negativo sempre al magistrato), che limita il numero degli esposti che dovrebbero essere proposti a fronte di illeciti concretamente commessi.

In secondo luogo rileva l’assenza per la classe forense di organi di controllo disciplinare esterni diversi dai clienti. Per i magistrati infatti il controllo viene effettuato anche dal Ministro della Giustizia, tramite l’Ispettorato (organo di verifica tecnica). Un analogo organo è stato non istituito per la verifica della correttezza disciplinare dell’operato della classe forense.

E’ necessario dunque procedere ad un raffronto tra numero di appartenenti alla categoria professionale e condanne, eliminando così gli effetti distorsivi caratteristici del numero delle denunce.

E’ allora facile rilevare come per gli avvocati laziali il rapporto sia di 42.763 iscritti per 128 condanne. Dunque vi è circa 1 condanna ogni 340 avvocati.

Per i magistrati invece il rapporto è di 8.882 iscritti per 15 condanne. Dunque vi è circa 1 condanna ogni 600 magistrati.

Applicando il metodo statistico in esame, allora, dovremmo ancora concludere per  un giudizio di maggior rigorosità della giustizia disciplinare forense.

Tuttavia non è possibile esprime una valutazione di tal genere senza tenere in considerazione anche gli anni passati.

E la media di sentenze di condanna dei magistrati per gli anni dal 2010 al 2023 è di circa 35 l’anno (Fonte Sezione disciplinare C.S.M, rinvenibile su https://www.procuracassazione.it/resources/cms/documents/Intervento_del_Procuratore_generale_sullamministrazione_della_giustizia_nellanno_2023_1.pdf o https://www.costituzionalismo.it/wp-content/uploads/1-2022-6.-Castelli.pdf ).

Al contrario, la media di  sentenze di condanna disciplinare del Consiglio Distrettuale di Roma appare tendenzialmente stabile anche guardando agli anni precedenti al 2022 (anche se, in verità, la media degli anni precedenti sembra attestarsi sotto le 100 pronunzie di condanna l’anno, fonte https://ordineavvocatilatina.it/sites/default/files/User_files/Tavole.pdf).

Così ricostruita la media di condanne dei magistrati, il rapporto diventa di 1 condanna ogni 250 magistrati, contro 1 condanna ogni 340 avvocati della giustizia forense.

Ecco che, applicando il metodo statistico in esame per un più vasto arco di tempo rispetto a quello considerato nell’articolo summenzionato, la giustizia disciplinare dei magistrati si palesa  più rigorosa di quella della classe forense.

Vi è poi un altro dato da considerare.

L’applicazione di tale metodo non può prescindere dalla considerazione  dell’astratta gravità ed omogeneità delle sanzioni comminate, al fine di compararle.

Infatti “I rapporti statistici servono ad effettuare confronti tra dati che ovviamente devono essere omogenei tra loro” (https://www.uniba.it/it/ricerca/dipartimenti/disspa/attivita-didattica/materiale-didattico/materiale-di-principi-di-statistica/cap-5-rapporti-statistici.pdf).

Ed allora balza subito agli occhi come per  la classe forense nel 2023 di 128 condanne  105 siano richiami verbali (cui seguono in ordine crescente di gravità 3 avvertimenti,2 censure,18 sospensioni e nessuna radiazione).

Essa è la sanzione disciplinare più lieve in assoluto, che non trova riscontro nel codice disciplinare dei magistrati, ponendosi al di sotto dell’avvertimento (equiparabile quest’ultimo alla sanzione dell’ammonimento prevista per i magistrati).

Di tale sanzione lievissima il Consiglio Distrettuale laziale  pare fare largo utilizzo ai fini della definizione dei giudizi disciplinari.

Ad esempio nel 2020 ve ne sono stati 98, seguiti in ordine crescente da 2 avvertimenti, 2 censure,23 sospensioni e 2 radiazioni.

Volendo dunque continuare ad utilizzare tale metodo statistico, dovremmo espungere dal numero delle condanne forensi tutte quelle che si trovano al di sotto della soglia dell’avvertimento-ammonimento, in quanto dato non omogeneo ai fini dell’elaborazione del rapporto statistico.

 Come già chiarito, infatti, occorre comparare dati omogenei e,come rilevato, i richiami verbali rappresentano  una sanzione minima che non trova riscontro nel codice disciplinare della magistratura, ponendosi al di sotto della soglia sanzionatoria minima comune prevista da ambedue i sistemi disciplinari e costituita dall’avvertimento-ammonimento.

Giungiamo così,ad esempio,  a 23 condanne forensi per l’anno 2023 ed a 29 condanne forensi per l’anno 2020 (purtroppo non sono riuscito a reperire altre relazioni del Consiglio Distrettuale laziale).

Così ricostruita la media di condanne degli avvocati del Lazio, il rapporto diventa di 1 condanna ogni 1500 avvocati circa, contro 1 condanna ogni 250 magistrati.

In sintesi, la giustizia disciplinare della Magistratura è circa 5 volte più severa di quella dell’Avvocatura.

Ma il ragionamento potrebbe spingersi oltre.

Per comparare la severità di due sistemi disciplinari, infatti, non è sufficiente prendere in considerazione due dati numerici di sanzioni  astrattamente omogenee (come fatto sinora), ma occorre anche pesarne il grado di afflittività in concreto.

Tale considerazione viene completamente obliata dalla corrente giornalistica che fa suo il metodo statistico.

Bisogna invece tenere a mente come le sanzioni dell’ avvertimento e della censura siano prive di concreti effetti pregiudizievoli per l’avvocato, non precludendogli in alcun modo di esercitare la propria professione.

L’unica conseguenza negativa per l’avvocato che abbia subito una sanzione eguale o superiore alla censura,infatti, è la perdita dell’elettorato passivo per 5 anni con riferimento alle elezione dei componenti dei  consigli degli ordini circondariali forensi.

Al contrario, per il magistrato la censura comporta l’impossibilità di concorrere per 10 anni agli incarichi di dirigente e vicedirigente (da ricordare come la riabilitazione per i magistrati sia stata introdotta solo nel 2022, mentre sia sempre esistita per la classe forense).

Le conclusioni non muterebbero se utilizzassimo come termine di paragone non l’Avvocatura, ma il Giornalismo.

Anche in questo caso utilizzeremo un approccio analogo a quello applicato per l’Avvocatura, prendendo in considerazione un campione significativo: la Lombardia.

Gli iscritti all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia è pari a 23.600 (fonte: https://odg.mi.it/visione-missione-valori/#:~:text=Con%20i%20suoi%20quasi%2023.600,regionale%20dei%20giornalisti%20d'Italia).

Qui di seguito i dati statistici relativi all’attività disciplinare che sono riuscito a reperire:

Dati statistici sull’ attività svolta nel 2022 dal Consiglio di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia

fascicoli definiti: 189.

che si sono conclusi con:
n. 172 delibere di non luogo a procedere;
n. 8 assoluzioni;
n. 3 censure;
n. 6 avvertimenti.

( dati estratti da La relazione del presidente del Consiglio di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia sull’attività svolta nel corso del 2022,rinvenibile su https://odg.mi.it/approfondimenti-deontologici/lattivita-del-consiglio-di-disciplina-nel-2022/)

Dati statistici sull’ attività svolta nel 2023 dal Consiglio di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia

Fascicoli definiti nel 2023: 127, che si sono conclusi con:

n. 96 delibere di non luogo a procedere;

n. 19 assoluzioni;

n. 9 censure;

n. 2 avvertimenti  n.1 sospensione a mesi 2”.

Significativi appaiono alcune considerazioni svolte dal Presidente del Consiglio di Disciplina, che accompagnano l’esposizione di tali dati:

Sarebbe certamente necessaria una riflessione “di categoria” per comprendere le ragioni di questa evidente deriva linguistica che trova, con una certa frequenza, un punto di caduta in titoli sempre più gridati e in articoli sempre meno rispettosi di quel principio di “continenza verbale” i cui confini si stanno spostando in una direzione che riduce gli spazi della comunicazione (intesa come atto del rappresentare la propria posizione ad una platea astrattamente indeterminata di soggetti) a vantaggio di quelli della proclamazione (intesa come messaggio rivolto a quelle che si considerano essere le proprie “truppe” di ascoltatori e lettori)”.

