Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  03/07/2020

La giustizia politica italiana: i reati ministeriali ieri, oggi e domani - Luigi Trisolino

La tematica dei cc.dd. reati ministeriali è una tematica molto attuale e di rilievo costituzionale. È già maturo il tempo per meditare una ulteriore fase – quella europea – per la disciplina dei reati ministeriali. 

Si potrebbe pensare di coordinare le diverse discipline giuridiche dei Paesi membri dell’Unione europea, in materia di responsabilità penale per le persone fisiche che rivestono funzioni governative, ai fini di una maggiore efficienza e solidità delle strutture istituzionali operanti nei diversi formanti statuali di quello che un domani potrebbe essere lo spazio politico federale degli Stati Uniti d’Europa. In Europa occorre essere compatti in materia, dato che la disciplina sui reati ministeriali impatta anche sul rapporto tra le diversi anime funzionali e tra i diversi poteri di ogni Stato, e quindi sulla forma di governo.

Per poter pensare ad una eventuale riforma progressista e garantista del sistema giuridico in materia di responsabilità penale dei Ministri e del Presidente del Consiglio dei Ministri, occorre studiare anzitutto le radici storiche dei reati ministeriali e, più in generale, della c.d. giustizia politica. Questo tipo di responsabilità, in ogni epoca storica, suscita interrogativi e apre delicati dibattiti sul significato giuridico dei princìpi di uguaglianza, da un lato, e di separazione dei poteri dello Stato, dall’altro lato. La tematica dei reati ministeriali si inserisce nella nota espressione “giustizia politica” perché le norme sulla responsabilità ministeriale possono incidere, in modo critico, sugli stessi equilibri esistenti tra i distinti e separati poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

In Italia la Costituzione repubblicana del 1948, nella parte in cui stabilisce le regole generali sul funzionamento degli organi del potere esecutivo, ed in particolare nell’articolo 95, comma secondo, sancisce che i Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei singoli ministeri. Parlando di responsabilità penale dei Ministri, così, occorre chiedersi cosa siano i reati ministeriali e quali siano le ragioni situate alla base delle procedure formali prescritte per il loro accertamento. I reati ministeriali sono reati commessi dai membri del potere esecutivo. Alcuni ordinamenti giuridici sottopongono questi reati a forme di giustizia speciale, di tipo politico o misto. 

Mentre in Francia dal 1993 questi reati particolari sono sottoposti alla giurisdizione della Corte di giustizia della Repubblica, composta da dodici parlamentari e tre magistrati, in Italia l’articolo 96 della Costituzione repubblicana attualmente sancisce quanto segue: 

“Il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”.

La procedura da seguire per i reati ministeriali è disciplinata dalla legge di revisione costituzionale numero 1 del 1989, e dalla legge numero 219 del medesimo anno. 

Un eventuale caso riguardante i crimini dei Ministri nello svolgimento delle loro funzioni istituzionali sarebbe di competenza del Tribunale ordinario, che in queste circostanze opererebbe come “Tribunale dei Ministri”. L’espressione “Tribunale dei Ministri” non è presente nei testi normativi, ma è utilizzata per consuetudine in ragione della particolare composizione dell’organo giurisdizionale investito di una questione legale che coinvolge un Ministro, o il Presidente del Consiglio dei Ministri, a causa dello svolgimento delle proprie attività istituzionali. Questo tribunale non è un tribunale speciale, ma è qualificabile come una sezione specializzata del tribunale ordinario. Esso è costituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’Appello competente per territorio, in ragione del luogo di commissione del reato ministeriale.

Il “Tribunale dei Ministri” è un collegio giudiziario composto da tre membri effettivi e tre supplenti, estratti a sorte tra tutti i magistrati in servizio nei tribunali del distretto. I magistrati devono avere la qualifica di magistrato di tribunale da almeno cinque anni, oppure una qualifica superiore. Queste regole sono state poste per garantire un’adeguata esperienza in delicate decisioni che potrebbero riguardare il contenuto di determinati atti politici. 

Il “Tribunale dei Ministri” è presieduto dal magistrato con funzioni più elevate, o in caso di parità di funzioni dal magistrato più anziano per carriera. Quest’organo a composizione specializzata si rinnova ogni due anni, ed è immediatamente integrato in caso di cessazione o di grave impedimento di uno o più dei suoi componenti. 

Entro novanta giorni dal ricevimento degli atti riguardanti un fatto o un atto ministeriale, compiute le indagini preliminari e sentito il Pubblico Ministero, il “Tribunale dei Ministri” deve decidere se procedere oppure archiviare l’indagine con un decreto non impugnabile. Se esso sceglie di procedere, trasmette gli atti con una relazione motivata al Procuratore della Repubblica per la loro immediata rimessione al Presidente del ramo del Parlamento competente per legge.