(dati e testo estratti Bilancio dell’attività di due anni dell’organismo – indipendente e autonomo – che assicura il presidio deontologico dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia: i numeri dei procedimenti, le scelte operative, le criticità. E su tutto, la logica dell’azione disciplinare non come punizione ma strumento di tutela della professione,rinvenibile su https://odg.mi.it/approfondimenti-deontologici/cosa-ha-fatto-fin-qui-il-nostro-consiglio-di-disciplina-territoriale/).

Non servono grandi calcoli comparativi per evidenziare come le sanzioni comminate ai giornalisti lombardi siano davvero poche e tutt’altro che severe, se paragonate a quelle dei magistrati.

D’altronde una critica serrata sulla giustizia disciplinare degli Ordini dei Giornalisti era già stata effettuata tempo fa da Guido Besana, della segreteria della Fnsi nell’articolo “Professione e lavoro” .  Mi pare opportuno riportarne alcuni passaggi “Da questa evoluzione è uscita sconfitta la qualità. Hanno perso la professione, l’accuratezza, la verifica, l’inchiesta, l’approfondimento. Hanno vinto l’approssimazione, la corrività, la pornografia in senso lato e il sensazionalismo. La massiccia espulsione dal ciclo produttivo di figure professionali non giornalistiche ha inoltre ridotto tutti i passaggi di mediazione e controllo che, con il ruolo di trasmissione dei saperi alle nuove generazioni che la categoria ha irresponsabilmente abbandonato, consentivano un sistema virtuoso di esaltazione dei patrimoni di qualità e professionalità…. L’ allargamento della base ha avuto come effetto collaterale il “todos caballeros”, la corsa alle tessere e ai contributi, l’espansione in territori di confine, la compiacenza, le clientele, il do ut des, il cammellaggio, le quote di iscrizione pagate da altri per poter votare alle consultazioni di categoria, gli interessi anche economici che si basano sul numero o sul nome accreditato dell’organismo, non importa quale, di categoria, i premi e i concorsi, i corsi e i convegni, le cene sociali, gli accrediti agli amici, le marchette di gruppo, il silenziatore ai provvedimenti disciplinari, il cane che non mangia il cane, le regole che per gli amici si interpretano sono mali che, sia pure insiti nella natura umana, hanno proliferato in una categoria che nelle sue istituzioni ha visto crescere e prosperare “rappresentanti di professione(rinvenibile su: https://www.ferpi.it/news/ma-che-fanno-100-000-giornalisti-in-italia).

L’ultima comparazione che pare opportuno effettuare è quella con tutti gli altri dipendenti pubblici.

I dati del Dipartimento della Funzione Pubblica sulle sanzioni disciplinari comminate nel 2022 sono i seguenti: 4155 sanzioni minori,2075 sospensioni dal lavoro, 610 licenziamenti, 3020 archiviazioni/proscioglimenti (dati estratti da https://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/documenti/Ispettorato/ProcedimentiDisciplinari2022_30-06-2023.pdf).

 Totale sanzioni: 6.840.

 Non è disponibile il dato degli esposti ricevuti da ogni singola amministrazione (neppure come dato aggregato). Il Dipartimento della Funzione Pubblica mi ha infatti confermato come tale dato non venga acquisito.

La Pubblica Amministrazione italiana conta circa 3,2 milioni di dipendenti .

Dunque nella P.A. viene condannato 1 dipendente ogni 460,mentre nella Magistratura si ha 1 condanna ogni 250 magistrati.

Ancora una volta, utilizzando il metodo in esame, la giustizia disciplinare della Magistratura risulta la più severa.

Possiamo così concludere l’analisi dell’approccio “statistico” utilizzato da alcuni giornalisti per criticare la serietà della giustizia disciplinare della Magistratura:

1) utilizza come fondamento dell’analisi un dato numerico ambiguo;

2) parte  dall’assunto (indimostrato) secondo cui il tasso di fondatezza degli esposti disciplinari debba essere omogeneo in tutte le categorie professionali e dunque dal presupposto (altrettanto indimostrato) che il tasso di illiceità disciplinare (cioè il tasso degli illeciti disciplinari effettivamente commessi) sia  pressochè eguale in tutte le categorie professionali;

3) pur partendo da tali premesse, non utilizza alcun termine di comparazione con la giustizia disciplinare di altre categorie professionali;

4)applicato correttamente, porta ad un giudizio sulla severità della giustizia disciplinare dei magistrati esattamente opposto rispetto a quello sostenuto.

B. La corrente “casistica”.

Come accennato, un’altra corrente giornalistica predilige invece descrivere singoli casi concreti, esprimendo contemporaneamente due giudizi: il primo di intrinseca gravità del fatto ed il secondo di inadeguatezza della sanzione comminata dalla sezione disciplinare del CSM.

Un esempio di questo tipo di approccio casistico è rappresentato da “Il libro nero della magistratura” di Stefano Zurlo, ma altri similari si possono agilmente ritracciare sulla rete tramite una breve ricerca ( si veda  Giudici, cosa succede quando sbagliano: magistratura, processi e carriere” di  Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo, rinvenibile su https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/giudici-cosa-succede-quando-sbagliano-magistratura-processi-carriere-toghe-csm-sanzioni-disciplinari/607be162-c14a-11eb-9815-2e1f995dd6a2-va.shtml).

Anche questo sistema di analisi è suggestivo.

Tuttavia, non diversamente dal primo, presenta gravi vizi logici, in parte comuni al precedente ed in parte esclusivamente propri.

Iniziamo dai primi.

Ancora una volta  manca l’elemento di comparazione.

Esprimere un’opinione sulla gravità intrinseca di fatto materiale integrante un illecito disciplinare vuol dire formulare un giudizio in base alla propria morale soggettiva e dunque non richiede un termine di paragone.

Valutare invece come insufficiente la sanzione comminata in sede disciplinare per qual fatto significa al contrario effettuare una comparazione.

La domanda da porsi infatti è “Quale metro viene utilizzato per stabilire se la sanzione è stata sufficiente o meno”?

In diritto si parla di dosimetria della pena. 

Normalmente la legge prevede che il Giudice (in questo caso la sezione Disciplinare del CSM) abbia una certa discrezionalità nello stabilire la sanzione da comminare in caso di accertamento di un fatto illecito. Una discrezionalità che si deve muovere entro i limiti di un minimo e di un massimo (c.d. forbice edittale).

Ebbene, gli stessi principi valgono per gli illeciti disciplinari in generale, compresi quelli dei magistrati.

Volendo dunque contestare l’adeguatezza di una sanzione, non vi sono che tre approcci possibili.

O se ne evidenzia l’illegittimità, dimostrando come, a fronte dell’accertamento di quella particolare fattispecie di illecito disciplinare, il Giudice sarebbe stato obbligato ad irrogare una sanzione più grave in quanto espressamente previsto dalla legge (senza che residuino margini di discrezionalità).

O se ne evidenzia l’anomalia rispetto ad altre pronunzie su fattispecie identiche (o giuridicamente analoghe) adottate da quello stesso Giudice disciplinare, dimostrando come in esse  quest’ultimo abbia sempre applicato una sanzione più grave (e tuttavia, così procedendo, non si riuscirebbe  a sostenere un giudizio di ingiustificata tenuità dell’intero sistema di giustizia disciplinare, ma solo di ingiustificata tenuità di quella specifica decisione).

O se ne evidenzia l’anomalia rispetto ad altre pronunzie su fattispecie identiche (o giuridicamente analoghe) adottate da un altro Giudice disciplinare (ad esempio il Consiglio Distrettuale di Disciplina forense o l'Ufficio Procedimenti Disciplinari di una P.A.), dimostrando come in esse  quest’ultimo abbia sempre applicato una sanzione più grave.

Orbene, a seguito di un’ analisi della copiosa letteratura che compone questa corrente giornalistica “casistica”,  mi pare che nessuno degli Autori che la animano abbia mai effettuato una delle tre operazioni intellettuali summenzionate.

In sintesi, il giudizio di insufficienza della sanzione disciplinare appare completamente autoreferenziale: “è troppo poco, perché lo dico io”.

Si tratta dunque di un approccio non oggettivo, ma emotivo che, perdonabile ai non addetti ai lavori, non lo è a chi si occupi di giustizia per professione (forense, giudiziaria, accademica o giornalistica).

A tal proposito mi sia consentito riportare alcuni passaggi di un articolo a firma del Prof. Glauco Giostra , ordinario di procedura penale, Università di Roma, La Sapienza, che, icasticamente, definisce cosa sia la giustizia e quale sia il metodo  epistemologicamente corretto per sottoporla a vaglio critico: “Da sempre, per punire tali comportamenti, ogni società ricorre a un metodo condiviso di accertamento delle responsabilità, il cui esito è disposta ad accettare come verità…. Se alla lettura del solo dispositivo giudichiamo una sentenza “vergognosa” (quasi sempre quando è di assoluzione) o siamo in malafede o siamo giuridicamente analfabeti. E mentre si può comprendere la rabbia delle vittime del reato, da cui non si può pretendere che attendano di esaminare il percorso processuale e la motivazione della sentenza per esprimere rimostranze critiche, inescusabile è la censura mossa senza conoscere, soprattutto quando proviene da rappresentanti delle istituzioni. Va da sé che, al contrario, si possano ovviamente muovere motivate critiche al singolo processo o alla singola decisione individuando falli nel modus procedendi o decidendi” (Giustizia e verità, rinvenibile su https://www.questionegiustizia.it/articolo/giustizia-e-verita).

Se però si volesse proprio seguire questo metodo “casistico”, così come mi pare di averlo inteso (e dunque nella sua dimensione emotiva), allora credo che sarebbe doveroso effettuare un’opera di comparazione con le casistiche degli altri sistemi disciplinari, per verificare se esse ci indignano in ugual modo o in misura ancor maggiore.

Ed allora ecco alcuni casi che potrebbero sortire un tale effetto.

Disciplinari relativi agli avvocati:

1)Un avvocato , nella sua qualità di amministratore di sostegno o tutore del beneficiario o dell’interdetto, ha prelevato indebitamente dal conto corrente di questi ingenti somme, ingiustificate e comunque non autorizzate dal Giudice tutelare,  preteso titolo di rimborso spese . Nel caso di specie, approfittando della propria funzione di amministratore di sostegno, l’avvocato aveva prelevato indebitamente dal conto corrente del beneficiario la somma di € 20mila, poi restituite, commettendo il reato di appropriazione indebita. Il CNF ha ritenuto congrua la sanzione della sospensione disciplinare dall’esercizio della professione forense, riducendola tuttavia a due mesi;

2) Un avvocato , in violazione dei basilari doveri deontologici, ha approfittato della fiducia e delle evidenti condizioni di debolezza psichica di un soggetto, per indurlo a farsi cedere un immobile a condizioni palesemente penalizzanti e inique per lo stesso, sia in ragione del prezzo esiguo rispetto al valore del bene compravenduto, sia per le modalità di pagamento, ideate al fine di escludere la garanzia prevista dalla legge (ipoteca legale ex art. 2817 Cod. Civ.) per il caso di alienazione dell’immobile senza il contestuale integrale pagamento del prezzo Nel caso di specie, trattavasi di un Cliente poi effettivamente sottoposto alla misura di protezione dell’amministrazione di sostegno. Il CNF ha ritenuto congrua la sanzione della sospensione disciplinare dall’esercizio della professione per due mesi (Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Corona, rel. Cassi), sentenza n. 125 del 8 aprile 2024);

3) Un avvocato , partecipando ad un sodalizio criminoso, si rendeva corresponsabile di illeciti attraverso la sua attività professionale e l’asservimento del suo studio a tali scopi (Nella specie, l’avvocato aveva posto in essere, quale socio e/o amministratore di fatto o di diritto, un sistema organico di società all’interno del quale realizzava una serie di operazioni volte all’elusione e all’evasione fiscale e all’acquisizione di linee di credito, emettendo e ricevendo fatture oggettivamente false che erano incorporate in bilanci fittizi e utilizzate per vantaggi fiscali e per avere anticipazioni bancarie, concorrendo nella gestione e nel riutilizzo di denaro frutto delle dette operazioni illecite. Il CNF ha ritenuto congrua la sanzione della sospensione disciplinare dall’esercizio della professione forense per anni tre (Consiglio Nazionale Forense (pres. Greco, rel. Stefanì), sentenza n. 112 del 3 aprile 2024);

4) Avvocato  stato condannato in via definitiva in sede penale per aver alterato la data di notifica apposta dall’Ufficiale Giudiziario in un decreto di citazione a giudizio immediato emesso dal GIP, al fine di far apparire tempestiva l’istanza di patteggiamento. Il CFN conferma sospensione disciplinare dall’esercizio della professione forense per un anno e sei mesi (Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Napoli, rel. Palma), sentenza n. 108 del 27 marzo 2024)

Quelli descritti sono tutti gravi reati commessi da avvocati nell’esercizio della propria professione o (nel caso 2) approfittando di essa. La sanzione comminata è stata sempre la sospensione, in due casi limitata a soli 2 mesi.

Volendo fare una comparazione casistica con la giustizia disciplinare della Magistratura (attingendo ad un caso analogo per gravità) è semplice rammentare come per aver gestito illecitamente le procedure di designazione degli amministratori giudiziari un magistrato è stato radiato.La sanzione comminata è stata dunque molto più severa rispetto a quella ricevuta dagli avvocati che si sono resi colpevoli di illeciti similari.

Anche applicando il metodo “casistico”, dunque, la giustizia disciplinare dei magistrati appare più severa di quella forense.

Disciplinari relativi ai giornalisti:

1) È sanzionabile il giornalista che rappresenta al pubblico un’informazione incompleta al fine di supportare una propria tesi. L’omissione di dati essenziali viola il principio della verità sostanziale dei fatti fondamento della professione giornalistica. Il Consiglio Nazionale Ordine dei Giornalisti sanzione con l’avvertimento (https://www.odg.it/cdn-7-dicembre-2022/48074).

2)Le notizie rivelatesi errate vanno rettificate anche in assenza di specifica richiesta per non inficiare il diritto dei cittadini a una completa informazione. Il Consiglio Nazionale Ordine dei Giornalisti sanzione con l’avvertimento.

3) Il giornalista deve proteggere l’identità dei migranti. I dati personali riportati negli atti giudiziari non devono essere diffusi se non sono determinanti ai fini della notizia. Il Consiglio Nazionale Ordine dei Giornalisti sanzione con la censura.

4) La notorietà di una minore perché figlia di personaggi pubblici e titolare di un profilo social non rende lecita la pubblicazione di immagini che la ritraggono in posture volte a evidenziare caratteristiche fisiche : Ringrazio il direttore (...) per la sensibilità dimostrata mettendo in copertina il lato B di mia figlia minorenne senza curarsi del problema sempre più evidente della sessualizzazione e mercificazione del corpo delle adolescenti . Il Consiglio Nazionale Ordine dei Giornalisti sanzione con l’avvertimento.

5)  Titoli e sottotitoli sono tra gli elementi che offrono al lettore un’immediata percezione del fatto rappresentato pertanto non sono esenti dal rispetto del limite Il fatto Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti segnalava al Consiglio di Disciplina Territoriale dell’Ordine della Lombardia il titolo “Bergoglio in Vaticano: vieni avanti Gretina. La rompipalle va dal Papa”, pubblicato sulla prima pagina del quotidiano “(...)”, all’epoca diretto da (...), nell’edizione del (...). Il Consiglio Nazionale Ordine dei Giornalisti sanzione con la censura;

6) Il Consiglio Territoriale di Disciplina, il 17 luglio 2020 ha sanzionato con la censura la giornalista A. D. per violazione dell’art. 1, 2 e 7 del Testo Unico dei Doveri del Giornalista per non aver rispettato la verità dei fatti pubblicando sul proprio profilo Facebook una notizia di cronaca falsa e verificata solo attraverso fonti discutibili, che ha destato particolare allarme nella comunità di residenza (https://www.og.puglia.it/files/Sanzioni_disciplinari.pdf);

7) Il Consiglio Territoriale di Disciplina, 24 luglio 2020 ha sanzionato con la censura la giornalista F. P. per violazione della Carta di Roma per errato uso del linguaggio nei confronti di popolazione di etnia Rom. La giornalista ha usato termini e espressioni pregiudizievoli e discriminatori in violazione del glossario della Carta di Roma (https://www.og.puglia.it/files/Sanzioni_disciplinari.pdf);

8) Il giornalista nell’esercitare il suo insopprimibile diritto di critica non può travalicare i limiti della continenza espressiva tanto da arrivare all’utilizzo di espressioni concretamente e inutilmente offensive volte a minare la dignità di persone che ritiene di citare. C.D.N. 13 aprile 2022, n. 10 – Confermata la delibera del Consiglio di disciplina territoriale dell’Umbria (sanzione: avvertimento) (https://www.odg.it/cdn-13-14-aprile-2022/44120). 