Il Presidente del ramo parlamentare competente invia gli atti così ricevuti alla Giunta per le autorizzazioni a procedere, secondo le prescrizioni del regolamento della Camera interessata. La Giunta riferisce all’assemblea della stessa Camera con una relazione scritta, dopo aver ascoltato eventualmente i soggetti interessati. A partire dal momento della consegna degli atti al Presidente della Camera competente, l’assemblea si riunisce entro sessanta giorni e nello stesso termine essa può negare l’autorizzazione a procedere a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con una valutazione insindacabile. La negazione dell’autorizzazione a procedere è legittima se la maggioranza assoluta ha ritenuto che il Ministro abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo.

Se l’assemblea decide di concedere l’autorizzazione a procedere, essa rimette gli atti al “Tribunale dei Ministri” per la continuazione del procedimento sul reato ministeriale.

Questo appena illustrato è il quadro giuridico attualmente in vigore nell’ordinamento italiano, ossia il prodotto dell’ultimo sforzo evolutivo in materia di giustizia “politica” e accertamento processuale dei reati dei Ministri. 

Prima dell’entrata in vigore della legge di revisione costituzionale numero 1 del 1989, l’articolo 96 della Costituzione statuiva che per i reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri potessero essere messi in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, ossia da un organo complesso che normalmente è titolare soltanto della funzione legislativa. Una volta messi in stato d’accusa, il giudizio veniva attribuito alla Corte Costituzionale e non al giudice ordinario. Come si può notare, la portata sistematica del cambiamento intervenuto a partire dal 1989 è molto rilevante.

I limiti del meccanismo istituzionale precedente alla legge di revisione costituzionale del 1989 divennero oggetto di riflessioni e rimeditazioni nell’opinione pubblica, oltre che nei lavori scientifici dei giuristi, a causa di quello che è ricordato come lo scandalo Lockheed del 1977. Questo scandalo riguardò gravissimi casi di corruzione avvenuti negli anni Settanta in Italia, Paesi Bassi, Germania occidentale, Giappone. L’azienda statunitense Lockheed aveva pagato alcune tangenti a politici e militari stranieri per vendere ai sopra menzionati Stati esteri i propri aerei militari. In Italia, molti soggetti furono accusati di aver intascato cospicue tangenti per favorire appunto l’acquisto di aerei da parte del Ministero della Difesa italiano. Furono quindi posti in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune e poi processati in Corte Costituzionale Mario Tanassi, all’epoca dei fatti Ministro della Difesa, Mariano Rumor, all’epoca dei fatti Presidente del Consiglio dei Ministri, e Luigi Gui, all’epoca Ministro per l’organizzazione della Pubblica Amministrazione e per le Regioni. Di questi soltanto Tanassi venne condannato dalla Corte Costituzionale, in composizione integrata, a due anni e quattro mesi di reclusione per il delitto di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. La sentenza di condanna, che comminò pure la decadenza dal seggio parlamentare, fu ratificata da un voto della Camera dei deputati nell’esercizio di una autodichia speciale, dunque di una giustizia autonoma e speciale. Tanassi scontò quattro mesi di carcere.

Il dibattito che in quel periodo si sviluppò in Italia riguardava la corruzione non soltanto personale dei soggetti coinvolti, ma anche il malcostume e alcuni meccanismi deviati della partitocrazia. Di fronte a quella situazione, nel marzo 1977 l’Onorevole Aldo Moro della Democrazia Cristiana, nei lavori della seduta parlamentare comune per la decisione dello stato d’accusa, aveva affermato che <<Una volta tanto non siamo legislatori, ma giudici, intendo giudici non in senso tecnico-giuridico, ma politico>>, e che <<la valutazione… non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa>>.

In quella stagione politica italiana, si sentiva il bisogno di un cambiamento che riguardasse le regole procedurali per esercitare una giustizia nella politica; e non più una giustizia della politica sulla politica stessa. Siccome bisognava tener conto della libertà di azione governativa e della teoria che qualifica l’atto politico come un atto tendenzialmente libero nel fine, nella riforma costituzionale vi furono dei compromessi tra le distinte esigenze.

La legge costituzionale numero 1 del 1989, infatti, ha riscritto l’articolo 96 della Carta costituzionale nella versione sopra illustrato, prevedendo una semplice autorizzazione parlamentare a procedere come filtro per trasmettere un caso di reato ministeriale alla giurisdizione ordinaria, secondo le particolari regole sulla competenza già ampiamente descritte.

È ammirabile lo sforzo di riformare la materia dei reati ministeriali, illuminandola con il principio fondamentale di uguaglianza formale di fronte alla legge per tutti i cittadini. Si è cercato di rendere il più possibile ordinaria la procedura di accertamento e persecuzione dei reati commessi dai Ministri, che sono altissimi operatori del potere governativo e politico dello Stato. 

C’è chi critica la conformazione attuale degli equilibri tra i diversi poteri statuali. Una parte delle critiche proviene dalle dottrine conservatrici, che vorrebbero mantenere l’atto governativo come atto assolutamente insindacabile dal potere giudiziario. Un’altra parte delle critiche, invece, proviene dalle correnti di pensiero che vogliono una legalità rigorosamente e meccanicamente connessa al valore dell’eguaglianza, ed in ragione di ciò propongono l’eliminazione del filtro dell’autorizzazione parlamentare. 

Le dottrine più in linea con l’attuale assetto costituzionale auspicano il mantenimento dell’attuale regime giuridico in materia, perché esse sono preoccupate per gli eventuali attacchi che i Ministri potrebbero ricevere dai propri avversari politici, attraverso il normale strumento giudiziario. Le posizioni più moderate, pertanto, restano fiduciose sull’utilizzo del buon senso da parte dei Ministri, con la loro facoltà di rinunciare o non rinunciare al trattamento speciale ad essi costituzionalmente riservato. Occorre sottolineare che il buon senso non deve essere automaticamente e necessariamente collegato ad un atteggiamento di rinuncia al filtro parlamentare. Ogni fatto ed ogni situazione umana è diversa dalle altre: la storia ce lo insegna!

Se si studia l’ordinamento giuridico italiano precedente all’età costituzionale repubblicana, si può osservare una più radicale separazione e diversificazione dei procedimenti a carico dei Ministri, rispetto alle regole processuali ordinarie prescritte per tutti gli altri cittadini.

Lo Statuto albertino, concesso nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia per il Regno di Sardegna e poi divenuto la Carta costituzionale del Regno d’Italia a partire dal 1861 in seguito all’unificazione politica, attribuiva la funzione di giudicare i delitti ministeriali al Senato del Regno costituito in Alta Corte di Giustizia.

Infatti l’articolo 36 dello Statuto della monarchia costituzionale italiana sanciva quanto segue:

“Il Senato è costituito in Alta Corte di Giustizia con decreto del Re per giudicare dei crimini di alto tradimento, e di attentato alla sicurezza dello Stato, e per giudicare i Ministri accusati dalla Camera dei Deputati. In questi casi il Senato non è capo politico. Esso non può occuparsi se non degli affari giudiziarii, per cui fu convocato, sotto pena di nullità”. 

L’articolo 47 dello Statuto albertino, poi, prescriveva che la Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del Re, e di tradurli dinanzi all’Alta Corte di Giustizia.

Si aveva un regime giuridico in cui la Camera dei Deputati, elettiva e composta da Deputati scelti dai Collegi Elettorali secondo le leggi dell’epoca, era competente per l’accusa dei Ministri. Al Senato di nomina regia, costituito in Alta Corte di Giustizia, invece, spettava il compito di giudicare i Ministri sulla base delle imputazioni della Camera. 

Dalle ricerche condotte da chi qui scrive sui fascicoli processuali dell’Alta Corte di Giustizia, conservati a Roma nell’Archivio Storico del Senato, si può apprendere che nel maggio 1898 l’Alta Corte aveva dichiarato l’improcedibilità di un procedimento per falso in atto pubblico a carico del Senatore ed ex Ministro delle Finanze Lazzaro Gagliardo, in riferimento a fatti commessi nel periodo del suo ministero, a causa dell’assenza di una ufficiale accusa della Camera dei Deputati. Nel 1908, la Camera chiese all’Alta Corte del Senato di procedere in giudizio contro l’ex Ministro della Pubblica Istruzione Nunzio Nasi con l’autorizzazione all’arresto. Studiando il relativo fascicolo processuale ho appreso che l’Alta Corte di Giustizia, con sentenza del 24 febbraio 1908, dichiarò colpevole Nunzio Nasi per il delitto di peculato continuato con danno lieve ed in concorso di circostanze attenuanti, e lo condannò alla pena della reclusione per undici mesi e venti giorni, alla multa di Lire 292 e alla interdizione dai pubblici uffici per la durata di quattro anni e due mesi; lo condannò pure al risarcimento dei danni ed alle spese processuali. L’Alta Corte di Giustizia inviò gli atti all’autorità giudiziaria ordinaria soltanto per provvedere sulle spese, sulla confisca e sulla restituzione degli oggetti e dei documenti posti in sequestro.