Tra quelle elencate (tutte gravi) quelle che forse hanno maggiore impatto emotivo (oltre alla 4) sono la prima e la sesta. La missione del giornalista infatti è quella di informare correttamente (“Il dovere più pregnante del giornalista e caposaldo del diritto di cronaca è il dovere di verità, considerato sia dalla L. n. 69/1963 che dalla stessa Carta dei Doveri quale “obbligo inderogabile(estratto da http://www.difesadellinformazione.com/26/la-deontologia-del-giornalista/). Così, se si dovesse giudicare “di pancia”, probabilmente si valuterebbe insufficiente la sanzione del mero avvertimento per il giornalista che tale missione abbia tradito, propalando dolosamente un’informazione non completa (dunque manipolata) pur di suffragare la propria tesi. Il caso n.8, poi, ha ad oggetto un reato commesso dal giornalista nell’esercizio della propria professione (diffamazione) . La sanzione comminata è stata l’avvertimento.

Se si volesse effettuare una comparazione con fattispecie analoghe relative ai magistrati, dovrebbe ancora rilevarsi come, per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, la sanzione comminata dal CSM oscilla tra la rimozione e la sospensione, mentre la giustizia disciplinare dei giornalisti si ferma all’avvertimento. Per fattispecie assimilabili a quelle di cui ai numeri 1 e 6, partendo dalla considerazione (che mi pare corretta) secondo la quale l’obbligo di verità del giornalista è equiparabile all’obbligo di imparzialità del magistrato, si può osservare che il CSM sanziona la violazione di quest’ultimo con la sospensione (Ordinanza n. 54 del 2022 - RGN 12/2022), mentre gli Ordini dei Giornalisti con il mero avvertimento.

 In un caso di diffamazione (che tuttavia per i magistrati assume i contorni di un illecito extra-funzionale), è stata comminata la censura (CSM,Sentenza n. 82 del 2011 - RGN 229/2009), mentre il giornalista è stato punito con il mero avvertimento.

Anche applicando il metodo “casistico”, dunque, la giustizia disciplinare dei magistrati appare più severa di quella dei giornalisti.

Un’altra fallacia dell’approccio casistico in esame è costituita dalla limitatezza quantitativa.

Se proprio si vuole indurre un giudizio generale partendo da casi particolari, è necessario che l’esame degli stessi sia statisticamente rilevante ed esteso ad un arco temporale continuo ed apprezzabile.

La corrente giornalistica in commento mi pare invece incline a compiere ampi salti temporali, selezionando poi all’interno dei singoli anni disciplinari (durante i quali sono decisi centinaia di casi) solo quelli capaci di destare il maggiore sussulto emotivo.

Procedendo in questo modo è impossibile inferire una valutazione su un intero sistema di giustizia disciplinare.

Possiamo così concludere l’analisi dell’approccio “casistico” utilizzato da alcuni giornalisti per criticare la serietà della giustizia disciplinare della Magistratura:

1) effettua un’analisi dei singoli casi contestando la dosimetria della sanzione, senza tuttavia effettuare un vaglio di conformità della decisione alle statuizioni contenute nel codice disciplinare dei magistrati;

2) non utilizza alcun termine di comparazione con i sistemi disciplinari di altre categoria professionali;

3) seleziona singole fattispecie, senza rispettare una linea di continuità temporale e senza vagliare all’interno di essa un numero di casi statisticamente apprezzabile;

4)applicato in chiave comparativa, porta ad un giudizio sulla severità della giustizia disciplinare dei magistrati esattamente opposto rispetto a quello sostenuto.

2. Una giustizia disciplinare poco trasparente.

Come accennato, accomuna ambedue le due correnti giornalistiche l’opinione che la giustizia disciplinare del CSM sia poco nitida.

E ciò, se ho ben inteso, per due ordini di ragioni.

La prima è costituita dall’impossibilità di effettuare l’accesso agli atti in caso di archiviazione disposta da parte del Procuratore Generale, mentre la seconda dalla circostanza che i nomi dei magistrati condannati non sono ostensibili.

Quanto alla prima doglianza, mi pare francamente inesatta. L’accesso non è precluso, semplicemente non segue le regole di cui all’art. 22 della legge n. 241 del 1990, ma quelle di cui  all’art.116 del Codice di procedura penale, secondo il quale “Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti”. L’unica differenza tra i due istituti è costituita dal fatto che l’eventuale rigetto dell’istanza ex art.116 cpp non è impugnabile. 

Difficile poi ritenere che tale ultima limitazione possa essere intesa come un privilegio di casta.

L’inquadramento dell’istanza di accesso al provvedimento di archiviazione del PG ai sensi dell’art.116 cpp invece che ai sensi dell’art.22 L.241/90, infatti, non è stato il frutto di una circolare del CSM, ma di un’interpretazione data dal Consiglio di Stato (da ultimo Consiglio di Stato, sez. V, 1 luglio 2021, n. 5712),che ha qualificato  gli atti relativi alla parte pre-disciplinare come atti giurisdizionali e non amministrativi (così sottraendoli alle disposizioni sull’accesso ex art. 22 della legge n. 241 del 1990).

Si tratta dello stesso Consiglio di Stato che, quando lo ha ritenuto, non ha risparmiato sentenze di annullamento alle delibere del CSM. Tutto si può sostenere, insomma, tranne che il Consiglio di Stato voglia assicurare dei privilegi alla Magistratura Ordinaria.

Vi è poi da sottolineare come l’eventuale limitazione di accesso all’atto di archiviazione della P.G. è più che compensata  dall’obbligo di inviare copia di tale provvedimento al Ministro della Giustizia, il quale vi si può opporre, chiedendo che l’azione disciplinare sia esercitata (non può trovare applicazione l’istituto dell’archiviazione ex art. 408 e ss cpp, in quanto esso è “logicamente incompatibile con il procedimento disciplinare, che non conosce parti offese rappresentate nel giudizio”, in tal senso https://www.scuolamagistratura.it/documents/20126/1750902/ssm_q8_v1.pdf).

Un tale meccanismo di check and balance non trova un eguale, ad esempio, nella disciplina della fase predisciplinare del procedimento disciplinare della classe forense, ove l’atto di archiviazione è comunicato sì ad un organo estraneo alla classe forense (il PM), ma solo nel caso in cui questo coincida con il soggetto dal quale è pervenuta la notizia di illecito .

Qualcosa di simile è invece previsto per il procedimento disciplinare dei giornalisti, per il quale la legge stabilisce che l’atto di archiviazione sia comunicato sempre al PM territorialmente competente, il quale si può opporre.

Assume poi rilievo tanto per il disciplinare dei giornalisti che per quello degli avvocati di primo grado una circostanza fattuale di grande peso. Mentre infatti la partecipazione del PM a tali procedimenti disciplinari è un evento assolutamente eccezionale sotto il profilo statistico, quella del Ministro della Giustizia ai procedimenti disciplinari dei Magistrati non è certo episodica. Basti pensare che in media circa il 30% delle azioni disciplinari vengono proposte su iniziativa di quest’ultimo. Questo fenomeno di partecipazione attiva di un soggetto pubblico estraneo alla Magistratura vale a rendere l’ accountability della fase predisciplinare molto più efficace di quanto non lo sia quella che caratterizza i procedimenti disciplinari di altre categorie di professionisti (ove un soggetto estraneo, normalmente il PM, viene coinvolto solo virtualmente o non viene coinvolto affatto). Invero è assolutamente improbabile che un soggetto così  solerte nello svolgimento delle indagini volte ad accertare l’eventuale commissioni di illeciti da parte dei magistrati e nel successivo esperimento dell’azione disciplinare come il Ministro della Giustizia possa poi restare inerte innanzi alla comunicazione di un provvedimento di archiviazione per un fatto che,a suo avviso, risulta invece meritevole di sanzione. 

Dirimenti poi, in punto di diritto, mi paiono anche le osservazioni svolte dal Procuratore generale dott. Luigi Salvato “Ad ulteriore conforto, è sufficiente osservare che, come è stato efficacemente osservato, «per ciò che concerne poi la qualificazione dell’interesse, esso non è ravvisabile nel solo fatto che l’accertamento preliminare sia avvenuto a seguito della segnalazione del privato, giacché il procedimento disciplinare non è finalizzato a tutelare l’interesse di questi ma dell’amministrazione della giustizia (e di conseguenza all’esponente non è assegnato alcun potere di impulso procedimentale o di partecipazione al procedimento, neppure nella fase pubblica)». Si tratta di considerazione di pregnante rilievo, tenuto conto che la pretesa all’accesso non fornisce «utilità finali», ma costituisce solamente un potere di natura procedimentale, avente finalità strumentali di tutela di posizioni sostanziali propriamente dette (di diritto soggettivo, ovvero di interesse legittimo) e, conseguentemente, spetta soltanto se sia collegata ad un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire un documento amministrativo” (estratto da https://www.giustiziainsieme.it/it/contatti/220-luigi-salvato).

Tali argomentazioni suffragano la correttezza dell’orientamento assunto dal Consiglio di Stato per il disciplinare dei Magistrati e la differenza di quello elaborato dallo stesso CDS per altri procedimenti disciplinari come, ad esempio, quelli relativi agli avvocati, per i quali è riconosciuto il diritto di accesso agli atti da parte dell’esponente (denunciante), ma non anche da parte di terzi (Adunanza Plenaria con la decisione 20 aprile 2006, n. 7 e Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2006, n. 7111).

Come accennato, la seconda doglianza è rappresentata dalla circostanza che i nomi dei magistrati condannati non sono ostensibili.

Si tratta di un rilievo difficile da comprendere, in quanto si tratta di un tratto comune a tutti i procedimenti disciplinari (giornalisti,avvocati,etc), i cui atti non possono essere pubblicati, se non previo oscuramento dei dati sensibili dei soggetti coinvolti (tra i quali, ovviamente, il destinatario dell’iniziativa disciplinare).

Mi si consenta tuttavia aggiungere sul punto un’ultima nota.

Mentre le statistiche dei procedimenti disciplinari e predisciplinari dei magistrati sono pubblicate annualmente tramite una relazione dettagliata del Procuratore Generale (che dà esatta contezza degli esposti pervenuti, di quelle archiviate, delle azioni disciplinari esercitate, del numero di condanne e del tipo di sanzioni comminate), altrettanto non può dirsi per le altre categorie di professionisti.

Nonostante abbia effettuato una puntigliosa ricerca sulla rete e nonostante abbia formulato istanze di accesso civico a diversi ordini professionali ed allo stesso Dipartimento della funzione pubblica, ho faticato non poco a ricostruire i dati relativi alla giustizia disciplinare dei liberi professionisti e degli altri dipendenti pubblici.

Ad esempio il Dipartimento della funzione pubblica raccoglie i dati delle iniziative disciplinari intraprese e delle condanne comminate, ma non quelli degli esposti ricevuti. Inoltre non indica puntualmente la tipologia di sanzioni comminate. 

Tra i Consigli Distrettuali di disciplina di forense solo quello di Roma  ha pubblicato i dati relativi a procedimenti disciplinari. Tuttavia essi sono presenti in rete solo per gli anni 2020 e 2022. Tra i Consigli di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti, solo quello della Lombardia ha pubblicato i dati relativi a procedimenti disciplinari. Il CNF raccoglie solo i dati dei ricorsi presentati e del loro esito, ma non anche quelli dei procedimenti disciplinari incardinati presso i singoli Consiglio Distrettuali di disciplina e del loro esito. Lo stesso dicasi per il Consiglio Nazionale di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti.

In sintesi, non mi pare che la giustizia disciplinare della Magistratura sia meno trasparente di quella di altri professionisti. Si potrebbe semmai sostenere il contrario.

3. Una giustizia disciplinare totalmente domestica.

L’ultima argomentazione trasversalmente proposta è anche quella la cui fallacia è dimostrabile in poche righe.

Essa consiste nell’enfatizzare la contraddizione insita nella circostanza che a comporre l’organo che giudica sugli illeciti disciplinari di cui sono incolpati i magistrati siano altri magistrati (il C.S.M.)

Sarebbe facile obiettare come il Consiglio Superiore della Magistratura fu previsto dall’Assemblea Costituente, come necessario presidio dell’autonomina ed indipendenza dell’Ordine Giudiziario (principi parimenti consacrati nella costituzione).

Preferisco tuttavia affrontare la problematica da un’altra angolazione e segnatamente in chiave comparativa.

In particolare è possibile constatare come gli organi disciplinari di tutte le categoria professionali siano composti esclusivamente da membri della stessa.

Se il CSM è composto da magistrati, i Consigli Distrettuali di disciplina di forense ed il Consiglio Nazionale Forense (giudici disciplinari degli avvocati, rispettivamente di primo grado e di appello) sono composti da avvocati. Lo stesso dicasi per i Consigli di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti e Consiglio Nazionale di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti (giudici disciplinari dei giornalisti, rispettivamente di primo grado e di appello). La situazione non muta per gli altri dipendenti pubblici, in quanto l’Ufficio Procedimenti Disciplinari di ciascun ente pubblico è composto da dipendenti appartenenti a quello stesso ente.

Ed anzi, sotto il profilo strutturale il CSM si palesa molto meno “domestico” dei giudici disciplinari appena elencati.

Ed infatti un terzo dei membri del CSM non è composto da Magistrati, ma da Avvocati e Professori Universitari nominati dal Parlamento.

Al contrario, i summenzionati organi disciplinari sono composti solo da appartenenti alle rispettive categorie, dagli stessi eletti.

Inoltre l’iniziativa disciplinare ed la legittimazione ad impugnare le decisioni della Sezione Disciplinare del CSM spetta non al solo Procuratore Generale, ma anche al Ministro della Giustizia.

Si potrebbe obiettare come un simile potere è riconosciuto anche al PM con riguardo alle categorie dei giornalisti e degli avvocati.

Si tratterebbe tuttavia di un argomento inconsistente. E ciò per due ragioni.

La prima è che, mentre il Ministro della Giustizia ha un plesso amministrativo servente (l’Ispettorato) che gli consente di acquisire direttamente la notizia della commissione degli illeciti disciplinari commessi dai magistrati e di promuovere dunque l’azione, il PM non ha alcuno strumento similare.

Ne discende come l’azione disciplinare per tali categorie di professionisti muove dal PM solo quando viene commesso una fattispecie di reato (di cui il PM abbia contezza), che al contempo integra un illecito disciplinare. Solo in questo caso il PM trasmette la notizia ai Consigli di Disciplina, dando così impulso all’azione disciplinare.

Al contrario il Ministro, grazie all’Ispettorato, può acquisire elementi utili a proporre un’azione disciplinare anche laddove essa non abbia la propria scaturigine dalla commissione di una fattispecie di reato.

La conferma di tali asserzioni si trova nelle statistiche contenute nelle relazioni del Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dalle quali emerge come il Ministro eserciti in misura consistente l’azione disciplinare motu proprio. La stessa cosa non può dirsi per i liberi professionisti summenzionati, ove la figura del PM risulta marginale, riducendosi (come detto) a trasmettere all’ordine di appartenenza la notizia di reato. Un meccanismo che,per giunta, è presente anche per i magistrati. Ed infatti l’iscrizione delle notizia di reato contro uno di essi dà luogo sempre all’apertura di un procedimento disciplinare, tramite la trasmissione della stessa al P.G.

Si potrebbe ancora obiettare come il Giudice di ultimo grado disciplinare sia costituito per i magistrati come per  gli avvocati dalla Corte Cassazione (ovviamente composta solo da magistrati)  e per il giornalisti dal Tribunale territorialmente competente.