Da questa breve esposizione sugli strumenti processuali di esercizio della giustizia sulla politica, ed in seguito ad altre ricerche accademiche condotte in materia, chi qui scrive ha potuto ipotizzare alcune considerazioni generali. Si può dare per certa la sussistenza di un’esigenza di prudenza nel perseguire i reati ministeriali. Questa prudenza è richiesta dalla natura stessa della delicata funzione di governo di uno Stato. Si deve tener conto da un lato dell’esigenza di evitare una politicizzazione in senso stretto dell’attività giudiziaria, e dall’altro lato dell’esigenza di garantire a tutti i cittadini il rispetto dei princìpi fondamentali della Costituzione italiana e l’indegradabilità dei diritti inalienabili della persona, senza distinzioni. 

La delicata particolarità della tematica dei reati ministeriali necessita di altrettanto particolari accorgimenti procedimentali, già sul piano legislativo della loro ideazione.

Più si va indietro nel tempo e più le fonti legislative ci dimostrano che le risposte processuali tendevano a creare degli organi appositi in una sorta di autodichia speciale, dunque in una giustizia autonoma e speciale. Si può notare questa tendenza istituzionale nella costituzione dell’Alta Corte di Giustizia all’interno dello stesso Senato del Regno, durante la vigenza dello Statuto albertino. Con la creazione di organi speciali, e non soltanto specializzati, e per di più anche interni al mondo politico, però, si rischiava una assolutizzazione della logica autoreferenziale di autodichia penale, contro ogni esigenza di uguaglianza davanti alla legge. I risultati di questa autodichia penale e speciale potevano dimostrarsi favorevoli o sfavorevoli per i Ministri, a seconda delle correnti di volta in volta dominanti nel Senato costituito in Alta Corte di Giustizia.

In seguito, con l’avvento del costituzionalismo repubblicano nella metà del XX secolo in Italia, si è cercato di dare delle risposte più garantiste per i Ministri processati. Si è cercato al contempo di costruire un sistema rispettoso del contenuto fondamentale del principio di uguaglianza davanti alla legge. La tendenza attualmente maggioritaria nelle rimeditazioni sulla procedura di accertamento e persecuzione dei reati ministeriali è quella di ideare risposte certe, e capaci di staccarsi dalla logica autoreferenziale di specialità assoluta. 

Oggi, per i reati dei Ministri occorre una soluzione di specialità minima necessaria, idonea a coniugare il rispetto della separazione dei poteri statuali con il cardine giuridico dell’uguaglianza tra i cittadini nel processo penale. 

Nulla dell’oggi può essere compreso veramente se non si parte dalle considerazioni storiche, con un metodo che studia ciascuna epoca con gli occhiali cognitivi fornitici dagli strumenti e dalle coordinate gnoseologiche di quella specifica epoca, seppur appresi e filtrati dalle consapevolezze contemporanee, ex post. Ogni considerazione sistematica sulla evoluzione storica di un istituto o di una istituzione non può prescindere da un previo studio storico-giuridico affrontato con le dovute accortezze metodologiche. La storia del diritto infatti non è mera serva di corredo del diritto vigentista, ma è una disciplina che richiede un metodo suo specifico, e che anche attraverso l’oggettivizzazione del materiale raccolto e messo a “sistema” può fungere da ausilio di coscienza, per chi vuole avere una visione critica in corsia all’interno delle istituzioni, e negli esercizi delle cittadinanze attive in politica.

A chi vuole approfondire alcuni profili inerenti alla questione della giustizia politica italiana, anzitutto in una prospettiva attenta alle radici storiche, si suggerisce la lettura di due saggi, frutto di un lungo e modesto lavoro di chi qui scrive, editi da pochi giorni. Il primo si intitola “L’Alta Corte di Giustizia. Sulla funzione giurisdizionale del Senato in epoca statutaria”, ed è stato pubblicato nel paper 7 delle anticipazioni del numero 18/2020 della Rivista accademica “Historia et ius” sul sito www.historiaetius.eu. Il secondo saggio, intitolato ‹‹ Perspectives historiques sur la “ justice politique ” : la responsabilité pénale des ministres en Italie ››, è stato pubblicato all’interno di un’opera collettanea della “Roma Tre Press”, sul sito romatrepress.uniroma3.it. Il primo saggio è il frutto di una intensa ricerca nell’Archivio Storico del Senato e nella Biblioteca “Spadolini” del Senato della Repubblica, e non solo, a Roma. Il secondo saggio è frutto di un intervento che chi qui scrive ha avuto il piacere di tenere in Francia, presso la Facoltà di Diritto e Scienze Sociali dell’Università di Poitiers, in occasione di un gemellaggio scientifico tra i giuristi dell’Università Roma Tre e i giuristi dell’Università di Poitiers, il 26 settembre 2019. 




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