Il che porterebbe a ritenere che, almeno in ultima istanza, la giustizia disciplinare dei primi sia totalmente domestica, mentre la giustizia disciplinare dei secondi sia totalmente non domestica.

Anche questa argomentazione non coglierebbe nel segno.

Ed infatti da una lettura delle massime delle decisioni assunte dalla Cassazione (per gli avvocati) e dai Tribunali (per i giornalisti) in sede di impugnazioni delle decisioni degli organi di disciplina dei liberi professionisti emerge chiaramente come esse (salvo rarissime eccezioni) sono assunte su ricorso del libero professionista che sia stato condannato dal proprio giudice disciplinare domestico e mai su ricorso proposto dal PM (o Procuratore Generale presso la Corte di Appello)

Ciò significa che, se il giudice disciplinare dell’ordine assolve il suo membro, la questione non arriverà mai al giudice “non domestico”.

In sintesi, la giustizia disciplinare di ultima istanza può al più migliorare la posizione del libero professionista, ma mai deteriorarla.

Il che rende la circostanza consistente nell’essere i magistrati valutati disciplinarmente in ultima istanza da un organo composto da soli magistrati (diversamente dai liberi professionisti) concretamente ininfluente.

Se l’organo disciplinare dei liberi professionisti vuole essere corporativo (assolvendo spesso), il giudice ordinario non potrà mai porvi rimedio, perché non vi sarà mai nessuno che impugna davanti a lui.

Pertanto CFN e Consiglio Nazionale di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti sono, almeno per le decisioni assolutorie, di fatto organi di ultima istanza, composti solo da appartenenti alla categoria, diversamente dal CSM.

Le stesse considerazioni valgono per gli altri dipendenti pubblici, per i quali il giudice disciplinare di ultima istanza è costituito dal Giudice Amministrativo.

Chiudo questo breve dissertazione con due note di colore.

4.Responsabilità dei magistrati e matematica.

Ho letto alcuni articoli in cui si propone di far conseguire automaticamente la sanzione disciplinare alle ipotesi in cui lo Stato riconosce in favore del detenuto l’indennità per ingiusta detenzione o il risarcimento per errore giudiziario. In altri casi si propone di farvi conseguire automaticamente l’obbligo del magistrato di rifondere le somme erogate dallo Stato, tramite azione di rivalsa (in tal senso, salvo errore, mi pare l’articolo di Riccardo Radi, “E se i magistrati pagassero di tasca loro per le ingiuste detenzioni?”, rinvenibile su https://www.ildubbio.news/giustizia/e-se-i-magistrati-pagassero-di-tasca-loro-per-le-ingiuste-detenzioni-l7bsaje6).

Ancora una volta l’approccio mi pare scientificamente non corretto. Forse è il caso di fare alcune precisazioni.

Se si vuole parlare di responsabilità disciplinare dei magistrati è necessario partire dal concetto di colpa e calarlo all’interno di quella particolare attività che è costituita dal giudicare, nella sua duplice declinazione di interpretare il diritto e di interpretare le prove, due attività connotate da una ineliminabile discrezionalità.

L'art. 314 Codice di procedura penale distingue dei casi che legittimano la riparazione per ingiusta detenzione:quello dell'imputato prosciolto (o a favore del quale sia pronunciato un provvedimento di archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere) e quello dell’indagato in favore del quale con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 cpp. Se vogliamo ragionare in ordine alla erronea applicazione della misura custodiale, dobbiamo prendere in considerazione solo la seconda fattispecie. Tanto premesso, veniamo ai dati statistici. Riporto un passaggio estratto da il Dubbio (autore V.Stella,rinvenibile su https://www.ildubbio.news/giustizia/ingiusta-detenzione-in-30-anni-quasi-un-miliardo-in-risarcimenti-iwcalk1r) : "La percentuale di accoglimento nello scorso anno è del 48,5%, quella di rigetto del 45,2%. Tra il 2018 e il 2023 il 72,2% delle domande sono state accolte a seguito di sentenza di assoluzione, proscioglimento, archiviazione, quindi per accertata estraneità della persona ai fatti contestati. Mentre per illegittimità delle ordinanze di custodia cautelare, secondo l’articolo 314 cpp, la percentuale è vicina al 28%" .

Questo significa che per 100 misure di custodia cautelare a cui non ha fatto seguito una sentenza di condanna definitiva e che sono state quindi oggetto di domanda di riparazione, solo per il 48,5%  queste ultime abbiano avuto l'accoglimento. Inoltre solo nel 28% di questo 48,5% l'accoglimento è stato determinato dall'assenza delle condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 cpp. 

Poichè l'errore giudiziario (inteso come provvedimento emesso in difetto dei suoi presupposti) è solo quello verificato ex art. 314,comma 2, codice di procedura penale e la condizione di ammissibilità della domanda ex art.314 e ss cpp è la sentenza di proscioglimento, la situazione da esaminare è la seguente: 100 (domande ammissibili) , 48,5 ( 48,5%) accolte ed il 28% di queste 48,5 appartiene alla fattispecie che ci interessa. Dunque su 100 sentenze di proscioglimento precedute da custodia cautelare solo in 13,58 casi la custodia non doveva essere disposta. Quindi 1 caso su 7,5. In paesi come gli Stati Uniti questo tipo di errore è pari a 6/7 di più (ma non vanno meglio paesi come il Giappone o l’ Argentina). 

Fatta questa premessa e delimitato così il dato statistico dell’errore giudiziario in senso stretto in materia di adozione della misura della custodia cautelare, è ora il caso di chiedersi se, laddove esso ricorra, è sempre possibile ancorarvi una responsabilità disciplinare , contabile o amministrativa.

Quanto alla seconda, il prevalente orientamento della giurisprudenza contabile  ancora il riconoscimento della stessa alla colpa grave,che descrive come   “sprezzante trascuratezza dei propri doveri, resa estensiva attraverso un comportamento improntato a massima negligenza o imprudenza ovvero ad una particolare non curanza degli interessi pubblici” (ex multis Corte dei conti, SS.RR. 7/1/98, n. 1/A).

Non diversamente avviene per la terza. Ed infatti è regola generale quella secondo cui il dipendente pubblico è chiamato a rispondere nei confronti dell’amministrazione solo in caso di dolo o colpa grave, mentre  i danni a terzi per colpa non grave restano a carico della P.A.

Fatte queste premesse di ordine generale e valide per tutti i dipendenti pubblici, non si vede in cosa da esse si discosti la legge 1988, n. 117 che, regolando il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e la responsabilità “civile” dei magistrati (in verità,com’è evidente dalla struttura della disposizione, si tratta di responsabilità amministrativo-contabile), stabilisce (art.2) “Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali” e(art.7) “Il Presidente del Consiglio dei ministri, entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale, ha l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all'articolo 2, commi 2, 3 e 3-bis, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile”.

Al contrario, regola generale per la responsabilità disciplinare è che essa possa configurarsi anche in caso di colpa non grave.

Ebbene, tanto premesso, occorre ora chiedersi cosa debba intendersi per comportamento colposo con riferimento all’attività giudiziaria,composta (come già ribadito) da due momenti concomitanti (interpretare il diritto ed  interpretare le prove), ambedue  connotati da una ineliminabile discrezionalità.

Come è stato ben rimarcato da più voci autorevoli,giudicare, decidere, significa interpretare (disposizioni di legge e prove) ed interpretare significa argomentare (ex multis Argomenti interpretativi di Giovanni Tarello,  o Ch. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell'argomentazione. La nuova retorica, tr. it. di C. Schick, M. Mazer e E. Barassi, Einaudi, Torino, 1976).

Interpretare fatti e disposizioni diligentemente, pertanto, significa argomentare su di essi in maniera compiuta e  ragionevole, anche se non condivisibile.

La colpa, cioè la negligenza, va riferita dunque alla qualità dell’interpretazione e non alla circostanza che essa sia poi condivisa dai giudici dei gradi successivi (che potrebbero argomentare diversamente). 

Ed in questo sta il fondamento della disposizione ripetuta tanto nel codice disciplinare dei magistrati quanto nella legge sulla responsabilità “civile” degli stessi, che stabilisce “non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

Far discende dunque la responsabilità contabile,amministrativa o disciplinare del magistrato dalla mera circostanza dell’avvenuta riforma nei gradi successivi della decisione adottata da quest’ultimo significherebbe creare una forma di responsabilità oggettiva, del tutto eccentrica rispetto a quella propria di qualsiasi dipendente pubblico o libero professionista.

Banalizzando, dovremmo allora sostenere per dovere di coerenza che, se l’avvocato propone una causa ed il giudice rigetta la domanda, egli è automaticamente responsabile sotto il profilo disciplinare o civile, perché ha errato.

Atto di citazione o comparsa di costituzione, costituzione di parte civile o difesa nel processo penale sono infatti  strutturalmente espressioni di giudizio formulate da un tecnico del diritto e sottoposte al vaglio di un altro tecnico del diritto, che assume posizione ordinamentale di organo decidente.

Si potrebbe obiettare che l’equiparazione appena descritta si traduca in una fallacia logica, sub specie di una falsa analogia, essendo diversa la posizione dell’avvocato (che non decide) rispetto a quella del giudice (che decide).

Ma non è così.

E’ vero infatti  che quella formulata dall’avvocato è solo una prospettazione di giudizio/decisione.

Ma è altrettanto vero che diviene tale anche il provvedimento giurisdizionale del giudice di prime cure una volta che esso viene impugnato.

Innanzi al giudice del grado successivo, infatti, il primo giudizio si trasforma in un’ipotesi di giudizio,avendo questo primo il potere di discostarsi dall’interpretazione del diritto e delle prove fatta dal collega di prime cure, esattamente come quest’ultimo l’aveva rispetto a quella formulata dagli avvocati in primo grado.

La differenza tra avvocato e giudice nell’espressione del giudizio in una prospettiva di responsabilità per colpa (civile o disciplinare) non può più essere ravvisata, allora, nella distinzione di funzioni, ma al più nel patrimonio conoscitivo.

Ed infatti se è  vero che il giudice esprime il proprio giudizio (interpreta legge e prove) sulla base di una piena cognizione probatoria, l’avvocato talvolta non ha piena contezza delle prove che saranno prodotte da controparte.

Si tratta tuttavia di una differenza eventuale e che non sempre sussiste tra avvocato e magistrato.

Essa non vi è ad esempio in tutte le ipotesi in cui i fatti non siano controversi o ancora in quelle in cui le prove siano a disposizione di ambedue le parti o comunque da esse reciprocamente conosciute.

In queste fattispecie il legale ha ab origine lo stesso patrimonio conoscitivo che avrà il giudice.

Non vi è poi asimmetria informativa tra avvocato e pubblico ministero, poiché la discovery reciproca  avverrà in modo completo solo con l’inizio del giudizio (dunque superata la fase dell’udienza preliminare, potendo in apertura di dibattimento il difensore produrre prove ed indicare testi non presenti nel fascicolo del difensore).

Avalla la tesi qui sostenuta un consolidato orientamento della Cassazione che, pur formatosi sul tema della responsabilità civile dell’avvocato, esprime principi suscettibili di essere estesi anche alla materia disciplinare (che invero espressamente richiama): “in tema di responsabilità dell’avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito ex ante e non ex post, sulla base dell’esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente" (così Corte di Cassazione sez. III Civile ordinanza 13 settembre – 22 novembre 2018, n. 30169, ma si veda anche Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11906 del 10/06/2016, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10289 del 20/05/2015).

La stessa pronunzia, nell’interpretare l’art. 27 del Codice di deontologia forense, precisa “la norma deontologica non si spinge a enunciare un obbligo dell’avvocato che accetta il mandato alle liti di formulare un pronostico sull’esito della lite… Del resto, in un ordinamento ove non vige la regola dello stare decisis, tipica degli ordinamenti appartenenti alla common law, ed è garantito un doppio grado di merito e un giudizio di legittimità, il fatto che i precedenti giurisprudenziali, oramai reperibili su siti Internet comunemente accessibili, siano tesi a garantire un’uniforme applicazione e interpretazione del diritto, e dunque una prevedibilità delle decisioni, non significa che l’avvocato, nella strategia difensiva che discrezionalmente sceglie e assume nell’interesse del cliente, sia tenuto ad avviare controversie solo sulla base di un pronostico di esito favorevole”.

Questi sono dunque i criteri alla luce dei quali poter formulare un sindacato di diligenza/negligenza sull’attività del giudicare/decidere.

Non una mera equazione matematica: rigetto=colpa=responsabilità disciplinare/civile o riforma= colpa=responsabilità disciplinare/civile, ma qualità dell’argomentazione sulle prove ed in punto di diritto, ancorchè dissonante dalle decisioni che verranno o dai precedenti arresti giurisprudenziali.

Chiunque dunque affermi la necessità di far discendere la responsabilità civile o disciplinare del magistrato dalla mera circostanza dell’avvenuta riforma dell’ordinanza cautelare o di qualsiasi altro provvedimento giurisdizionale (civile o penale) parte da premesse epistemologicamente erronee e giunge dunque a conclusioni altrettanto erronee, pretendendo di assimilare l’attività intellettuale del giudicare ad mero calcolo matematico.

Seguendo questa linea di pensiero, non solo ogni domanda o difesa rigettata dovrebbe portare a responsabilità civile e disciplinare dell’avvocato, ma anche ogni annullamento o riforma da parte del G.A. dovrebbe portare a responsabilità amministrativa-contabile e disciplinare del dipendente della P.A. che l’ha adottato.

Ed infatti anche il decidere amministrativo si compone dei momenti di interpretazione delle prove e del diritto.

5.La super responsabilità del magistrato.

Ad un confronto organizzato per presentare “Il libro nero della magistratura” di Stefano Zurlo che mi è capitato di ascoltare casualmente su YouTube (rinvenibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=NWkH8L2Mup0), hanno partecipato,oltre all’autore,un mio collega, un giornalista ed un avvocato.

Ho trovato interessante un particolare scambio intervenuto tra i relatori, che proverò a riassumere qui di seguito.

In breve, il mio collega ha rilevato come il libro di Zurlo non riuscisse a consegnare al lettore degli strumenti per formulare un giudizio obiettivo sulla serietà della giustizia disciplinare della magistratura, utilizzando il sopra descritto metodo “casistico”. Lo stesso collega si interrogava poi sul motivo per il quale l’Autore non avesse effettuato almeno un’opera di comparazione (anche solo casistica) con i sistemi disciplinari di altre categorie professionali.

Quello che mi ha più colpito è stata la replica formulata da alcuni degli altri relatori. A loro avviso, infatti, una comparazione non sarebbe possibile, in quanto il potere di cui sono magistrati è tale  che essi debbono essere chiamati a rispettare una forma di rigore disciplinare più alta e rigorosa di qualsiasi altro professionista. Si sosteneva dunque come, essendo enormi i danni che gli errori del singolo magistrato possono avere sulla collettività e sul singolo individuo (ben maggiori rispetto a quelli che può produrre  qualsivoglia altro membro di una categoria professionale), una comparazione con altre classi di lavoratori pubblici o privati non avrebbe avuto senso.

Lo ammetto: non mi hanno convinto.

Concordo sul fatto che il potere della Magistratura sia qualitativamente diverso da quello dell’Avvocatura o del giornalismo (tanto per fare due esempi), ma non anche che esso sia potenzialmente foriero di maggiori danni rispetto a quello proprio di questi ultimi due, se utilizzato in modo negligente.

Facciamo qualche esempio al fine di rendere più nitido il quadro, principiando dalla comparazione con gli avvocati.

E’ vero ad esempio che il giudice civile che, nel pronunziarsi una controversia, giudichi negligentemente, provoca un danno patrimoniale alla parte che dichiara ingiustamente soccombente.

Tuttavia è altrettanto vero che il medesimo danno viene provocato a quella stessa parte dal suo avvocato che, nel predisporre l’atto di citazione o la comparsa di risposta, operi con superficialità (magari proponendo l’azione sbagliata o non depositando prove decisive in favore del suo assistito o omettendo di porre in essere un atto processuale successivo o di sollevare una determinata eccezione non rilevabile d’ufficio). In tutti questi casi sarà stato il negligente operato del legale a determinare la soccombenza e, dunque, il danno. Un danno perfettamente identico a quello derivante da una sentenza emessa con negligenza.

Le stesse considerazioni possono essere estese all’avvocato che presti la sua opera come difensore in un procedimento (e poi nel processo) penale.

Si pensi al mancato svolgimento di adeguate investigazioni difensive, all’omessa indicazione di testimoni a favore, alla mancata produzione di documenti rilevanti, all’omessa partecipazione all’udienza , all’erronea impostazione della strategia difensiva o ad un’eccezione non formulata. Tutte queste condotte negligenti sono idonee a provocare la condanna di un innocente, non diversamente  da una sentenza pronunziata con superficialità.

Un caso particolare è poi quella della mancata scarcerazione della persona sottoposta a custodia cautelare per decorrenza dei termini massimi.

Si tratta di una fattispecie che, ove si configuri, vede il magistrato che ha omesso di disporre la liberazione  quasi sempre condannato in sede disciplinare (salvo casi eccezionali, nei quali questa negligenza possa essere ritenuta scusabile, come un’eccezionale mole di lavoro o situazioni assimabili).

Si dimentica tuttavia come, dietro la dimenticanza del giudice, spesso c’è l’omessa formulazione dell’istanza di liberazione da parte del difensore, che dovrebbe giungere tempestivamente all’ufficio del magistrato. Se infatti è vero che quest’ultimo è tenuto per legge a disporre la scarcerazione d’ufficio, è altrettanto vero che il difensore è tenuto in base all’ ordinamento della professione forense a tutelare la posizione del proprio assistito con la massima diligenza e solerzia. Ed allora la condotta dell’avvocato che ometta di formulare tempestivamente l’istanza di liberazione concorre con quella del giudice nella causazione del danno da ingiusta detenzione. Ed anzi si potrebbe sostenere che il comportamento del primo è connotato da maggiore negligenza rispetto a quello del secondo. Infatti il magistrato (giudice o PM) è normalmente assegnatario di centinaia (spesso migliaia) di fascicoli, tra cui ovviamente vi sono diversi casi nei quali è stata disposta una misura custodiale. Al fine di rammentare la scadenza dei termini, dunque, non può che fare affidamento sulla cooperazione della propria cancelleria, molto spesso caratterizzata da una pianta organica troppo ridotta. Al contrario l’avvocato, anche se professionalmente molto attivo, può al più prestare contemporaneamente il proprio patrocinio in una decina di processi,pochissimi dei quali interessati da un provvedimento di custodia cautelare. Pertanto la sua dimenticanza è assai più inescusabile di quella del magistrato ed altrettanto dannosa.

Il potere dei giornalisti è qualitativamente diverso da quello dei magistrati, ma non lo definirei come potenzialmente foriero di danni minori.

Esso infatti consiste nel potere di informare la cittadinanza e dunque di formare l’opinione pubblica. Il nome Quarto Potere, che da tempo è utilizzato per descrivere i mezzi di comunicazione di massa, rende efficacemente l’idea dell’incidenza che esso ha sulla vita del Paese. 

Informare i cittadini significa infatti formare l’opinione che il pubblico ha su una questione o su una singola vicenda. Un potere enorme, diverso qualitativamente, ma non quantitativamente, da quello del Terzo Potere (la Magistratura). 

Una notizia fornita in modo dolosamente o colposamente inesatto può avere conseguenze enormi sulla vita della Nazione, influendo sulla sua vita politica o sull’andamento dell’economia. Essa può poi riverberarsi negativamente, in modo dirompente e talvolta irrimediabile, anche sulle vite dei singoli.

Si pensi alla notizia dell’apertura di un’indagine penale nei confronti di un individuo data evidenziando solo gli elementi di prova a carico e non anche quelli a discarico. Si pensi a rappresentazioni relative alle vicende di minori, ove la notizia viene divulgata in termini scandalistici più che oggettivi o non presenti un reale interesse per il pubblico a conoscerla o sia in violazione della Carta di Treviso (come nel caso di foto poco edificanti che li ritraggono). Si pensi ancora a notizie presentate come fatti di reato certamente commessi, quando ancora non è stata neppure iscritta una notizia di reato. Tutte quelle elencate sono notizie che segnano indelebilmente la vita di chi ne è oggetto, frantumandone irrimediabilmente la reputazione e con essa i rapporti sociali e lavorativi.

Spostandoci ad altre categorie professionali, si pensi al medico che commetta un errore diagnostico o terapeutico o al commercialista che si renda colpevole di errori di contabilizzazione o di dichiarazione reddituale. Si pensi al funzionario o al dirigente dell’ente pubblico che faccia iscrivere al ruolo esattoriale un credito inesistente o quello che emetta un’ordinanza di ingiunzione per un illecito amministrativo mai commesso. Possiamo in tutta onestà affermare che tali categorie di professionisti non producano danni equiparabili a quelli di un magistrato? Non mi pare. Ed allora la giustizia disciplinare di costoro non dovrebbe essere egualmente severa ed identicamente posta sotto i riflettori? 

Eppure così non è.

Nessun articolo sull’Avvocato dello Stato che abbia mal impostato la causa senza subire una sanzione disciplinare (o subendone una inadeguata), nessuno sul professionista forense che abbia commesso identici errori, nessuna analisi della giustizia disciplinare delle molte categorie sopra elencate, né in chiave casistica, né statistica.

Vi sarebbe da chiedersi “come mai”?

6. Conclusioni: un po’ di sana autocritica.

Se chiudessi questo articolo senza nulla aggiungere, immagino sarei tacciato di corporativismo. Il solito magistrato che difende la sua categoria, insomma.

Poiché,al contrario, io non lesino critiche all’Ordine di cui faccio parte quando le reputo fondate, debbo necessariamente aggiungere poche righe per chiarire il mio pensiero.

Se vero che le correnti giornalistiche che applicano il metodo “statistico” o “casistico” per sottoporre a vaglio critico la giustizia disciplinare della magistratura utilizzano un approccio di analisi non corretto e fuorviante, è altrettanto vero che a mio avviso qualcosa che non va c’è davvero.

E forse non solo a mio avviso. Riprendo le parole dell’articolo del collega Claudio Castelli (già citato) “La vicenda dei ritardi è comunque emblematica di una tendenza estremamente viva, anche a livello di legislazione, della tentazione di utilizzare lo strumento disciplinare per cercare di governare la magistratura. L’illusione, pericolosa, è che lo strumento disciplinare non debba essere indirizzato a colpire comportamenti patologici, bensì a gestire la magistratura enucleando nuove fattispecie disciplinari introducendole nelle modifiche processuali che di volta in volta vengono proposte. L’idea, non nuova e che trova un simmetrico supporto in aree della magistratura che utilizzano ciò a fini interni, è di governare con la paura”.

Io ritengo che il vero problema del sistema disciplinare della magistratura sia costituito non da un inesistente corporativismo, ma dalla c.d. deriva delle correnti.

Quest’ultima, almeno nel recente passato, penso sia stata la causa del frequente utilizzo di due pesi  e due misure..

Ci si è  trovati così innanzi a condotte gravi punite con una sanzione lieve (o non  punite) e condotte assai meno gravi punite con la medesima sanzione.

Un fenomeno reso possibile da un codice disciplinare caratterizzato da fattispecie disciplinari poco rispondenti al principio di tipicità ed assai sfumate, nonché da una discrezionalità sanzionatoria eccessivamente ampia.

La radice del problema resta tuttavia la degenerazione correntizia, capace di tagliare trasversalmente tutto il Consiglio. Un male contro il quale (ormai mi pare evidente ) l’unica cura possibile è costituita  dall’introduzione del sorteggio dei membri del C.S.M.

Probabilmente il clientelismo disciplinare è un problema comune anche ad altre categorie professionali. Tuttavia ritengo che ognuno debba guardare a quello che accade a casa propria, tentando di porvi rimedio. E poiché la Magistratura mi pare che non sia riuscita a farlo autonomamente (almeno sino agli scandali recenti, censurati dallo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella), andrebbe salutato con favore il disegno di legge costituzionale proposto da questo Governo e che prevede l’introduzione del sistema del sorteggio.

Dott. Francesco Lupia

Magistrato Ordinario




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